Cinema

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Il cinema è al contempo uno dei mezzi più potenti della comunicazione di massa e una vera e propria forma d'arte che segue, e a volte contraddice, i propri canoni e stilemi, generando un continuo dibattito sulla qualità e l'originalità dei film prodotti di anno in anno.

 

Sin dagli anni Venti, l'estetica del cinema, o della "settima arte" come la definì allora Ricciotto Canudo, ha convogliato innumerevoli riflessioni di critici e teorici, che hanno però sottovalutato, fin troppo spesso, le sue forme espressive più popolari, ovvero quelle con il maggior impatto sulla vita sociale e culturale, per concentrarsi sulle opere artisticamente più elevate, ma solitamente meno diffuse e conosciute.

Tener conto sia della prospettiva artistica degli autori più celebrati dalla critica, sia di quella relativa alle produzioni più popolari, è invece essenziale per comprendere il ruolo effettivamente svolto dal cinema nel mutante panorama linguistico e culturale di un paese come il nostro.

 

Nella prospettiva italiana, in particolare, il cinema ha svolto un ruolo importante nell'unificazione linguistica, seguendo dapprima un modello letterario, tendenzialmente monolitico, per poi offrirsi anche come luogo d’incontro ideale per la narrazione dei fermenti sociali e culturali, in cui hanno trovato spazio anche i dialetti e gli italiani regionali.

Più in generale, il rapporto tra cinema e lingua è un rapporto complesso e ricchissimo di sfaccettature, difficili da cogliere senza avere prima un'idea chiara del suo percorso evolutivo.

 

L'obiettivo di questa sezione, dunque, è di offrire al lettore una prospettiva storica della produzione cinematografica italiana, che intende tener conto delle varie forme del suo linguaggio, così come degli orientamenti del pubblico e della critica, trattando sinteticamente i principali generi e indirizzi estetici, i maggiori autori, gli attori più noti e i film più rappresentativi, dall'epoca del muto al neorealismo, e dalla commedia all'italiana fino alle sue espressioni più recenti.

 

(a cura di Giovanni Cordoni)

1. Nascita del cinema italiano: l'epoca del muto

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Il cinema approdò in Italia pochi mesi dopo la prima proiezione pubblica a pagamento dei fratelli Lumière (Parigi, 28 dicembre 1895), protagonisti della nascita del nuovo mezzo di comunicazione di massa e suoi principali promotori nella fase iniziale. Nel marzo del 1896, infatti, ebbero luogo le prime proiezioni pubbliche, per iniziativa degli stessi fratelli Lumière, a Roma e Milano.
 
 
Nel giro di pochi anni, sorsero le prime sale cinematografiche e presero forma le prime produzioni italiane, prevalentemente di carattere storico, tra cui "La presa di Roma" (1905, primo film italiano a soggetto) di Filoteo Alberini, che nel 1906 fondò anche una delle prime case di produzione del nostro paese: la Cines, con sede a Roma. Contemporaneamente, nacquero la Ambrosio (Roma, 1905), la Itala Film (Torino, 1906) e la Partenope Film (Napoli, 1907).
 
 
I primi successi cinematografici, con un'importante diffusione anche all'estero, furono "Gli ultimi giorni di Pompei" (1908), "L'Inferno" (1911), "La caduta di Troia" (1911), "Quo Vadis?" (1913) e, soprattutto, "Cabiria" (1914), film-celebrazione della romanità trionfante, le cui didascalie furono scritte da Gabriele D'Annunzio. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, le produzioni italiane, come quelle di altri paesi europei, si concentrarono sulle tematiche dell'eroismo. Non a caso, Maciste, l'eroe della forza introdotto con "Cabiria", venne ripreso e coniugato al presente in "Maciste alpino" (1916), con "l'intento di produrre identificazione con la figura dell'eroe ed entusiastica adesione a una guerra rappresentata in un aspetto assai familiare" (G.P. Brunetta, 1999, pag. 267).
 
 
Nel frattempo, il regista Nino Martoglio tentava la via del realismo con "Sperduti nel buio" (1914), mentre i futuristi pubblicavano un manifesto della cinematografia (1916) e proponevano film provocatori e anticonvenzionali come "Vita futurista" (1916) di Arnaldo Ginna e "Thaïs" (1917) di Anton Giulio Bragaglia, ma ad affermarsi presso il grande pubblico, accanto ai kolossal epico-storici, furono i drammi sentimentali dei film diretti da Mario Caserini, Carmine Gallone, Augusto Genina, e interpretati dai primi divi del cinema italiano, tra cui, Lyda Borelli, Francesca Bertini, Pina Menichelli, Emilio Ghione (nel ruolo di Za-la-Mort), Mario Bonnard e Bartolomeo Pagano (Maciste). In questa prospettiva, però, il successo maggiore fu quello di un altro attore italiano, che trovò fortuna non nel nostro paese, ma negli Stati Uniti, dove emigrò a 18 anni: Rodolfo Valentino, prototipo del "latin lover", autentica icona degli anni '20  e primo esempio di divismo di massa nella storia del cinema.
D'altra parte, dopo la prima guerra mondiale, furono proprio le produzioni hollywoodiane a dominare sugli schermi europei, mentre il cinema italiano sperimentava una crisi da cui sarebbe uscito solo con l'avvento del sonoro.
 

 

 

2. L'avvento del sonoro: tra canzoni, telefoni bianchi e propaganda

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I primi film sonori italiani furono realizzati dalla Cines nel 1930: "La canzone dell'amore" di Gennaro Righelli, con le musiche di Cesare Andrea Bixio, e "Resurrectio" di Alessandro Blasetti. Il primo, in particolare, fu un successo internazionale, come film e soprattutto come canzone. Sull'onda di tale successo, fu proprio la "commedia con canzoni" il genere su cui puntò la cinematografia italiana per rispondere allo strapotere di Hollywood, già allora predominante in Italia e in Europa con i film di F. Capra, J. Von Sternberg, E.Lubitsch e attori del calibro di Clark Gable, Gary Cooper, Greta Garbo e Marlene Dietrich.
 
Il divario di mezzi e risorse rispetto al cinema americano era però incolmabile, e si ricercò la co-produzione internazionale, in particolare con la Germania, che divenne partner privilegiato del nostro paese sui grandi schermi prima ancora che in politica. Dal legame con il cinema tedesco nacquero infatti film come "La segretaria privata" (1931) di Goffredo Alessandrini, con Elsa Merlini e Nino Besozzi, e "La telefonista" (1932) di Nunzio Malasomma: era l'inizio del filone dei "telefoni bianchi". Contemporaneamente, Mario Camerini dirigeva "Gli uomini, che mascalzoni..." (1932), variante sullo stesso filone, portata al successo dalla canzone "Parlami d'amore Mariù" (di Bixio e Cherubini), interpretata dalla stella emergente Vittorio De Sica. Fu questo l'unico film italiano in concorso alla prima Mostra del Cinema di Venezia, istituita nello stesso 1932. Furono proprio i film di Camerini, insieme a quelli di Blasetti, a segnare una prima rinascita del cinema italiano dopo la crisi del decennio precedente.
 
A tale rinascita contribuirono poi anche le iniziative del regime fascista,in particolare il Centro Sperimentale di Cinematografia (1935) e Cinecittà (1937): il cinema italiano divenne presto un'industria capace di produrre ottanta pellicole l'anno e di generare divi come Amedeo Nazzari, Assia Noris e Alida Valli. L'interesse del regime per questo settore era però finalizzato soprattutto alla propaganda: per Mussolini, il cinema era "l'arma più forte", il mezzo ideale per diffondere e celebrare la sua immagine e quella del fascismo, di cui doveva veicolare i valori e le prospettive. Non a caso, già nel 1924 era nata L'Unione Cinematografica Educativa (poi nota come Istituto LUCE), l'ente incaricato di realizzare e diffondere i cinegiornali e i documentari del regime.
 
Come osservò Walter Benjamin nel suo saggio "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" (1936): "Il fascismo tende a un'estetizzazione della vita politica. Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate dal culto del duce, corrisponde la violenza da parte di un'apparecchiatura di cui esso si serve per la produzione di valori culturali. Tutti gli sforzi in vista di un'estetizzazione della politica convergono verso un punto. Questo punto è la guerra". Non a caso tra i film più direttamente associati alla propaganda fascista si ricordano pellicole come "Scipione l'Africano" (1937) di Carmine Gallone, "Luciano Serra pilota" (1938) e "Abuna Messias" (1939) di Goffredo Alessandrini, che esaltavano la politica imperialista del regime e in particolare la Guerra d'Etiopia.
 
Nel giro di qualche anno però, il cinema di propaganda perse il suo potere di fascinazione sul pubblico, soprattutto da quando gli esiti nefasti del secondo conflitto mondiale cominciarono ad essere evidenti ai più, mentre il filone dei "telefoni bianchi" veniva soppiantato da commedie più realistiche e in particolare dal fenomeno Totò.
 

3. Il neorealismo

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Con la seconda guerra mondiale ancora in corso, preceduto dal dibattito sulle riviste del settore (tra cui "Cinema" e "Bianco & Nero" ) e anticipato da film come "Quattro passi tra le nuvole" (1942) di Alesandro Blasetti, "I bambini ci guardano" (1943) di Vittorio De Sica e soprattutto "Ossessione" (1943) di Luchino Visconti, prende forma il neorealismo: uno "spartiacque cruciale nella storia dell'estetica del cinema mondiale, un indirizzo estetico che ha cambiato il modo di intendere e fare il cinema" (Enciclopedia del Cinema, Garzanti, 2009, pag. 985). Definito come "cinema dei fatti", la sua essenza non risiede solo nella volontà di voler rappresentare la realtà (scelta questa già operata, per esempio, nelle pellicole mute di Nino Martoglio). Il neorealismo, infatti, "ridefinisce le coordinate del cinema dalle fondamenta e ne riformula i principi formali, strutturali e di poetica, offrendo a tutto nuovi paradigmi narrativi e rappresentativi, restituendo allo spettatore la capacità di vedere" (Brunetta,1999, pag. 49). Il suo messaggio è quello della solidarietà umana che nasce dalla Resistenza e dallo spirito antifascista e suoi tratti unificanti sono l'attenzione rivolta agli eventi più recenti, la centralità dei personaggi tratti dalla vita quotidiana, l'ampio ricorso ad attori non professionisti, l'impiego della lingua parlata corrente invece dell'italiano standard di tipo radiofonico, e la preferenza per le ambientazioni reali, invece delle ricostruzioni in studio.

 

Il film manifesto del neorealismo è "Roma città aperta" (1945) di Roberto Rossellini, che risponde con uno stile semplice e diretto alla retorica del ventennio fascista, intrecciando le vicende umane e politiche di alcune delle vittime dell'occupazione nazista nella capitale, interpretate da Aldo Fabrizi (il don Pietro fucilato per aver aiutato i partigiani), Anna Magnani (la popolana Pina, uccisa mentre rincorre il camion dei tedeschi che portano via il marito) e Marcello Pagliero (il comunista Manfredi, torturato a morte). La straordinaria capacità del regista nel cogliere e sintetizzare la realtà caratterizza anche altri due capolavori del suo neorealismo: "Paisà" (1946), film in sei episodi che ripercorre l'avanzata degli alleati dalla Sicilia al Polesine, e "Germania anno zero" (1948), che racconta la storia di un tredicenne nella Berlino semidistrutta dell'immediato dopoguerra.

 

Tra i capisaldi del neorealismo spiccano poi "La terra trema" (1948) di Visconti, rilettura in chiave progressista dei "Malavoglia" di Giovanni Verga realizzato con attori non professionisti che parlano un siciliano autentico, e "Riso amaro" (1949, con Vittorio Gassman e Silvana Mangano) di Giuseppe De Santis, che fonde coscienza civile e spettacolo. È però Vittorio De Sica, insieme allo sceneggiatore Cesare Zavattini, a firmare le pellicole grazie alle quali il neorealismo si fa conoscere meglio all'estero: "Sciuscià" (1946), "Ladri di biciclette" (1948), "Umberto D" (1952), storie di aspirazioni e sogni, anche modesti, che si infrangono contro la dura realtà quotidiana. Nei primi anni Cinquanta, il neorealismo (di cui si ricordano anche altri autori come Pietro Germi, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani e Aldo Vergano) può considerarsi formalmente esaurito, anche se la sua eco è rintracciabile nell'opera di molti autori italiani e internazionali che ne hanno assorbito e rielaborato l'influenza nei decenni seguenti.

4. Il cinema d'autore tra gli anni cinquanta e settanta

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Dall'esperienza neorealista prendono le mosse, per poi distanziarsene, i maggiori interpreti di quel cinema d'autore che vive tra gli anni cinquanta e settanta un periodo di assoluto splendore, grazie a maestri della "settima arte" come Luchino Visconti, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini

 

Visconti, che pure ne era stato tra i padri fondatori, si allontana dal neorealismo degli esordi a favore di una forte componente melodrammatica, legata anche alla sua importante esperienza in ambito teatrale e lirico, e realizza pietre miliari della cinematografia italiana come "Senso" (1954), "Rocco e i suoi fratelli" (1960) e "Il gattopardo" (1963). 

Fellini, già sceneggiatore per "Roma città aperta" (1945), si distingue a partire dagli anni cinquanta per una serie di pellicole ("Lo sceicco bianco", 1952; "I vitelloni", 1953; "La strada", 1954; "Le notti di Cabiria", 1957) in cui coniuga, con sensibilità e raffinatezza, realismo attento ai temi sociali, autobiografismo ironico e visionarietà onirica; raggiunge l'apice della sua carriera con "La dolce vita" (1960), "8½" (1963) e "Amarcord" (1973), opere che lo consacrano come il più celebre regista italiano, nonché autore tra i più importanti nell'intera storia del cinema. 

Antonioni, collaboratore di Rossellini e De Santis negli anni quaranta, si afferma come interprete del disagio esistenziale e dell'incomunicabilità con film come "Cronaca di un amore" (1950), "Il grido" (1957) e "L'avventura" (1960), che si caratterizzano per l'uso di lunghi piani sequenza, scambi comunicativi rarefatti e finali aperti. 

Pasolini debutta dietro la macchina da presa con "Accattone" (1961), storia sui ragazzi delle borgate romane che riprende la descrizione del sottoproletariato già presente nei suoi romanzi "Ragazzi di vita" e "Una vita violenta", e realizza autentici capolavori fuori dagli schemi con "Il Vangelo secondo Matteo" (1964) e "Salò o le 120 giornate di Sodoma" (1975).

 

Anche altri autori si distinguono tra gli anni sessanta e settanta per il rinnovamento tematico e stilistico. Si ricordano, in particolare, il cinema dell'impegno civile di Francesco Rosi ("Salvatore Giuliano", 1961;  "Le mani sulla città", 1963; "Il caso Mattei", 1972) e dei fratelli Taviani ("San Michele aveva un gallo", 1976; "Padre padrone", 1977), il cinema anticonformista e provocatorio di Marco Ferreri ("Dillinger è morto", 1969; "La grande abbuffata", 1973), i film elegiaci e introspettivi di Ermanno Olmi ("Il posto", 1961; "L'albero degli zoccoli", 1978), la critica radicale e rabbiosa della famiglia borghese espressa da Marco Bellocchio con "Pugni in tasca" (1965), il cinema politico di autori come Gillo Pontecorvo ("La battaglia di Algeri", 1966) ed Elio Petri ("A ciascuno il suo", 1967; "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto", 1970; "La classe operaia va in paradiso", 1971) e il cinema a vocazione internazionale di Bernardo Bertolucci ("La strategia del ragno", 1970; "Ultimo tango a Parigi", 1972), un regista destinato ad accrescere in seguito la propria fama mondiale con due delle pellicole più celebri degli anni ottanta e novanta:  "L'ultimo imperatore" (1987) e "Piccolo Buddha" (1993).

5. La commedia all'italiana

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Tra gli anni cinquanta e sessanta si afferma la commedia all'italiana, genere che fonde elementi comici e drammatici, trattando temi di interesse sociale e politico con tono ironico, intento satirico e gusto per il grottesco. A differenza di altri tipi di commedia, si tratta di un filone capace di mettere a nudo le contraddizioni del nostro paese e dei suoi cittadini, ponendosi in vari casi a un livello intermedio tra il cinema di genere e quello d'autore, grazie all'opera di registi come Mario Monicelli e Dino Risi, e di sceneggiatori come Age e Scarpelli, Ettore Scola, Sergio Amidei, Vitaliano Brancati, Ruggero Maccari, Rodolfo Sonego, non di rado provenienti dall'esperienza neorealista.

 

Non a caso, tra i primi filoni che nel dopoguerra aprono alla commistione tra realismo e commedia, rientra il cosiddetto "neorealismo rosa" di film come "Due soldi di speranza" (1951) di Renato Castellani, "Le ragazze di Piazza di Spagna" (1952) di Luciano Emmer, "Pane amore e fantasia" (1953) di Luigi Comencini e "Poveri ma belli" (1956) di Dino Risi: enormi successi di pubblico (soprattutto gli ultimi due) che offrivano anche un quadro, divertente ed efficace, della realtà italiana negli anni della ricostruzione.

 

D'altra parte, come avrebbe poi sostenuto Marco Ferreri, "la commedia è il neorealismo riveduto e corretto per mandare al cinema la gente", e nell'Italia del dopoguerra si affermano soprattutto quei film che rispecchiano la realtà sociale e politica, utilizzando un linguaggio popolare (i dialetti o più spesso gli italiani regionali), nella cornice di un intrattenimento leggero e d'evasione; ne sono esempi i film con Aldo FabriziTotò Peppino De Filippo, la serie di Don Camillo e Peppone, tratta dai racconti di Giovanni Guareschi e interpretati da Fernandel e Gino Cervi, e i film di Luigi Zampa ("L'onorevole Angelina", 1947; "Anni difficili", 1948, "Anni facili", 1953; "L'arte di arrangiarsi", 1954).

 

La commedia all'italiana, che nasce sulle basi di tale retroterra, si afferma in maniera più compiuta dalla fine degli anni cinquanta, quando si sviluppa una prospettiva cinica e disincantata sulle trasformazioni sociali in atto (industrializzazione, urbanizzazione, nascita del consumismo, evoluzione del costume nazionale ecc.). Il film capostipite del genere è generalmente ritenuto "I soliti ignoti" (1958) di Monicelli, mentre tra le altre pellicole più rappresentative rientrano "Il sorpasso" (1962) di Dino Risi e "Divorzio all'italiana" (1961) di Pietro Germi, pellicola quest'ultima da cui il genere trae il nome.

 

Grazie anche alle memorabili interpretazioni di alcuni tra i maggiori attori italiani, come Alberto SordiVittorio GassmanUgo TognazziMarcello Mastroianni, Nino Manfredi Monica Vitti, la commedia all'italiana mise alla berlina i vizi nazionali (corruzione  dilagante, lentezza della burocrazia, opportunismo, teledipendenza ecc.), attirando l'attenzione del grande pubblico su temi di interesse sociale. Dal passato alla contemporaneità, il campo di azione della commedia all'italiana fu vastissimo: rivisitò con acume e spirito anti-retorico la storia nazionale ("La Grande Guerra" di Monicelli, 1959; "Tutti a casa" di Vittorio De Sica, 1960; "Il federale" di Luciano Salce, 1961; "L'armata Brancaleone" di Monicelli, 1966), sottolineò le contraddizioni del miracolo economico ("I mostri" di Risi e "Il boom" di De Sica, entrambi del 1963), denunciò la malasanità ("Il medico della mutua" di Zampa, 1968) e inneggiò all'emancipazione femminile ("La ragazza con la pistola" di Monicelli, 1968).

 

Tra la seconda metà degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, complici il mutato clima politico-sociale e l'esaurirsi della vena creativa dei suoi artefici, la stagione d'oro della commedia all'italiana poteva considerarsi terminata. Una simbolica conclusione testamentaria del genere può essere rintracciata in "Amici miei" (1975) di Monicelli, che della commedia all'italiana mantiene il cinismo e il gusto per la burla, descrivendo però con una durezza inedita una società insoddisfatta e priva di prospettive. 

 

6. Il cinema di genere, tra melodrammi, western e "poliziotteschi"

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Una vasta parte della produzione cinematografica, quella più commerciale e popolare, è costituita dal cosiddetto cinema "di genere" o "di consumo", solitamente snobbato dalla critica, ma molto apprezzato dal pubblico. Si tratta di un cinema capace di generare lasciti duraturi nell'immaginario collettivo e nel linguaggio comune, e di raggiungere, in alcuni casi, una notevole risonanza anche all'estero.

 

Nel dopoguerra, tra i primi generi di grande popolarità, spicca il melodramma "strappalacrime" di Raffaello Matarazzo, che a partire dallo strepitoso successo di "Catene" (1949) delinea la via italiana al genere, definito anche come "neorealismo popolare" o "neorealismo d'appendice" per l'affinità con il feuilleton ottocentesco. Tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta, riscuotono un forte consenso, soprattutto tra i giovani, anche i cosiddetti "musicarelli": film che nascono sull'onda del successo di cantanti come Domenico Modugno, Gianni Morandi, Rita Pavone, Mina e Adriano Celentano.

 

Tra i vari generi nati negli anni sessanta-settanta, due in particolare hanno un considerevole riscontro anche all'estero: il western all'italiana di Sergio Leone e il thriller-horror, di cui Dario Argento è certamente il regista più noto.  

 

Con la "trilogia del dollaro", formata da "Per un pugno di dollari" (1964), "Per qualche dollaro in più" (1965) e "Il buono, il brutto, il cattivo" (1967), Sergio Leone ridefinisce i canoni del western classico e confeziona tre enormi successi di pubblico che segnano la nascita del western all'italiana (il cosiddetto spaghetti-western), caratterizzato tra l'altro dall'accentuazione della violenza, la dilatazione dei tempi (con primi piani insistiti e sequenze che evocano solennità e ritualità) e il sottile taglio dissacratore. Il favore del pubblico, in tutto il mondo, è tale da innescare la proliferazione di un genere che produce, dal 1964 al 1973, oltre quattrocento film che ne riprendono la formula, dando poi vita anche a un filone "politico" (per esempio "Quien sabe?" di Damiano Damiani, 1966) e a quello comico che si impone sull'onda del successo della coppia formata da Bud Spencer e Terence Hill (a partire da "Lo chiamavano Trinità", 1970, di E. Barboni).

 

Il thriller-horror, invece, si afferma in Italia a partire dalla pellicole di Riccardo Freda ("I vampiri", 1956; "L'orribile segreto del dr. Hichcock", 1962) e Mario Bava ("La maschera del demonio", 1960), e trova la sua formula più compiuta nella filmografia di Dario Argento. A partire dal successo internazionale di "L'uccello dalle piume di cristallo" (1970), Argento s'impone con uno stile che coniuga sadismo voyeuristico, colpi di scena improvvisi, spazi claustrofobici, colori saturi e colonne sonore angoscianti, e che trova in "Profondo rosso" (1975) la sua pellicola più rappresentativa.

 

Un genere meno esportato, ma più influente sul linguaggio comune all'interno dei confini nazionali, è quello comico. Negli anni settanta in particolare, tra le commedie sexy (spesso interpretate da Lino Banfi in coppia con Edwige Fenech) e le parodie di Franco e Ciccio, emerge soprattutto la saga del ragionier Fantozzi: un personaggio, creato e interpretato da Paolo Villaggio, che si impone nell'immaginario collettivo, divenendo figura emblematica dell'impiegato goffo, servile e frustrato.

 

Tra gli altri generi che si affermano negli anni settanta, si ricorda infine il poliziesco all'italiana, detto "poliziottesco", rivalutato in anni recenti anche per impulso del regista Quentin Tarantino, che lo ha citato più volte come fonte d'ispirazione.

7. Gli autori-attori e le realtà del nuovo millennio

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Dalla seconda metà degli anni settanta, complice l'avvento della televisione commerciale, il settore cinematografico ha vissuto una marcata crisi di pubblico che ha influito anche sulle proprie capacità produttive. Una tendenza, in particolare, è riuscita a ridare ossigeno al cinema italiano, riportando gli spettatori nelle sale: gli autori-attori (spesso provenienti dal cabaret, ma anche dalla stessa tv) che soprattutto negli anni ottanta e novanta hanno segnato una nuova fase della commedia italiana, caratterizzata dal ridimensionamento dei mezzi, ma anche dalla capacità di generare film di grande popolarità. In particolare, Massimo Troisi, Roberto Benigni, Carlo Verdone, Leonardo Pieraccioni e il trio Aldo, Giovanni e Giacomo (allo stesso tempo autori, registi e interpreti dei propri film) hanno rinverdito il genere e firmato pellicole, con forti tratti linguistici regionali, capaci di battere più volte al botteghino le maggiori produzioni internazionali.

 

La tradizione partenopea trova in Troisi uno dei suoi attori più popolari: dopo gli anni nel gruppo cabarettistico "La smorfia", debutta alla regia con "Ricomincio da tre" (1981), film campione di incassi in un periodo difficile per il cinema italiano, si conferma poi con "Non ci resta che piangere" (1984), dove insieme a Benigni dà vita a un efficace connubio tra comicità napoletana e toscana, e commuove con la sua ultima interpretazione in "Il postino" (1994) di M. Radford. Il toscano Benigni si afferma come il più celebre in assoluto tra gli attori-registi, con film come "Il piccolo diavolo" (1988), "Johnny Stecchino" (1991), "Il mostro" (1994), e soprattutto "La vita è bella" (1997), trionfo internazionale, premiato con tre Oscar: miglior film straniero, migliori musiche (Nicola Piovani) e miglior attore (per la prima volta assegnato a un interprete maschile italiano). Anche sull'onda del successo travolgente di Benigni, il cinema toscano vive un periodo decisamente fortunato, in particolare con  "Il ciclone" (1996) di Leonardo Pieraccioni, record d'incassi della stagione 1996-97. La comicità romana, invece, trova il suo autore più rappresentativo in Carlo Verdone, erede del talento comico-satirico di Alberto Sordi, dotato di una notevole capacità di tipizzazione degli italiani ("Bianco, rosso e Verdone", 1981; "Compagni di scuola", 1988; "Viaggi di nozze", 1995), mentre il trio milanese di Aldo, Giovanni e Giacomo ("Tre uomini e una gamba", 1997; "Così è la vita", 1998; "Chiedimi se sono felice", 2001; tutti co-diretti da Massimo Venier) fa registrare i maggiori incassi, cinepanettoni a parte, a cavallo del nuovo millennio.

 

Più lontano dal cinema commerciale, già a partire dalla seconda metà degli anni settanta, spicca tra gli autori-attori Nanni Moretti, probabilmente l'unico cineasta italiano ad avere il controllo totale sulle proprie produzioni. Con uno stile innovativo e un linguaggio scarno e personale, racconta il mondo giovanile, tra disincanto politico e rifiuto dell'omologazione, in pellicole intrise di autobiografismo ("Io sono un autarchico", 1977; "Ecce bombo", 1978; "La messa è finita", 1985; "Caro diario", 1993; "Aprile", 1994), in cui riesce a convogliare un personale codice umoristico surreale e dolente, per poi spiazzare il pubblico e ottenere consensi internazionali con il drammatico "La stanza del figlio" (2001, Palma d'oro a Cannes), un film sulla caducità della vita e l'elaborazione del lutto.

 

Tra i registi "puri" che si sono affermati dagli anni ottanta in poi emergono, invece, Giuseppe Tornatore ("Nuovo cinema Paradiso", 1987, premio Oscar come miglior film straniero; "La sconosciuta", 2006), Gabriele Salvatores ("Mediterraneo", 1991, premio Oscar come miglior film straniero; "Nirvana", 1997; "Io non ho paura", 2003), Gianni Amelio ("Il ladro di bambini", 1992; "Lamerica", 1994; "Così ridevano", 1998), Marco Tullio Giordana ("I cento passi", 2000; "La meglio gioventù", 2003), Silvio Soldini ("Pane e tulipani", 2000), l'italo-turco Ferzan Özpetek ("Le fate ignoranti", 2001; "La finestra di fronte", 2003; "Saturno contro", 2008), Emanuele Crialese ("Respiro", 2002; "Nuovomondo", 2006), Paolo Sorrentino ("Le conseguenze dell'amore", 2004; "Il divo", 2008), Matteo Garrone ("Gomorra", 2008) e Giorgio Diritti ("L'uomo che verrà, 2009).

Bibliografia

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