1. Moda e design, un percorso di cultura

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Un discorso sulla moda italiana richiede che lo sguardo punti anche verso una grande varietà di altri simboli e prodotti della società italiana, così fortemente connotata – come tutti ci riconoscono – dalle abilità artigianali e dal gusto educato da secolari tradizioni artistiche. Il secondo Novecento, periodo di particolare esplosione della creatività nel nostro Paese, ha dato piena conferma di questa capacità di comporre un insieme di simboli in un’affascinante immagine unitaria del “vivere all’italiana”: ne è stato spesso specchio efficacissimo il cinema, che ha diffuso nel mondo immagini e contesti nei quali l’abbigliamento (che rinviava alle sfilate di grandi sarti e stilisti italiani, maestri nel dare particolare eleganza alle dive) si collegava a prodotti dell’industria che acquisivano particolari valori simbolici: dalla Vespa (si pensi al celebre film Vacanze romane con Gregory Peck e Audrey Hepburn), alla Lancia Aurelia (protagonista del Sorpasso di Dino Risi), alla Ferrari (capace di imporsi per velocità e resistenza sulle piste da corsa e, insieme, status symbol e raffigurazione di raffinatezza estetica). Anche il design delle arti applicate diveniva così sinonimo di stile e di gusto.

Come immagine di partenza preferiamo, però, risalire un po’ indietro, presentando la tela di Odoardo Borrani (1863) che raffigura un originale atelier (nel quale già si avverte tutto il gusto per il “ben fare”) impegnato nella preparazione delle camicie dei garibaldini.

2. Gli albori del “sistema Moda” - I Comuni e il mercato manifatturiero: Le Arti e i Mestieri

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«Firenze fu il centro di una così grande cultura perché fu la sede delle maggiori libertà che erano allora possibili» (Giovanni Villani La Nuova Cronica)

 

Il percorso della moda italiana, l’origine della sua identità, inizia nel Medioevo con una nuova forma di governo locale, il Comune, propagatasi dall’Italia centro-settentrionale verso l'Europa occidentale. L’incremento demografico e la ripresa delle attività artigianali che favorirono la rinascita della città nell’XI secolo, generò un processo di emancipazione dall'autorità feudale con decisive trasformazioni nella società. L'organizzazione della vita, sempre più fondata sul lavoro e sulla “mercatura”, stimolò la formazione di gruppi associativi fra cittadini: basilare fu il ruolo delle Corporazioni delle Arti e Mestieri, associazioni di mercanti e artigiani riunite secondo il mestiere praticato.

Le attività e i commerci più importanti in Italia si basavano sulla lavorazione dei tessuti e sulla tessitura di drappi preziosi. La prosperità di città come Firenze, Lucca e Venezia deve molto alla pregiata attività tessile e sartoriale di cui furono centro.

Particolarmente rilevante fu il ruolo delle Arti di Firenze. Prima, nel 1150, l’Arte dei Mercatanti (o di Calimala), vera società di “import-export” che acquistava le migliori materie prime, come la lana grezza da Inghilterra o Spagna, le trasformava in prodotti finiti di alto pregio attraverso un iter di più di venti fasi tutelate da rigide norme di qualità e monopolio e infine le rivendeva a prezzi altissimi, con un giro di affari imponente. Riprova dell’enorme flusso di denaro in atto fu la nascita della Zecca di Firenze nel 1237, con il conio del fiorino che alla fine del secolo era già in uso in tutta Europa, sia come moneta reale che come valuta di conto.

Intorno al 1193 esistevano in città già sette corporazioni Maggiori: fra queste l’Arte della Lana riuscì in breve a primeggiare su tutte per ricchezza, prima di cedere nel Quattrocento la supremazia all’Arte della Seta, la cui produzione si sviluppò in Toscana, specie a Lucca, poi a Venezia e Como, conquistando i mercati oltralpe.

Le miniature dei Tacuinum sanitatis offrono un’ampia testimonianza del “fermento d’impresa” attivo nelle città medievali: le occupazioni artigianali illustrate nelle botteghe ci rivelano usi, costumi e ambienti a loro connesse.

Fattore vitale per osservare i cambiamenti sociali e culturali è l’influenza degli scambi, più o meno paritari, fra i popoli. Il ruolo dei mercanti, sempre in cerca di nuovi profitti, è centrale: basti citare Marco Polo e il clamoroso successo, ancora prima dell’invenzione della stampa, de Il Milione, che accese l’immaginario degli europei e cambiò la percezione dell’estremo oriente, ancora un secolo prima della scoperta dell’America.

Nuovi materiali, nuove forme e decorazioni stimolarono operatori e acquirenti imponendo nuovi stili, come il gusto orientaleggiante che si riflette nel gotico internazionale e nel costume fra XIV e XV secolo.

L’impresa manifatturiera, produttrice di merce di scambio, è strettamente legata al mercante che la diffonde e si evolve grazie ai contributi della tecnica, della ricerca degli scienziati. L’aspetto esterno dei prodotti è fondamentale nell’attrarre il compratore e la relazione fra domanda e offerta evoca criteri di gusto e stile che si connettono alla creatività degli artisti e al loro ruolo, diretto e indiretto, nel determinarli: una vera e propria filiera nella produzione di società e culture in cui l’Italia occupa un ruolo primario nell’elaborazione degli “oggetti della moda”, anche esportando artisti-artigiani, anche se, come già lamentava il Villani, tenderà a farsi influenzare dalle novità delle altrui mode.

Nell’Italia del medioevo la manifattura tessile di qualità, base dell’abbigliamento, fu comunque un settore trainante dell'economia protesa verso la Rinascita del XV secolo e di cui Firenze, divenuta capitale finanziaria del mondo, fu protagonista.

2.1. Giovanni Villani, Nuova cronica

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Libro primo; tomo I; Libro Tredecimo

cap. IV

 

La lettera che i rre Ruberto mandò al duca d’Atene, quando seppe ch’avea presa la signoria di Firenze.

 

Data a Napoli a dì XVIIII di settembre MCCCXLII,… indizione”. e nonn-è da lasciare di fare memoria d’una sformata mutazione d’abito che-cci recaro di nuovo i Franceschi che vennero al duca in Firenze; che colà dove anticamente il loro vestire e abito era il più bello, nobile e onesto, che null’altra nazione, a modo di togati romani, sì-ssi vestieno i giovani una cotta overo gonnella, corta e stretta, che non si potea vestire senza aiuto d’altri, e una coreggia come cinghia di cavallo con sfoggiate punte e puntale, e con grande scarsella alla tedesca sopra il pettignone, e il cappuccio vestito a modo di sconcobrini col batolo fino alla cintola e più, ch’era capuccio e mantello, con molti fregi e intagli; il becchetto del cappuccio lungo fino a terra per avolgere al capo per lo freddo, e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri inn-arme: I cavalieri vestivano uno sorcotto, overo guarnacca stretta, ivi su cinti, e-lle punte de’ manicottoli lunghi infino in terra foderati di vaio e ermellini. Questa istrianza d’abito non bello né onesto, fu di presente preso per i giovani di Firenze e per le donne giovani di disordinati manicottoli, come per natura siamo disposti noi vani cittadini alle mutazioni de’ nuovi abiti, e i strani contraffare oltre al modo d’ogni nazione sempre al disonesto e vanitade; e non fu sanza segno di futura mutazione di stato. Lasceremo di ciò, e diremo d’altre novità di fuori che furono ne’ detti tempi.

2.2. Il Milione di Marco Polo

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Il Devisement du monde (‘Descrizione del mondo’), ovvero Milione, è uno dei grandi libri del Medioevo romanzo, redatto in cooperazione da un viaggiatore-narratore veneziano Marco Polo e da un letterato-estensore, Rustichello da Pisa, che si trovarono prigionieri di guerra dei Genovesi nelle carceri della Superba negli anni 1298-1299. Il testo è diviso in due parti: nella prima Polo narra le avventure della sua famiglia giunta in Cina intorno al 1271, fino al ritorno a Venezia nel 1295; nella seconda descrive il viaggio via terra verso la Cina attraverso la Terrasanta e le vastissime steppe mongoliche giungendo, dopo tre anni e mezzo, ai confini del "Catai" (Cina) e infine a Pechino. Quindi, dopo ben diciassette anni di importanti missioni fino nel Yünnan e nel Tibet, il ritorno attraverso la Persia, alla cui corte soggiornò per nove mesi, ripartendo poi per Trebisonda, Costantinopoli, Negroponte. Arrivò a Venezia nel 1295, dopo venticinque anni di assenza, ma con un bagaglio inestimabile di esperienza e di conoscenza delle condizioni di vita, delle lingue e dei costumi di gran parte dell'Asia orientale, soprattutto del "Mangi" (Cina).

Un’intera sezione del testo è riservata all’impero di Kublai Khan, ultimo Gran Kan, e alla descrizione del suo sfarzoso palazzo dagli interni decorati con oro e argento.

Se Marco Polo è certamente il viaggiatore più conosciuto, non è stato certo il solo a cercare fortuna in Cina ai tempi del dominio mongolo: numerose fonti testimoniano del rapporto di alcune città italiane - soprattutto Venezia e Genova - con l'Estremo Oriente negli ultimi secoli del Medioevo e della presenza di un nutrito nucleo di mercanti italiani, al cui seguito vi giunsero in anche missionari europei, così come ambasciate mongole arrivarono fino alla sede del Papa. La documentazione su questi scambi ruotava sulle miniature, sui manoscritti mercantili con utili indicazioni di viaggio e descrizioni di luoghi e persone e soprattutto sui prodotti da lì importati attraverso la cosiddetta “Via della seta”; il traffico non era comunque unilaterale né limitato alla seta, bensì imperniato sullo scambio reciproco di svariati articoli di lusso.

La singolarità de Il Milione è di porsi in un’area di narrazione solo genericamente da ascriversi al “diario di viaggio” (un genere peraltro venuto grande voga proprio nel Medioevo), consegnando un’immagine dell’Oriente ai confini tra realtà e stravaganza dove l’immaginario collettivo poté plasmarsi e confrontarsi, costruendo un mondo parallelo che non ponesse limite alla fantasia e che per alcuni significava uno stimolante messaggio verso la conoscenza del “diverso”, aprendo l’occhio e la mente ad un più vasto orizzonte oltre l’antropocentrismo culturale di matrice occidentale.

Così dal prologo intendiamo:

Ppoi che Iddio fece Adam nostro primo padre insino al dì d’oggi, nè cristiano nè pagano, saracino o tartero, nè niuno huomo di niuna generazione non vide nè cercò tante maravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo

2.3. Il fiorino e la Zecca di Firenze

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Prima che i governi sottoscrivessero il valore della moneta, di carta o metallo, un mercante avrebbe scambiato i suoi prodotti solo con denaro che possedesse un valore reale in oro o argento. Serviva però un’ampia gamma di monete per far fronte alle spese grandi e piccole.

Il fiorino (con i coevi genovino e zecchino) fu una delle prime monete d'oro coniate in Italia dopo la caduta dell'Impero Romano. L'utilizzo dell'oro nella monetazione europea divenne possibile con la ripresa dei commerci con il Nordafrica da cui arrivava la maggioranza dell'oro utilizzato per le monete e il commercio.

Il nome “fiorino” deriva dal fior di giglio rappresentato al dritto della moneta. Sul rovescio fu inciso il patrono della città San Giovanni in piedi: politica e preghiera fuse assieme.

Agli inizi del ’200, a Firenze come in molte altre città dell’Europa occidentale, si usava ancora il denaro d’argento creato con le riforme di Carlo Magno, ma si doveva integrarne lo scarso valore con monete più pregiate provenienti da Lucca e Siena, mentre lo sviluppo incalzante dell’economia richiedeva una valuta più adatta alle grandi transazioni. Così nel 1237 nacque la Zecca di Firenze, un servizio fornito ai privati cittadini che acquistavano oro in lingotti o monete estere e lo convertivano in fiorini pagando una piccola percentuale di commissione. Nel 1252 fu avviato il conio del fiorino d’oro, di valore pari a 20 soldi (o una lira), in oro puro 24 carati del peso di 3,53 g, che oggi varrebbe 110 euro o 150 dollari. Il potere d'acquisto elevatissimo della moneta esigeva l'uso di vari sottomultipli, quali il fiorino d'argento (detto anche grosso o popolino, pari ad 1/20 del fiorino d'oro, poi svalutato fino a 1/150 nella seconda metà del XVI sec.) ed il fiorino di rame, detto "fiorino nero" per il colore assunto col passare del tempo, del valore di 1/240 del suo multiplo aureo, ossia 1/12 del fiorino d'argento. Questa suddivisione si rifaceva al sistema monetario introdotto da Carlo Magno (1 lira = 20 soldi = 240 denari) e il primo fiorino d'oro valeva appunto una lira.

Nel XIII secolo e fino al rinascimento il fiorino, grazie alla crescente potenza bancaria di Firenze, era già in uso in tutta Europa, divenendone alla fine del secolo la moneta di scambio preferita, sia come moneta reale che come valuta di conto. Una risorsa importante per i locali mercanti e banchieri e che conferì grande prestigio alla città, divenuta così ricca che tra il 1344 e il 1351 erogò più di 100.000 fiorini all’anno.

2.4. Il costume del XIV secolo

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Il fenomeno “moda”, seppur il lemma non era ancora presente nella lingua, entrò di prepotenza proprio fra Trecento e Quattrocento. Il cambiamento di fogge, sebbene più lento che nella modernità, era evidente, suscitando calde accoglienze in alcuni e sprezzanti in altri, chierici o laici che fossero: così alle invettive di uno storico come il Villani o alle burle del Boccaccio, si sommerà il secolo appresso il biasimo di un genio come Leonardo da Vinci, che con satira sagace tratteggerà i caratteri salienti delle novità di moda nel periodo, facendo del suo Codice Urbinate un documento prezioso tanto quanto le pitture e le miniature del tempo, fonte insostituibile per la nostra conoscenza.

 

Bizzarrie a parte, in quest’epoca il costume e l’idea di moda videro un radicale progresso che coinvolse tutta la sfera privata dell’individuo. Il mercato dei tessuti, le tecniche di tintura e tessitura, la realizzazione di stoffe sempre più pregiate toccarono un apice qualitativo e quantitativo senza precedenti. Alla raffinatezza e all’eleganza francese, unita con l’esotismo del mondo arabo e dell’Oriente, la manifattura italiana seppe fornire un’impronta stilistica unica che ne rimarcava il livello artistico e culturale raggiunto: certe fogge erano perciò ovunque riconosciute come “all’italiana”.

 

Se la pittura è la grande testimone del costume vigente, a scandire i cambiamenti formali nella linea che veniva a modellare e ornare il corpo umano, è la stretta corrispondenza che si crea fra architettura e abbigliamento. Rosita Levi Pisetzky, nei suoi ancora insuperati scritti sul costume e la moda nella società italiana ci fa ben riflettere su questi passaggi di stile:

 

Ma ecco in vivace contrasto la linea gotica con il suo slancio verticale sostenuto dagli archi a sesto acuto e sottolineato dai pinnacoli delle guglie, che trova perfetta corrispondenza nell’abbigliamento femminile del tempo, con i copricapi a cono aguzzo, le scollature e gli strascichi a punta, e le lunghissime scarpe appuntite, di uso sia femminile che maschile.

 

La verticalità che dona nuova snellezza e slancio nella persona, dipende anche da un dato tecnico-artigianale e dall’evoluzione sartoriale in corso: l’introduzione di asole e bottoni, il maggior agio nel tagliare e modellare le cuciture, una migliore duttilità dei tessuti, ma deriva anche da necessità funzionali della “gente nova”, come potersi muovere più agilmente per ottemperare alle mille occupazioni che la “nuova economia” esigeva. Conservando le vesti talari quali lucco e guarnacca per anziani o uomini di intelletto e di chiesa, ecco allora farsetti più agili e corti, braghe bipartite e coloratissime, più flessibili e intercambiabili con fitti sistemi di laccetti per i più giovani. Per gli amanti del lusso ecco apparire la pellanda nei tessuti più pregiati, con cui dare sfogo alla fantasia attraverso panneggi, frastagliature e fodere, anche in pelliccia.

Più contenuta l’evoluzione del costume della donna del tempo, meno partecipe di fatto e più subalterna alle evoluzioni sociali, anche se nelle classi più nobili la ricchezza di tessuti e accessori contribuiranno a tenere alto l’ideale dell’amor cortese”.

3. Gli albori del “sistema Moda” - Signorie e corti del Rinascimento: diffusione e influenze

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Sono usi a vivere in casa delicatamente et essere ben serviti; fuora a bene cavalcare e sfoggiare di veste. (Francesco Guicciardini, La Decima Scalata)

 

La crescita economica basata sull’attività mercantile e manifatturiera portò l’Italia alla ribalta della Rinascita artistica e culturale. Denaro e Bellezza erano l’uno al servizio dell’altro: circondarsi di “beni di lusso” divenne una necessità interiore quanto esteriore, anzitutto per le arricchite classi borghesi alla rincorsa di lustro sociale e del fasto dei ceti nobili.

 

Bisogno di apparire, di mostrare, di “sfoggiare”, quindi di variare e sorprendere. Le fogge degli abiti nel XIV e il XV secolo, sempre più ricercate, modellarono le loro linee al gusto delle arti più nobili: dalle arditezze decorative del Gotico Internazionale, intriso di esotismo importato dai mercati d’Oriente (come in Pisanello e Gentile da Fabriano, o nel prezioso Cassone Adimari), alle più sobrie e proporzionate forme dell’arte del Rinascimento, foraggiata da illuminate famiglie quali De’ Medici, Gonzaga e Sforza, che fecero di Firenze, Mantova e Milano le più influenti Signorie italiane, capaci di esportare lo stile e il gusto oltre confine, sia tramite la mobilità degli artisti che con l’unione fra nobili famiglie. Furono due regine consorti, Caterina e Maria de’ Medici, a portare in Francia le finezze del lusso, le belle maniere e la magia delle toilette inventate in Italia: ancora nel 1830 un grande come Honoré de Balzac, autore anche di un Trattato della vita elegante, lo riconosce. Le due nobili portarono in dote la loro petite Italie, come fu detta la corte di Caterina, fatta di letterati e artisti, di artigiani e persone al servizio della bellezza: tali furono Cosimo Ruggeri, un alchimista che preparava cosmetici in polvere, o René il Fiorentino, che aprì una delle prime profumerie di Parigi. 

 

A circa settant’anni di distanza da quelle di Caterina (1533) le nozze di Maria de’ Medici (1600) furono celebrate con una complessa fastosità che le fonti del tempo documentarono con dovizia.

La crescente coscienza commerciale del “sistema moda”, esortava un consumismo ante litteram che acuì il divario fra le classi sociali. L’abito su misura era un lusso per il popolo che per lo più acquistava dai Rigattieri abbigliamento usato, o si limitava ad abiti di taglio rozzo, confezionati in tessuti grezzi, colorati con tinte poco costose come il grigio, abbinati a scarpe in panno o legno. I costi maggiori di un abito erano infatti relativi ai tessuti e ai coloranti per la tintura estratti dal mondo minerale, vegetale e animale, come la pregiatissima porpora, colore simbolo di ricchezza, potere e prestigio, ma anche il rosso carminio, l’azzurro d’indaco o il giallo zafferano erano difficili da ottenere.

 

In questo periodo il sensuale velluto e la seta, con la sua cangiante luce, spesso adornata di sofisticati ricami e preziose bordure in oro, furono i tessuti principe dell’abito di prestigio, il cui sfarzo finì per offendere i più moralisti, a partire dal clero: ciò incrementò le leggi suntuarie, dispositivi legislativi atti a limitare il lusso nella moda maschile e femminile, operando un “controllo sociale” che regolava di fatto la soglia di decoro, secondo la classe di appartenenza.

3.1. La Decima Scalata

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La riflessione cristiana pre-rinascimentale sulla ricchezza, sulla dicotomia superfluo-necessario, si fondava sull’etica religiosa della salvezza delle anime. All’indice era anzitutto l’ostentazione nei luoghi di potere, nelle corti. Ma nel basso Medioevo anche l’ambito cittadino fu attirato da quel gioco delle apparenze di cui l’abbigliamento è il primo veicolo. Nelle vie aumentavano le trabacche con esposti una quantità di prodotti plasmati nelle botteghe di abili artigiani in “oggetti del desiderio”: tessuti preziosi, fini gioielli, mobili e utensili decorati per “apparire” anche nello spazio domestico… Una “degenerazione esibizionistica”, secondo le critiche dei moralisti, che i legislatori tentavano di calmierare con leggi suntuarie; nondimeno la nuova classe mercantile era decisa a godere della propria affermazione, convinta che anche la vita terrena meritasse attenzione.

 

L’evoluzione rinascimentale muove così dalla sfera teologica-privata a quella giuridica-pubblica. Il superfluo non è più bollato dal peccato e talora diviene la ragione stessa dell’agire: lecito è aspirare alla ricchezza, pur nel rispetto della comunità. Firenze fu allora pioniera dei moderni Stati, teorizzando e sperimentando il criterio redistributivo coi primi sistemi di tassazione, come l’imposta a carattere progressivo sul reddito fondiario, chiamata “decima scalata” o “graziosa”, introdotta da Lorenzo De Medici. Testimonia il Guicciardini che, partendo dalla tripartizione tra spese necessarie, di comodità, superflue, un’imposta progressiva andrebbe ad intaccare le spese eccedenti dei ricchi non toccando quelle necessarie dei meno abbienti. Il dibattito sulla progressività, troppo avanzato per quel tempo, si sviluppò poi nel Settecento, per divenire incandescente nell’Ottocento.

 

L’immagine di Lorenzo de’ Medici, principe di Firenze, rappresenta la quintessenza del potere maschile della città, come ben mostrano busti e ritratti, dal Verrocchio, uno dei tanti artisti da lui protetti, al più tardo Bronzino. Lo schema iconografico lo mostra pensieroso, sguardo verso il basso ma teso all’infinito, come a interrogarsi sulle sorti della Signoria. Ma tutta l’eloquenza è nell’abito, consono a un’autorevolezza più da filosofo che da principe: il tipico cappuccio alla foggia del tempo, campeggia sulla sobria cioppa di colore grigio che scopre le maniche della rossa veste talare, come i dottori del trecento. Il copricapo, che incornicia la testa dai capelli lunghi sul collo, mostra le tre parti distinte che lo compongono: il mazzocchio, che cinge il capo, cilindro imbottito ricoperto di tessuto, chiuso e foderato nella parte superiore; quindi la foggia, lembo posto sotto la parte sinistra del mazzocchio, scende sulle spalle accostando al viso, è il primo elemento asimmetrico nell’abbigliamento pubblico e rompe la monotonia del mantello. Infine il becchetto, doppia striscia di tessuto uguale che cade fino a terra. Lorenzo lo avvolge intorno alla cioppa perché rimanga sospeso dalla parte destra. Il ruolo dell’abbigliamento nell’emergere dell’identità sociale diviene sempre più consapevole dal Rinascimento e il mazzocchio era spesso usato da personaggi influenti, che tenevano a personalizzarne il drappeggio ognuno “a suo modo”, rendendo singolare anche un abito molto formale.

 

La lavorazione del cappuccio spettava al sarto, non ai cappellai, essendo un oggetto di tessuto difficile da modellare e dovendo essere dello stesso materiale della cioppa o del mantello. Questo copricapo, anche femminile, che era molto diffuso per tutto il Medioevo sparì alla fine del XV secolo e il ritratto di Lorenzo, morto nel 1492 testimonia così la fine di un’epoca. Nota il Guicciardini nei suoi Ricordi:

 

Se voi osservate bene, vedrete che di età in età, non solo si mutano e’ modi di parlare degli uomini ed e’ vocaboli, gli abiti del vestire, gli ordini dello edificare, della cultura e cose simili.

3.2. Il Rinascimento e le fogge degli abiti nel XV secolo

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È un secolo di così gentile eleganza il Quattrocento in Italia che si teme con le parole di sminuirne l’incanto...” (Levi Pisetzky)

 

Tramontate le arditezze del gotico fiorito (dallo stile che esasperava la ricchezza ornamentale delle vesti, coi sontuosi tessuti e i capricciosi frastagli), una mirabile armonia di maestosa semplicità si affermava nell’architettura quattrocentesca, riportata da Leon Battista Alberti a una euritmia classica. Così, si pone il suo suggello estetico nell’abbigliamento e un’armoniosa sobrietà lascia fluire le vesti sulla persona senza appesantirne o alterare la linea, come appare negli affreschi del Ghirlandaio nella cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella a Firenze.

 

Nel Trecento, il fervore dei nuovi ricchi esplodeva anche in una vivacità degli abiti, spesso bipartiti in verticale con colori in forte contrasto, come il rosso e il verde, il blu e il giallo, combinati in infiniti giochi di spezzature geometriche; l’abito del Quattrocento, coerentemente alle altre manifestazioni dello stile, si orienta invece verso una maggiore compostezza anche nel colore e negli accordi cromatici, disposti nell’armoniosità dell’accostamento tono su tono. Una finezza del gusto che prevale, soprattutto nella seconda metà del secolo, con il trionfo delle tinte chiare e ridenti, esaltate dallo splendore giallo dell’oro, usato più in Italia che oltralpe, nelle stupende vesti di broccato.

 

Il rosato è molto in voga, per le donne e gli uomini, come l’alessandrino (sorta di turchino cupo), frequente è l’azzurro “color di cielo”, anche nelle sfumature dell’aerino e dello sbiadato e il verde chiaro, detto mestichino. Sfumature delicate dai nomi graziosi come il persichino o fior di pesco, il rose secche, il mavi (celeste cupo); il livido bianchesino, il giallognolo schizzo d’oca e il più scuro piè di cappone. Per le donne anziane invece sono in uso i colori mescolati di nero, di viola e di rosso cupo, come il paonazzo, il marmorino, il perso e il morello.

 

La centralità dell'uomo sull'Universo, fulcro dell’Umanesimo, portò a perseguire lo studio delle proporzioni, ritrovandone la perfezione nell'uomo vitruviano iscritto nel quadrato e nel cerchio, come fu ridisegnato da Leonardo da Vinci. Così, e fino alla prima metà del Cinquecento, uomini e donne indossarono abiti che ne sottolineavano le forme senza alterarle. Con il procedere del secolo, i lunghi strascichi e maniche pendenti ereditati dal gotico sparirono; la gonna, montata con leggere arricciature, fu staccata dal corpetto; le maniche, in cui lunghi intagli lasciavano uscire sbuffi della candida camicia, divennero sostituibili grazie all’uso di laccetti, così che le maniche signorili, impreziosite da gemme e puntali in oro, potevano essere custodite in un forziere. Gli abiti degli uomini si rigonfiarono sul torace, il farsetto, un tempo considerato indumento intimo, fu accorciato e messo in mostra, le gambe restarono scoperte, e le calzebraghe aderentissime fasciavano i glutei. L'esibizione del corpo maschile era ormai palese e per coprire gli organi genitali fu creata la braghetta, sorta di pezza di tessuto, che veniva usato anche come tasca. Questo tipo di moda era seguita soprattutto dai giovani, mentre le persone che avevano una carica pubblica o una professione autorevole, come i medici e gli insegnanti, continuarono a portare abiti larghi e lunghi.

3.3. I Cassoni Matrimoniali: gioielli di arte applicata fra mobilio ed exemplum

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I cassoni, eseguiti di regola a coppie e impreziositi da tarsie e pitture, erano un tipo di mobilio particolare, veri e propri emblemi matrimoniali, prodotti fra il XIV secolo e la fine del XVI in Italia, soprattutto a Firenze e Siena, come in Veneto, a Verona (ma solo tra il 1490 e il 1520).

 

Come altri oggetti di arredo o di uso domestico, tipo deschi da parto, cofanetti, forzierini, tali mobili avevano una finalità sia pratica che estetica. Di varia forma e capacità, erano collocati nelle camere nuziali, spesso ai fianchi del letto, in modo da ampliarne la superficie o fungere da panche. Quanto al contenuto, come annota Vasari nelle Vite, “il di dentro si poteva foderare di tele o di drappi, secondo il grado e il potere di coloro che gli facevano fare, per meglio conservarvi dentro le vesti di drappo, ed altre cose preziose”: fiorini d’oro, immagini sacre, libri di preghiere, monili, stoffe, abiti sontuosi, ma anche biancheria, cibarie e … amanti, come si evince dalla novella boccaccesca di Ambrogiuolo e Bernabò (tratta dal Decameron), il cui protagonista si nasconde all’interno di un cassone nuziale per introdursi furtivamente nell’abitazione di un mercante e sedurne la virtuosa moglie: “In una cassa artificiata a suo modo si fece portare, non solamente nella casa, ma nella camera della gentil donna (…). Rimasta dunque la cassa nella camera e venuta la notte, all’ora che Ambrogiuolo avvisò che la donna dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì (..). Quindi, avvicinatosi al letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla, che con lei era, dormivan forte, pienamente scopertola tutta, vide che era bella ignuda come vestita”...

 

Commissionati in genere dallo sposo in occasione dell'evento nuziale insieme al resto dell'arredo, la loro ricca decorazione con oro e dipinti apre una visione sui valori, i sentimenti, le usanze circa la celebrazione dell’unione tra uomo e donna, che era spesso un’alleanza tra famiglie: quindi non si trattava tanto di mostrare l’ideale romantico dell’amore coniugale, quanto una politica familiare di solide virtù morali, oltre ovviamente a prestigio e ricchezza; perciò la scelta dei soggetti era primaria e vincolate. Il repertorio a disposizione delle singole botteghe era piuttosto ripetitivo, tant'è che Paul Schubring nel 1915 elaborò un sistema di classificazione basato sulle costanti iconografiche dei vari ambiti.

Generalmente produzione di bottega, pur nobilitati da interventi di buoni artisti, tra i cassoni più significativi troviamo quelli fiorentini che, tra fine XIV secolo e l'inizio XV, mostrano figurazioni in stile tardo gotico, con temi cortesi come il Giardino d'Amore o novelle, specie dal Boccaccio.

 

Verso il 1440 anche nei soggetti scelti si inserisce il nuovo gusto rinascimentale: oltre ai Trionfi del Petrarca, appaiono temi classici e mitologici, episodi dall'Eneide e dalle Metamorfosi di Ovidio, o vicende degli Argonauti come Il Giudizio di Paride, colti sempre come exempla dei valori del matrimonio e dei doveri familiari e civili.

La tavola del famoso cassone Adimari, prestigiosa famiglia fiorentina, ornava in realtà la spalliera di un letto nuziale, confermando la cura destinata al disegno d’arredo del tempo. Raffigura uno sposalizio sullo sfondo del centro di Firenze come appariva allora: il Battistero di San Giovanni, coperto per l'occasione da drappi, e lo scomparso loggiato del Duomo. L’opera, dipinta intorno al 1450 dallo Scheggia, fratello del Masaccio, documenta mirabilmente le ardite linnee dei costumi cerimoniali dell’epoca, con un vero sfoggio di decorazioni e tessuti preziosi, riprodotte con ricco uso di ori, punzonature e altre tecniche pregiate.

3.4. Caterina e Maria de' Medici, regine di Francia

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I matrimoni che univano case regnanti e corti principesche erano importanti occasioni di scambio fra le culture europee, specie dal Rinascimento. Il cardine ne era la sposa che, trasferendosi, recava un corredo di artisti, opere e oggetti preziosi, usanze, destinati a incidere nella vita culturale del paese di adozione. Significativo del potere raggiunto nei secoli dalla famiglia dei Medici, che dominava Firenze e la Toscana dall’epoca di Cosimo il Vecchio, è che riuscì a “sistemare”, in meno di un secolo, ben due regine sul trono di Francia. Due caratteri di donna, due età e due tempi diversi ma, anche se l’una non poté mai incontrare l’altra, Caterina e Maria dei Medici, ebbero in comune molto di più del cognome e della corona. Essendo rimaste entrambe vedove e madri di re bambini, furono le prime regine reggenti di Francia influenti; entrambe furono malmaritate e circondate da una fama sinistra legata ai drammi della politica francese: il nome di Caterina si associa alla strage degli Ugonotti nella notte di San Bartolomeo (agosto 1572) e alla leggenda dei veleni usati per eliminare i propri nemici; Maria, si è guadagnata la fama di donna avida di potere, di madre spietata in guerra col figlio, Luigi XIII, per il trono di Francia, e persino protettrice di una cricca di imbroglioni italiani. Una cattiva fama molto diffusa nel paese d’adozione fino all’Ottocento. Eppure furono riconosciute, entrambe loro modo, portatrici di orizzonti culturali nuovi e profondi nella storia europea.

 

Caterina (1519-1589) fu sposa a soli 14 anni, nel 1533. Le nozze con il coetaneo, futuro Enrico II, furono combinate dal padre di lui Francesco I, che ne apprezzava l’intelligenza oltre alla cospicua dote e dal di lei zio, papa Clemente VII, deciso a frenare il potere di Carlo V su Roma. Di padre fiorentino e madre francese, seppe fondere le due culture in una sintesi inconfondibile: nelle feste carnevalesche, teatrali e musicali, nella poesia e nelle arti visive come nella filosofia, filtrata dal neoplatonismo di Ficino e della cabala cristiana di Pico della Mirandola. Se già Francesco I di Valois aveva portato in Francia, oltre a Leonardo da Vinci, lo stuolo di artisti che avviò la cosiddetta Scuola di Fontainebleau, Caterina introdusse in Francia molti usi e raffinatezze italiane, come la forchetta, l’abitudine di gustare a tavola salato e dolce distinti, la ricerca di confort per meglio cavalcare, come l’uso delle mutande e una nuova sella da amazzone per tenere le gambe dalla stessa parte; particolare poi fu la cultura dei profumi (con cui venivano intrisi anche i guanti per celare il cattivo odore del pellame), interpretata dai detrattori come una sofisticata tecnica di avvelenamento.

 

L’eredità del mecenatismo mediceo, così trapiantata in suolo francese, alimentò un modello originale di corte destinato ad affermarsi nel secolo successivo, con la nipote Maria de' Medici.

Due grandi opere esposte nella galleria degli Uffizi a Firenze, rievocano le due celebri unioni. La contemporaneità e lo stile dei due quadri, dipinti entrambi nel 1600 da Jacopo Chimenti detto l’Empoli, in maniera volutamente speculare, mitiga notevolmente la distanza fra le due epoche, ma una buona fedeltà alle fogge degli abiti mostra quanto, verso il XVII secolo, la rigida austerità d’influenza spagnola si stia infiltrando anche nella moda del nostro paese.

3.4.1. Maria de' Medici, regina di Francia

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Maria, che visse dal 1573 al 1642, era ormai ventisettenne nel 1600, quando lo zio Ferdinando I ne valutò il “peso politico” per la favolosa cifra di 600.000 fiorini, che gli valsero lo sprezzante titolo di “grossa banchiera”, buona testimonianza dell’accoglienza ricevuta nella nuova patria. Di fatto la vita di Maria non fu felice: dopo un periodo di reggenza seguito all’uccisione del marito, ella visse duri complotti di corte, finché il suo ex favorito, il potente cardinale Richelieu, convinse il figlio stesso, Luigi XIII, ad allontanarla per sempre.

 

Alle laboriose trattative per maritarla con Enrico IV di Navarra (divorziato dalla regina Margot, figlia di Caterina de’ Medici) furono proporzionati i festeggiamenti del matrimonio, che fu celebrato per procura nel Duomo di Firenze. Né l’assenza di Enrico ne compromise il fasto: al ricevimento a palazzo Vecchio, seguì, il giorno dopo, la rappresentazione di una favola pastorale rimasta un punto fermo nella storia teatrale e della musica, l’Euridice, di Ottavio Rinuccini, musicata da Iacopo Peri e Giulio Caccini.

 

Nella "Descrizione delle felicissime nozze della Cristianissima Maestà Maria", il Buonarroti tenne nota di tutti i particolari dell'apparecchiatura delle tavole, delle vivande e delle confezioni di zucchero, nonché dell'addobbo della sala. Fecero epoca le statue di zucchero modellate dal Giambologna. "L'apparecchio supremo" delle tavole presentava gruppi di animali, fra cui una statua equestre dello sposo e, soprattutto, le meraviglie teatrali ideate dal Buontalenti: dal soffitto Giunone e Minerva su nubi rigonfie, svanivano su tavole, cambiate a vista in specchi e cristalli, che poi divenivano boschetti con viali, siepi, fontane e statuette di ninfe…

 

“Di seta, d’oro e d’argento è ricoperta non solo la sua persona, ma tutto ciò che l’accompagna e la circonda nel suo viaggio dalla Toscana alla Francia: le sue dame, lo stuolo numeroso e sgargiante dei livreati e degli armigeri, tutti gli apparati mobili e fissi in cui soggiorna o si muove. La nuova carrozza è tutta tappezzata di velluto rosso ricamato […] le galere che da Livorno la portano a Marsiglia sono parate con 688 braccia di teletta d’argento a fondo rosso; le camere del suo appartamento sulla galera reale sono rivestite di tela d’oro, così come il letto e le portiere; in tela d’oro e seta gialla con opera a gigli sono anche i tendali da sole montati sulla nave, mentre sui pennoni garriscono al vento le lunghe fiamme e i gagliardetti dipinti su tela rossa d’argento”(Roberta Orsi Landini, Lo stile fiorentino alla corte di Francia).

 

Il degno corredo che Maria portò in Francia, interprete di uno stile che lascerà un segno forte nella moda francese del tempo. In linea con la tradizione fiorentina, la foggia di vesti e sottane non ha mai impedito alle donne di mostrare il decolleté, accompagnato adesso dal collare semicircolare, alzato e rialzato dietro la nuca, che si identifica, non a caso, con lo stile della nuova regina, mutuato dalla moda veneziana, alternativa alla imperante moda spagnola. D’altronde, fedele al gusto regale fiorentino Maria predilesse abiti colorati, riservando il nero solo ad occasioni di lutto, come per la sua vedovanza, quantunque rimanga fedele al suo stile, come ben mostra lo splendido ritratto del Rubens, perfetto interprete del nuovo esprit e della nuova femminilità, segno del cambiamento dei tempi. E lui Maria incaricò per illustrare e tramandare ai posteri la “magnificenza” della sua vita e del suo operato.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Roberta Orsi Landini, Lo stile fiorentino alla corte di Francia, in: Maria de' Medici : (1573 - 1642) ; una principessa fiorentina sul trono di Francia / Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino. A cura di Caterina Caneva e Francesco Solinas, Livorno : Sillabe, 2005.

3.5. Le leggi suntuarie

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Le leggi suntuarie erano dispositivi legislativi atti a disciplinare l’ostentazione del lusso per classi sociali, sesso, status economico, religioso o politico. Note in Italia fin dall'epoca romana, tali norme assumono rilievo dal Duecento, con l’espandersi degli scambi commerciali e la nascita di nuove necessità e dei relativi simboli di ricchezza. Sono sempre più numerosi coloro che possono sfoggiare abiti e ornamenti preziosi, col rischio di minare le barriere fra gruppi sociali ed entrare in contrasto con la moralità invocata dalla Chiesa.
Attraverso le leggi suntuarie non si controlla solo l’uso di vesti e ornamenti, ma anche banchetti, nozze, battesimi e funerali, come dei flussi di importazioni e delle spese, in difesa dei tradizionali valori di austerità e decoro, anche a scapito del nuovo mondo che si apre al commercio. La preoccupazione delle autorità è perciò duplice, quasi antitetica: da un lato l’importanza della circolazione del denaro, dall’altro il timore di una contaminazione fra i vari ceti.
Dal Trecento si affacciano due novità: primo, si fa concessione a cavalieri, dottori, medici, giudici (e alle relative donne) dei simboli del lusso, secondo, si istituisce una multa da pagare in caso di contravvenzione alle norme che permette di fatto ai più abbienti di ostentare a piacimento l’opulenza raggiunta, con soddisfazione anche delle casse cittadine.

 

Le leggi suntuarie variavano comunque da città a città, con maggiore durezza o tolleranza. A Firenze la Repubblica fiorentina ne emanò diverse, dal 1330 fino al 1546 con la legge “sopra gli ornamenti et abiti degli uomini e delle donne” e alla riforma del 1562 “sopra il vestire abiti et ornamenti delle donne ed uomini della città di Firenze”, emanate da Cosimo I De' Medici contro gli eccessi del lusso. Venezia, città più libera e ricca, era invece più clemente. Al controllo delle disposizioni emanate erano delle guardie, abilitate all’occorrenza ad entrare nelle case o raccogliere denunce premiando il denunciante. Dal 1500 in poi le leggi divennero più dettagliate e minuziose, colpendo maggiormente le classi medie o popolari, in specie la servitù, chiudendo un occhio sul lusso dei signori e delle loro corti. Tra le leggi più discriminanti erano quelle che colpivano gli ebrei, obbligati a portare un cappello a punta o un contrassegno colorato sul braccio; alle prostitute si vietava uno sfoggio troppo vistoso, o si imponevano determinati colori; per gli eretici, vi era un abito penitenziale, solitamente giallo.

 

Nonostante la loro severità le leggi suntuarie si dimostrarono di scarsa efficacia e alla fine del Settecento erano quasi totalmente trasgredite. In Francia l’abito nero e cravatta bianca, imposto ai borghesi per umiliarne il confronto con lo sfarzo della nobiltà, provocò addirittura l'effetto opposto: agli Stati generali del 1789, quei semplici abiti borghesi divennero, per drammatico contrasto, il simbolo di pulizia morale e di nuovi ideali, tanto che a breve l'Assemblea della rivoluzione decise l'abolizione, almeno nel vestiario, di ogni differenza di classe.

 

La moda di fatto obbedisce a proprie leggi interne, fondate sulla passione, sul desiderio del nuovo, che tende all’eccesso e si muove a ritmi rapidi e incessanti. L’idea di dominare e incanalare tale fenomeno è sopravvissuta a lungo nelle menti dei governanti e ancora oggi in molte culture esistono rigide convenzioni o leggi su cosa un individuo possa, o debba indossare: questo deve ricordare come la corrispondenza fra moda e libertà, ormai scontata per noi, sia stata dal Medioevo in poi, una lenta conquista.

4. XVI e XVII secolo: moda e rappresentazione

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Li habiti della figura siano accomodati all’età e al decoro, cioè che ‘l vecchio sia togato, il giovane ornato d’abito che manco occupi il collo da li omeri delle spalle in su, eccetto quelli che fanno professione di religione” (Leonardo da Vinci, Codice urbinate).

 

Nel consiglio di Leonardo ai ritrattisti coevi si cela tutto il dibattito sul decoro scaturito dalla quella “voglia di moda” che esigeva fogge sempre più sofisticate negli abiti come nei cappelli maschili e nelle acconciature femminili. I pittori d’altronde avevano grosse responsabilità nella diffusione del gusto: le nuove classi facevano a gara a commissionare cicli di affreschi per la gloria della Famiglia ritratta negli abiti più pregiati, come nelle cappelle dei Sassetti e dei Tornabuoni dipinte da Domenico Ghirlandaio, testimone della vita e dei costumi di Firenze come lo furono i teleri di Vittore Carpaccio di Venezia. Ma fu la diffusione del ritratto, attraverso artisti geniali come Botticelli e Raffaello,Veronese e Tiziano, o Lorenzo Lotto, Parmigianino e Bronzino, veri cultori del nuovo genere pittorico, a documentare le mode dell’epoca. Così Giovan Battista Moroni, nei suoi “ritratti in azione”, come Il sarto, così emblematico per capire il cambiamento in corso nell’abbigliamento del XVI secolo. Il giovane uomo è vestito alla foggia del tempo: il farsetto serrato al collo annuncia la severa influenza spagnola (come le braghe rigonfie, alla “sivigliana”), un indumento quasi intimo, animato solo da brevi accoltellature (tanto in voga dalla discesa dei lanzichenecchi). Anche i colori “parlano” di sobrietà e modestia: il colore chiaro ma non brillante che illumina il volto indica la lindura della persona, il rosso spento delle braghe svela una tintura non pregiata evidenziata dall’opacità del tessuto di panno. Tutto ciò rivela una condizione sociale modesta ma dignitosa, che riabilita il lavoro manuale e una professione che inizia a ottenere rispetto e autonomia.

 

Diffusione, sarà allora parola chiave per la costruzione dell’idea di Moda in senso moderno. Dal XVI secolo all’arte dei pittori si affiancò il più potente mezzo di comunicazione fino alle soglie del XXI secolo: la stampa a caratteri mobili, che dal 1455 aveva avviato il percorso verso l'alfabetizzazione di massa, poteva immettere sul mercato una quantità di informazioni a prezzi più accessibili.

Nel breviario del perfetto Cortegiano, vero best-seller dal 1528, Baldassarre Castiglione, esalta un’italianità capace di tradurre “in meglior forma” le esagerazioni dei costumi stranieri, “come talor sol essere il franzese in troppa grandezza e ’l tedesco in troppa piccolezza”. Un ventennio dopo, Monsignor Della Casa, istruendo con il suo Galateo una platea sociale più ampia, deprecherà “coloro che vanno vestiti non secondo l’usanza de’ più, ma secondo l’appetito loro”, stigmatizzando anticonformismi ed eccessi a ogni livello. Questi e molti altri trattati a venire testimoniano l’interesse intellettuale e “politico” per il tema della moda, forma di potere da un lato e modo di affermare l’individualità dall’altro, segnalando ciò che nel Seicento divenne una vera mania: il valore concesso alle novità, il gusto dell’originalità a caccia di fogge diverse creeranno le vere leggi della moda, a dispetto delle leggi suntuarie. E se in Italia si attese il 1648 per adottare il termine Moda, già nel 1590 Cesare Vecellio, nel compendio di Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, offriva un eccezionale repertorio di fogge, la prima storia del costume mai pubblicata che preannunciava la prossima nascita del giornale di moda.

4.1. L’abbigliamento del XVI secolo

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Dopo la grazia quattrocentesca, la maestosa classicità del cinquecento […], si può paragonare alla turgida succosità del frutto che succede che succede alla delicatezza del fragile fiore. (Levi Pisetzky)

 

Il Cinquecento è il secolo della teorizzazione e dei precetti, dei trattati che disputano su ogni argomento. L’ideale di perfezione formale emanata da cultori come il Bembo, irradia la cultura delle Corti Rinascimentali in tutta l’Europa occidentale, così in Francia il prestigio italiano è garantito dall’ascesa di Caterina de’ Medici. Ma è anche il secolo del dominio straniero, con il primato della cattolicissima Spagna, madre anche del battagliero ordine dei gesuiti. Le basi umanistiche della morale cattolica si impregnano sempre più di fervore religioso e in quest’ottica il Concilio di Trento (1545-63) segnerà lo spartiacque.

 

Il carattere dell’abbigliamento riflette tale passaggio: così nel primo periodo si impone una “maestà corposa” nella linea e nella materia, lasciando spazio alla varietà di fogge scelte a seconda delle occasioni. Nelle donne, La camora o gonnella, copre ora tutta la persona, la vita è relativamente alta, le maniche attaccate basse e piatte, aperte alle spalle e lungo il braccio da cui sbuffa la camicia. Caratteristica del periodo è lo scollo, spesso ampio e quadro o arrotondato. I colori si fanno vivi, ma maestosi: verdi o azzurri, o rosato unito, come si vede in molti ritratti del Bronzino; le decorazioni sono spesso in oro, in argento o a rilievo negli stupendi velluti sopra rizzi e il disegno spesso si ispira all’aguzza linea del carciofo. Poi si afferma, soprattutto per gli uomini, la moda del nero monocromo, rischiarato appena dai tocchi bianchi delle gorgiere e dei manichini di merletto.

 

Nel secondo periodo del secolo la dominazione spagnola e il rigore controriformista irrigidiscono le forme femminili in un’astrazione artificiosa, che schematizza la figura in due coni intersecanti: la parte bassa è celata dal rigido verdugale (in Italia detto faldiglia o faldia), mentre il busto, rigido e “steccato” si appuntisce sul ventre; la testa, intirizzita dall’alto colletto, si infossa nella gorgiera, che sarà sempre più protagonista al volgere del secolo, pur ingentilita dalla finezza della lavorazione, come i veri capolavori creati, ad ago o a tombolo, dalla maestria artigianale delle merlettaie veneziane.

 

L’abito maschile è all’inizio più greve, anche se già alla fine degli anni '20 la linea si assottiglia, abbandona i grandi volumi di saii e roboni, dei larghi cappelli e delle vesti stratagliate, accoltellate (che Leonardo tanto deprecava), indotte dalla moda germanica. L’influsso del costume militare è allora molto importante nell’evoluzione dell’abito maschile e anche quella moda mutuata dalle strane vesti dei Lanzichenecchi si può chiarire con lo strategico taglio del tessuto in punti del corpo sottoposti allo sforzo, come gambe e dorso. Sartorialmente vennero create forme separate per le gambe, calze e cosciali, che diverranno veri e propri calzoni; anche il dorso si “sveltisce” con corti giubboni imbottiti e coletti senza maniche, coperti da brevi mantelli semicircolari, le cappe, spesso decorate come l’abito.

Questa base vestimentaria rimarrà per il resto del '500, ma ne varierà la foggia. Così in pochi anni, aderendo al modello spagnolo ormai dominante, l'aurea mediocritas dello stile italiano cambierà di segno. Pur restando l'assolutezza del nero, la grande enfiatura dei calzoni "alla castigliana", la gorgiera e i manichelli sempre più esuberanti, la vistosa berretta a tozzo, la cappa troppo corta, porteranno la linea verso una forzatura, un eccesso, con perdita di Grazia e di Decoro.

 

Bibliografia

  • Quondam Amedeo - Tutti i colori del nero - Moda e cultura nell'Italia del Cinquecento - Vicenza 2007

4.2. I lanzichenecchi

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Le truppe dei lanzichenecchi discese a più riprese in suolo italiano fra il XV e XVI secolo sono tristemente note per il cosiddetto sacco di Roma, compiuto nel 1527 al soldo dell'Imperatore Carlo V. La truce vicenda si inquadra nella più ampia cornice dei conflitti per la supremazia in Europa tra Francesco I di Valois, Re di Francia e Carlo V d’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, nonché re di Spagna, ma risulta anche una crociata luterana contro la Roma papalina.

 

Il costume rispecchiava del tutto la tracotante spavalderia di questi mercenari, eccessiva nei colori e sovrabbondante di accoltellature, profonde incisioni sui tessuti che lasciavano intravvedere la biancheria sottostante, venute in gran moda nel XVI secolo. Si dice che questa moda dei tagli verticali fosse mutuata dagli svizzeri, dopo il 1476, poi, dalla Germania tramite la famiglia di Guisa, fu introdotta in Francia, per passare in Inghilterra dopo le nozze di Luigi XII con la sorella di Enrico VIII. In nessun paese comunque, gli abiti dai tagli verticali raggiunsero il culmine di esagerazione come in terra tedesca, dove centinaia di tagli “martirizzavano” farsetti e calzoni.

I lanzichenecchi lanciarono anche la moda dei calzoni “a lattuga”, a larghe strisce di stoffa, separate fra loro dai fianchi alle ginocchia, da cui appariva una gran quantità di seta bianca. Questi calzoni sono ancora oggi indossati dalle guardie svizzere della Città del Vaticano, il cui figurino si dice fosse stato addirittura disegnato da Michelangelo.

 

4.3. Etica ed estetica: Il cinquecento e i trattatisti “del comportamento”

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Se è vero che l’osservazione di come si evolve il fenomeno della moda ci aiuta a capire il contesto socio-politico e culturale di un paese, per quanto riguarda l’Italia è importante valutare non solo il corpo delle leggi suntuarie, ma anche il proliferare nel corso del Cinquecento e oltre, di una letteratura che potremmo definire “del comportamento”. Sviluppati spesso in forma dialogica, questi “trattati” si pongono come riferimento di buona condotta nella società di appartenenza: un “codice”, con regole rigide, di cui l’abbigliamento è parte integrante. Essi danno la misura di come l’idea di “moda” sia penetrata nella vita di relazione e di quanto l’evoluzione del fenomeno sia inevitabile e indomabile. Implicito è il riconoscimento della moda come fenomeno estetico, legato all’inesauribile dibattito sulla ricerca della bellezza. Alle dichiarazioni di Baldassarre Castiglione nel Libro del Cortegiano (1528) sull’impossibilità di definire la maniera in cui si deve vestire un cortigiano «poiché in questo veggiamo infinite varietà», quindi a «dar regola determinata circa il vestire», rispondeva l’autore del Dialogo della bella creanza delle donne (1539), Alessandro Piccolomini, compiacendosi che esse amassero «usar sempre qualche bella foggia nuova» e giustificando la stravaganza nel vestire che ha «molto del buono». Entrambi dispensano saggi consigli di eterna validità affinché la donna possa esaltare le proprie doti fisiche e domare i difetti; ma non basta: alle caratteristiche esteriori rispondono quelle psicologiche e comportamentali, perciò una donna “conoscendo in sé una bellezza vaga e allegra, deve aiutarla coi movimenti con le parole e con gli abiti, che tutti tendano allo allegro,[…] per accrescer quello che è dono della natura”, rispettando ovviamente l’ideale rinascimentale di gentile equilibrio che più sta a cuore al Castiglione. Ci ricorda peraltro Piccolomini: “Che se una giovane havesse una veste fatta con bella foggia, e con colori ben divisati, e ricca, e comoda, e non sapesse dapoi tenerla indosso non havrebbe fatto niente”; e al portamento deve corrispondere la cortesia “che ride e sta bene tra l’altre virtù, […] come stanno i rubini e perle fra l’oro”.

 

Discutendo di “che abito piu se gli convenga e circa l’ornamento del corpo in che modo debba governarsi”, Baldasar Castiglione fece del Cortegiano, pubblicato nel 1528, a dieci anni dalla prima stesura, uno dei libri più venduti in Europa nel sedicesimo secolo e Francesco I lo fece tradurre in francese per istruire la sua “corte ideale”. Il modello vestimentario che esce dall’opera sembra peraltro ben illustrato nei figurini del famoso e pressoché coevo, Libro del Sarto, del milanese Gian Giacomo del Conte, primo manuale del ben vestire dedicato ai sarti.

Ciò che determina l’importanza del libro del Castiglione è l’aver saputo incidere e restituire ad un tempo lo spessore culturale di una delle corti, quella di Urbino, che più hanno incarnato la straordinaria stagione del Rinascimento italiano. Quei decenni che separano quest’opera dal Galateo overo de' costumi (1558), manuale di belle maniere dell’arcivescovo Giovanni Della Casa, segnano il passaggio culturale dall’Umanesimo alla vocazione didattica della Controriforma, la cui base di ascolto si allarga dalla cerchia cortigiana: silenziosi testimoni stanno i più celebri ritratti dei due letterati: il “cortese” e soppannato Baldassarre dell’aulico Raffaello, e l’austero, incisivo Monsignore dell’inquieto Pontormo.

4.4. La comparsa della parola “moda”

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Moda [mò-da] s.f.

  1. Comportamento variabile nel tempo che riguarda i modi del vivere, le usanze, l'abbigliamento; modello di comportamento imposto da individui o gruppi di prestigio o da creatori di stile SIN voga, costume: lanciare una m.; pettinatura di m. || alla m., secondo la m., frequentato da molti: locale alla m.; anche, all'ultima m., secondo gli ultimi dettami di chi o di ciò che influenza il gusto comune | di m., che segue il gusto prevalente: essere di m.; tornare di m.
  2. estens. L'insieme di tutto ciò che riguarda l'abbigliamento, dall'industria ai capi prodotti: la m. italiana è famosa in tutto il mondo || disegnatore di m., stilista

(Da: Sabatini Coletti, Dizionario della Lingua Italiana)

 

“È possibile individuare una seconda fase rilevante per la storia della moda, se non una possibile data di nascita ufficiale, tra il XVI e il XVII secolo, quando fa la sua comparsa la parola «moda», mutuata probabilmente dal francese «mode», diffusosi nella penisola italica, assieme alle mode francesi. In Italia il primo ad impiegare il lemma «moda» è comunemente ritenuto l’abate milanese Agostino Lampugnani, autore nel 1648 di un testo intitolato Carrozza da Nolo overo Del vestire e usanze alla Moda. Più o meno negli stessi anni il Vecellio definiva «la cosa degli habiti» il fenomeno della moda caratterizzato, come lui era ben consapevole, da continui mutamenti. Altra derivazione possibile è dal latino «modus», con il richiamo a misura, moderazione, regola, tempo, ritmo, in un’epoca in cui il fenomeno dell’esibizione di vesti ed ornamenti aveva cominciato a farsi vistoso. Sta di fatto che nel Seicento la parola «moda» appare nei titoli e nei testi di molti autori a indicare una sorta di frenesia nell’adeguarsi agli ultimi, anzi ultimissimi usi. Non era un’esperienza inedita, ma si presentò a quel tempo in forma molto più accentuata rispetto al passato. Inedita era invece la consapevolezza che il fenomeno fosse sfuggito al controllo di quanti volevano ricondurre le apparenze a una forma di segnaletica sociale distintiva, politicamente governata. Prima della comparsa del termine «moda» si parlava di nuove fogge, di usi, di costumi e si definivano «foggiani» i cultori delle novità in fatto di abbigliamento. Dalla Francia del XV secolo il nuovo termine passò, oltre che in Italia, in Olanda e in Germania.”

 

(da: Maria Giuseppina Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia, Bologna, il Mulino)

4.5. Cesare Vecellio: Habiti antichi et moderni di tutto il mondo

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Cesare Vecellio (1521-1601), cugino del pittore Tiziano, è autore di quello che può essere considerato il primo trattato di storia della moda. Pubblicata a Venezia nel 1590, la raccolta Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, illustrava le fogge di vestiario di ogni parte del mondo allora noto, dei più diversi ceti sociali, da papi e principi a contadine e soldati, gentildonne e prostitute, nelle varie epoche storiche fino alla fine del Cinquecento. Dopo il successo della prima edizione il testo fu ampliato con una sezione sugli "habiti" delle Americhe e ripubblicato nel 1598 in una versione bilingue (latino e italiano).

Sebbene Cesare Vecellio avesse ideato il proprio libro principalmente come supporto per pittori, disegnatori e incisori, la sua immediata popolarità attesta del fascino che la moda e il costume hanno avuto da sempre, e si inserirsce inoltre in quel filone di curiosità esotiche e diari di viaggio, anticipatore del lavoro etnografico-antropologico, e che con l’invenzione della stampa, dal Milione in poi, avevano avuto una popolarità indiscussa.

 

Consapevole che nessuna epoca era stata tanto favorevole come la sua allo sviluppo del lusso e della moda e alle loro infinite varietà in Italia, in Francia, in Germania e nel resto del mondo, Vecellio contribuisce a determinare un linguaggio del vestire e della moda avviato all’inizio del Cinquecento con Il Libro del Cortegiano. L’Italia, specialmente Venezia, assumono un ruolo centrale nella geografia del vestire occidentale. Nel settimo capitolo, accennando ai “popoli diversi che habitano l’Italia”, ne sottolinea la situazione di luogo “preda di forestieri e piazza della fortuna; e per questo non farà meraviglia, se qui si vedrà maggior diversità ne gli habiti, che in qual si voglia altra natione, e regione.” Dal gusto italico di voler essere diversi, più capricciosi e instabili nel modo di vestire, Vecellio estrapola anche una sorta di “carattere nazionale” improntato all’individualismo e alla libertà dello stile: una particolarità determinante per la ricchezza per la creativa “made in Italy”. Insistendo sulla  varietà connaturata allo “stile italiano”, si mirava a creare una mappa della diversità culturale, senso di estetica e bellezza che caratterizzavano varie città della penisola. Ci sono capitoli infatti su Roma, Bologna, Napoli e altri importanti centri italiani. Le numerose differenze dei costumi e del senso estetico erano dettate a loro volta da differenze geografiche, dall’economia locale e dalle alleanze politiche che erano state realizzate attraverso il matrimonio […] come nel caso di Eleonora di Toledo e Cosimo de’ Medici (Eugenia Paulicelli).

 

Un altro aspetto dell’influenza di manuali come questo è stata l’accessibilità ai sarti che, assieme ai loro clienti, poterono ricavarne spunti per nuove fogge. Pare, ad esempio, che dalla presa di conoscenza dell’abbigliamento tipico ungherese, caratterizzato da una lunga fila di alamari, nacque e si diffuse anche in Italia dagli anni Venti del Seicento la moda dell’ungarina: una tunica abbastanza sciolta decorata con alamari secondo l’uso, secondo quanto testimoniato dal Vecellio, diffuso in Ungheria Questo spunto fu adottato soprattutto per gli abiti dei bambini di elevata categoria sociale, secondo l’idea, giudicata prettamente orientale, che un abito poco strutturato fosse più funzionale al movimento: una concezione in decisa antitesi con i gusti e le tendenze affermatisi in Occidente in età moderna.

5. XVII-XIX Secolo: il primato di Parigi

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La nascita della moda è di regola associata alla Francia, che dal XVII secolo detta legge nelle nuove fogge. L’abate Lampugnani, coniuga il termine Moda (da mode), con tocco sdegnoso, in “modanti”, “modezzare”, bollando di “infettione” l’invadente potere della “vezzosissima dea”, come canterà un secolo dopo Parini nel Mattino

Nel 1763, l’età degli sfarzi barocchi del Re Sole volgeva al tramonto: di lì a poco anche lo “stile Maria Antonietta” sostituirà fiocchi rococò, trine e parrucche turrite con più sobrie robe à l'anglaise, fino a cedere lo scettro della moderna eleganza ai severi abiti borghesi. Nel 1789 l'Assemblea rivoluzionaria francese aboliva ogni differenza di classe, almeno per il vestiario e nella liberale Inghilterra un’altra Gloriosa” rivoluzione, quella industriale, era già in atto, fondendo i termini “Industria” e “Macchina”.

 

L’Italia, ancora lontana dall’unità politica, pur mantenendo il suo prestigio di “grande artigiana”, importava da fuori la cultura e le mode, filtrate dalle classi dominanti. A farla da padrona nella moda dal XVII e XIX secolo sarà sempre la Francia, anche nel “guardaroba lessicale”, che accoglieva parole come foulard, frac, gilet, guêtre (ghetta), fino al rivoluzionario tailleur, termine che ha in sé la legittimazione del lavoro del sarto, già in auge nel settecento, come si può evincere da testimoni del tempo quali Pietro Longhi e Carlo Goldoni

Anche le prime riviste arrivarono da Parigi, dal Mercure Galant, nato nel 1672 come bollettino letterario, mode e  pettegolezzi, a Le Journal des Dames nel 1759 (dal 1797: Le journal del Dame set des Modes), antesignane del giornalismo di moda. L’Italia esordì nel 1786 con il Giornale delle Nuove mode di Francia e d’Inghilterra, poi con il Corriere delle Dame (1804), giornale milanese che, pur subendo l’egemonia francese, crebbe con la coscienza del Risorgimento e inserì contenuti politici oltre a informazioni di carattere commerciale relative a botteghe artigiane e sartorie milanesi, accorgimento che stimolò le inserzioni pubblicitarie locali con notevole incremento il guadagno. Centrali rimasero sempre i figurini di moda, ispirati alle più famose riviste francesi, ma affiancati da altri realizzati in Italia da sarti locali e, dal 1819, venne pubblicata una raccolta interamente dedicata alla moda milanese. Per le lettrici abbonate si dispose addirittura un servizio di «Vendita di abiti per corrispondenza». 

 

Ampliandosi il ventaglio di accessibilità sia nella richiesta che nell’offerta, l’abito su misura, che prima dell'Ottocento era un lusso da elencare tra i beni testamentari, divenne più raggiungibile. Il modo di intendere e produrre l’abbigliamento si rivoluzionò radicalmente con il progresso della meccanica, portando una nuova organizzazione del lavoro e una redistribuzione dei redditi. Inevitabilmente molte figure professionali si crearono, altre decaddero o si evolsero. Significativa la parabola di Barthélemy Thimonnier, modesto ma ingegnoso sarto francese che depositò nel 1830 un fondamentale brevetto di macchina per cucire; l’anno successivo aprì a Parigi un laboratorio con 70-80 macchine per la fabbricazione di divise militari, ma fu assalito da una turba di sarti a domicilio inferociti che, temendo in pericolo il proprio lavoro, mandarono a fuoco il laboratorio distruggendone tutti i macchinari.

5.1. Lo "stile Maria Antonietta"

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Maria Antonietta fu per il suo tempo un’icona di bellezza: ammirata per il suo stile, dettò legge in fatto di moda. Al gusto per gli abiti faceva eco quello delle acconciature, tanto importanti nel corso del Settecento, tanto che la professione della modista era tenuta quasi più in auge dalle donne dell’epoca che non il sarto stesso. E proprio dalla modisteria iniziò la sua ascesa M.me Rose Bertin, che fin dal 1772 prestò la sua opera per Maria Antonietta, non ancora regina di Francia e che dopo l'incoronazione iniziò ad incontrare due volte alla settimana per farsi mostrare le sue creazioni: i suoi critici la denominarono Rose “ministro della moda”. Di fatto la Bertin creò quasi tutti gli abiti della regina fino alla sua detronizzazione, nel 1792.

 

Da regina, Maria Antonietta inizialmente si adeguò allo stile Rococò della sua epoca, ma in seguito sviluppò un amore per l'eleganza e la semplicità. Il suo stile personale, definito Moyenne poiché a metà tra il Rococò teresiano e il Neoclassicismo francese, ebbe appunto varie fasi: tra il 1774 e il 1778 prevalse un gusto tipicamente rococò. Gli abiti di corte, sontuosi ed estremamente ampi erano carichi di passamaneria, nastri e fronzoli, mentre gli abiti quotidiani erano più ridotti di dimensione, ma altrettanto fantasiosi nelle forme (come la robe à la polonaise). Le acconciature turrite arrivavano ad altezze vertiginose, coronate da boccoli e trecce pendenti, piume, fiocchi, fiori, broche di diamanti e perle. Successivamente, dopo la nascita della figlia, Maria Antonietta si volse verso uno stile più semplice: i capelli erano cotonati e gonfiati lateralmente, mentre il vestiario privato si ridusse alla cosiddetta chemise à la reine, abito di mussola bianca di taglio neoclassico; nelle occasioni più formali prese invece il sopravvento la cosiddetta robe à l'anglaise.

 

Anche nel suo amore per l’Architettura Maria Antonietta predilesse allo stile ricco e pomposo della reggia di Versailles, il gusto Neoclassico: le forme sono semplici, i motivi floreali, il bianco e i colori pastello prevalgono infatti al Petit Trianon, di sua personale proprietà. Gusto che si rifletté anche nell’arte dei giardini: alle serre di Luigi XV, Maria Antonietta fece sostituire l'attuale giardino all’inglese, mostrandosi sensibile ad una tematica in voga alla sua epoca che sosteneva il ritorno alla condizione naturale dell'uomo.

Attraverso i suoi tanti ritratti, molti dei quali commissionò alla “limpida” arte  ritrattistica di Marie Louise Élisabeth Vignée Lebrun, possiamo seguire questa evoluzione di moda e di storia.

5.2. La rivoluzione dell’uniforme borghese

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Già Leon Battista Alberti aveva formulato una morale del vestiario che si potrebbe collocare appropriatamente agli albori della «moda calvinista» in un continuum che portò a quella conversione all’austerità che vide l’Inghilterra del XIX secolo adottare l’«uniforme borghese». Quest’ultima comportò la rinuncia a fronzoli e decori nel nome dell’austerità o perlomeno della misura nelle apparenze. È un abito, quello del «borghese», con una lunga storia, le cui tappe fondamentali si collocano nelle città mercantili dell’ultimo Medioevo e nei paesi della Riforma, in particolare in Olanda fra XVI e XVII secolo. (da: M.G. Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia.)

 

Questa rievocazione ottocentesca mostra in modo eloquente i cosiddetti “deputati del Terzo Stato” che si accalcano per entrare all'Hotel des Menus-Plaisirs di Versailles, dove si tengono le riunioni degli Stati Generali nel maggio 1789, alla vigilia della rivoluzione francese. I loro austeri e anonimi abiti diverranno il simbolo dell’eleganza maschile della nuova, fiera borghesia dirigente.

Nel corso del Settecento la spinta filosofica degli illuministi francesi, unita al pragmatismo all’inglese (che corre di pari passo con l’evoluzione della società produttiva), determinò la svolta definitiva nell’abito maschile. L’uomo nuovo, riposto in soffitta il parruccone ereditato dai fasti barocchi, orgoglioso della propria operosità scopre il gusto della comodità e il godimento dell’attività fisica all’aperto.

 

A questa virile ”uniforme borghese” risponde un più disinvolto guardaroba della donna, sempre più decisa, se non all’indipendenza, almeno a coadiuvare il compagno nel suo ruolo in società e nella professione.

Di nuovo i pittori sono testimoni e chi può mostrare di permetterselo si fa ritrarre volentieri: le due coppie ritratte negli stessi anni da Gainsborough e da David, inglese l’una, francese l’altra, illustrano al meglio questa nuova forma mentis.

Nella Passeggiata mattutina Thomas Gainsborough rappresenta con ariosa pennellata i giovanissimi Mrs e Mr William Hallett freschi di matrimonio, fornendo un saggio magistrale del nuovo humus inglese, a partire da quel “sentimento” per la natura offerto dal paesaggio che si fonde con le figure, compreso il fedele cane, candido come l’abito della donna. Una rispettosa intimità traspare nel loro contegno anche sotto un velo di affettazione imposto dall’occasione e dall’abito buono: frusciante seta avorio per lei, polito velluto nero per lui, come due facce della stessa medaglia. Domani le occupazioni di sempre li attendono, il lavoro, il governo della casa … e gli abiti saranno magari di tessuti meno fini e costosi, ma le fogge non varieranno di molto. Piace anche pensare in tale contesto, che il pittore, figlio di un mercante di stoffe, si sia potuto affermare ritraendo una nuova classe manifatturiera, come William Hallet, omonimo nonché nipote dello stimato ebanista Reale.

 

«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma» è una celebre frase di Antoine-Laurent Lavoisier: nobile, fisico, chimico, biologo, filosofo, ed economista. Accademico di Francia, questo illuminato scienziato decapitato nella foga rivoluzionaria, è ritratto dal David futuro cantore della stessa rivoluzione, nell’elogio del suo impegno: il sobrio abito scuro lascia parlare per lui gli attrezzi di lavoro, che lo affiancano alla sua sinistra; alla destra la giovane moglie, che sposò tredicenne per poi divenire sua collaboratrice scientifica: un’ immagine di pura luce nel morbido abito di mussola bianca tipico della “moderna” donna neoclassica, che la farà da padrone fino nella stagione dell’Impero. Un vero inno alla società libera, ma impegnata, per la cui nascita entrambi lavoravano.

5.3. La moda dal XVII al XIX secolo

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Nel Seicento, l’affermarsi dello stile barocco e il suo esuberante sviluppo di motivi curvilinei, sembra rompere la centralità “a dimensione d’uomo” dello schema spaziale rinascimentale e con essa anche la geometrica monumentalità cinquecentesca.

Dal XVI al XIX secolo, l’evoluzione del costume femminile esemplifica al meglio l’avvicendarsi dei ritmi spaziali che disegnano lo spirito di un’epoca fornendogli un “corpo”, come fa l’architettura per il territorio e la foggia dell’abito per l’essere umano. Esaminando le sottostrutture, come busti e sottogonne possiamo seguire il percorso che determina i volumi e le dinamicità della linea.

 

Conformemente alla disciplina della Chiesa controriformata del secondo Cinquecento, la forma rigida e assoluta del verdugale, tesa a disciplinare la libertà della gonna, aveva interpretato l’austerità dell’influenza spagnola. Con l’inoltrarsi del seicento la visione antropocentrica si apre verso spazialità più indefinite, rivelandosi nel dinamismo delle linee e dei chiaro-scuri, come nelle architetture barocche di Borromini e del Guarini, e modella anche l’abito: il busto resta rigido, ma libera pian piano il collo dal giogo della gorgiera, dando sfogo al decolleté e all’ avambraccio lasciando intravedere la carne sotto trine sempre più aeree e raffinate, un vero trionfo della manifattura. Il conico verdugale si ristruttura nel più flessibile guardinfante, poi col settecento nel panier del rococò che  sfoga la sua dimensione sui fianchi e rende ovale la forma della gonna che vi si appoggia libera e fluttuante, aiutata da tessuti sempre più leggeri grazie ai nuovi telai jacquard e agli intensi traffici di importazioni dall’oriente. Mentre il busto si sfina, si allunga e si infiocchetta in deliri decorativi, la gonna si dispiega monumentale e volitiva ad un tempo, mostrandoci la sua regale teatralità: sembra ancora di avvertirne il fruscio croccante del taffetàs aggirarsi fra una scena dei Bibbiena e gli stucchi del Serpotta.

 

L’abito che più di ogni altro rappresentò la moda femminile per quasi tutto l’arco del XVIII secolo fu l’andrienne (veste arricchita di un pannello a pieghe aperte sul dietro, che dalle spalle scendeva fluttuando fino a terra in uno strascico), che sancì la definitiva supremazia della moda francese sia nell’abbigliamento di corte che in quello corrente: possiamo ancora goderne la grazia leggiadra attraverso i dipinti di Watteau e nei più borghesi interni veneziani di Pietro Longhi.

La cultura neoclassica riportò la verticalità della linea, con la semplicità strutturale e maggiore libertà nel movimento, sopprimendo gli elementi che alteravano la linea, ma tra il 1820 e il 30 il corpo della donna fu nuovamente ingabbiato e “steccato”. Nonostante la Restaurazione, la storia della seconda metà del Settecento aveva innescato la miccia della rivoluzione, non solo francese, del popolo, ma soprattutto inglese, quella industriale della nuova borghesia produttiva, che avrebbe cambiato una volta per tutte i parametri della “produzione del gusto”, togliendone lo scettro alla pigra nobiltà cortigiana.

 

5.4. Testimoni del tempo: il Settecento di Pietro Longhi e Carlo Goldoni

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È ormai abitudine accostare i dipinti del Longhi al teatro di Carlo Goldoni e non a caso, tanta la rispondenza di ambiente e di arguto spirito di osservazione, nondimeno intriso della malinconica grazia settecentesca. Ma lasciamoci introdurre dalle indicazioni del drammaturgo stesso:

 

L'innocente divertimento della campagna è divenuto a' dì nostri una passione, una manìa, un disordine.[…] l'ambizione ha penetrato nelle foreste: i villeggianti portano seco loro in campagna la pompa ed il tumulto delle Città, ed hanno avvelenato il piacere dei villici e dei pastori, i quali dalla superbia de' loro padroni apprendono la loro miseria. Quest'argomento è sì fecondo di ridicolo e di stravaganze […] Ho concepita nel medesimo tempo l'idea di tre commedie consecutive. La prima intitolata: Le Smanie per la Villeggiatura; la seconda: Le Avventure della Villeggiatura; la terza; Il Ritorno dalla Villeggiatura. Nella prima si vedono i pazzi preparativi; nella seconda la folle condotta; nella terza le conseguenze dolorose che ne provengono.

I personaggi principali di queste tre rappresentazioni, […] sono di quell'ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira; cioè di un rango civile, non nobile e non ricco; poiché i nobili e ricchi sono autorizzati dal grado e dalla fortuna a fare qualche cosa di più degli altri. L'ambizione de' piccioli vuol figurare coi grandi, e questo è il ridicolo ch'io ho cercato di porre in veduta, per correggerlo, se fia possibile.

 

Poi, attraverso il dialogo, l’autore ci fa partecipi delle abitudini dell’epoca riguardo il rifornimento del guardaroba e il ruolo del sarto:

 

Leonardo: Quest'è il diffetto di mia sorella. Non si contenta mai. Vorrebbe sempre la servitù occupata per lei. Per andare in villeggiatura non le basta un mese per allestirsi. Due donne impiegate un mese per lei. È una cosa insoffribile.

Paolo: Aggiunga, che non bastandole le due donne, ne ha chiamate due altre ancora in aiuto.

Leonardo: E che fa ella di tanta gente? Si fa fare in casa qualche nuovo vestito?

Paolo: Non, signore. Il vestito nuovo glielo fa il sarto. In casa da queste donne fa rinovare i vestiti usati. Si fa fare delle mantiglie, de' mantiglioni, delle cuffie da giorno, delle cuffie da notte, una quantità di forniture di pizzi, di nastri, di fioretti, un arsenale di roba; e tutto questo per andare in campagna. In oggi la campagna è di maggior soggezione della città.

 

(Da: Le Smanie per la Villeggiatura, Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta in Venezia nell'anno 1761)

6. XIX SECOLO - Dal sarto allo stilista: il trionfo dell’Haute Couture

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Seguire l’evoluzione della moda nel XIX secolo, specie nell’ottica del Made in Italy, comporta una duplice visione: l’una “tecnico-artistica” e l’altra storico-geografica.

 

Se Parigi resterà sempre punto di riferimento del “dérnier cri” è pur vero che l’influenza della rivoluzione industriale, di matrice inglese, ha sparigliato notevolmente le carte dell’assetto produttivo con implicazioni sociali di enorme rilievo. Con una semplificazione un po’ forzata, ma chiarificatrice possiamo dire che le due aree, francese e anglo-americana, furono leader dei due settori in cui si va specializzando la moda: l’Haute Couture e il Prêt-à-porter. La prima elitaria, commercialmente rivolta alle classi più elevate, sarà sempre più legata agli umori artistici maggiormente innovativi, alla ricerca di novità ed esclusività insieme, spingendo il significato della parola Moda verso il concetto di “Immagine”.

Il Prêt-à-porter è, letteralmente, pronto da portare: si lega allo sviluppo tecnologico nel settore dell’abbigliamento e al idea di “serialità”, di “inclusività” e accessibilità. Non a caso a spingere tale democratizzazione della moda furono i paesi più liberali; i primi significativi passi del Prêt-à-Porter risalgono infatti al sarto americano Ebezener Butterick, che stabilì un sistema di produrre modelli in serie e in misure diverse: dal 1863 la Butterick Pattern Company iniziò la sua ascesa ai vertici della modellistica sartoriale alla portata di (quasi) tutti.

Anche la distribuzione richiedeva reti diverse di cui si fecero carico i Grandi Magazzini: dal prototipo parigino del Bon Marché (1852) di Aristide Boucicat la loro diffusione fu inarrestabile.

 

La storia dell’alta moda tra il 1800 e il 1900 ruota invece sull’abito su misura e la professione del sarto, che fino allora si limitava a riprodurre i modelli. Questa evoluzione è racchiusa esemplarmente tra due figure di spicco: Madame Rose Bertin, già modista di Maria Antonietta, e l’inglese Charles Frederick Worth, a cui si deve l’evoluzione della crinolina. A Parigi dal 1845, Worth orientò l’eleganza internazionale, dall’imperatrice Eugenia alle dive della scena come Sarah Bernhardt e Eleonora Duse.

 

Ma la prima stilista ante litteram fu Madame Bertin: aprì Le Grand Mogol a Parigi nel 1770. Con una settantina di marchandes de mode alle dipendenze della sua boutique, creava abiti estrosi ed elaborati, con quel tocco così personale che le gran dame se li contendevano in perenne sfida alle novità.

La “maison Worth”, sconvolse i vecchi schemi già nel modo di presentare la collezione: i prestigiosi clienti vedevano sfilare gli abiti su modelli “vivi” e a loro fisicamente conformi, ma che esibivano un’eleganza ed un portamento tanto “desiderabile” quanto l’abito indossato, che ne veniva oltremodo valorizzato. Il concetto della moda cambiò così di significato, spostando l’accento dal vestito all’immagine complessiva, archetipo del futuro Total Look. Worth orientava pertanto le scelte dei clienti, il ciclo delle mode e della stagionalità: la strada della haute couture era tracciata e l’umile sarto, si erigeva ad artefice di un’intera impresa creativa.

6.1. Moda nel XIX secolo

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Pochi periodi sono tanto ricchi di novità e fermenti come il XIX secolo, foriero di continui stimoli di analisi che chiariscono anche molti episodi del presente.

Impossibile fare una breve panoramica anche solo dei cambiamenti formali dell’abbigliamento, che di per sé non ci racconterebbero molto: la moda, ormai abbastanza matura nel suo senso di immagine, continua a modulare e diffondere le sue fogge in modo sempre più connesso alla struttura economica e sociale di appartenenza. Applicando alcuni fondamentali criteri ne possiamo tuttavia seguire la logica interna, convinti che nemmeno il più irrazionale ghiribizzo modaiolo ne è realmente estraneo.

“Niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma”, notava lo scienziato-economista-filosofo Lavoisier alla vigilia della Rivoluzione che doveva seppellire l’ancienne regime. Ed ecco che la purezza neoclassica, nemica dell’ostentazione, si trasforma attraverso il Direttorio nel fasto Napoleonico e poi ancora nella Restaurazione, un termine che lascia poche speranze alle istanze progressiste. Ma verso la fine del secolo un mai lenito classicismo tornerà, cangiato, a liberare il corpo della donna “nuova” dalle gabbie di una bellezza innaturale. Così alle velate tuniche che vestivano le attitudes di Lady Hamilton, risposero un secolo più tardi quelle che avvolgevano le danze libere di Isadora Duncan, lasciando ai Fortuny e ai Poiret il compito di diffonderne infinite varianti nei guardaroba delle signore più emancipate degli inizi del XX secolo.

 

Che sia una nazione o l’altra a portare il vessillo della novità è una questione squisitamente politica. Anche assegnare la palma della propositività all’una o l’altra arte, oppure alla scienza, il cammino dell’innovazione nel XVIII secolo sarà inarrestabile. Dovendo accordare già agli anni maturi del Settecento il merito della grande rivalutazione delle arti applicate (che si celebri il ruolo dell’Illuminismo e dell’Encyclopédie o si invochino le notturne riunioni degli sperimentatori della Lunar Society di Birmingham), è indubbio che il confronto, compreso lo scontro, con l’innovazione tecnologica, sarà sempre più ravvicinato e inevitabile. E si potrà cominciare davvero a parlare di Design nelle sue varie ramificazioni, compreso quello della Moda.

6.1.1. L’abito maschile: imprenditori vs Dandy

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La maggiore attiguità dell’uomo con la pratica del lavoro aveva già provveduto a riformare la struttura dell’abito maschile durante il secolo precedente, stabilizzandosi attorno alle varianti del “tre pezzi” costituito da pantalone, gilet e giacca (un’evoluzione della marsina, declinata in due fogge-base, frac e redingote) e del soprabito, affermando una virile sobrietà: banditi i ricami, riservati solo alle diplomatiche (marsine di gala per eventi ufficiali) sete e tessuti lucidi e operati rimarranno solo per qualche “tocco” riservato a sciarpe o gilet. Lo stile dell’eleganza sarà connotato allora attraverso un’estrema cura dei dettagli e dell’impostazione, della struttura dell’abito, in una parola del “taglio”. Di questa particolare sezione dell’arte sartoriale erano storicamente maestri i sarti napoletani (e per attiguità politica i palermitani), da cui si indirizzavano all’occorrenza quei giovanotti cosmopoliti ed eleganti impegnati nel Grand Tour della classicità italiana. Il taglio dell’abito è proprio quel plus che, nell’armoniosa unità di proporzioni, praticità e vestibilità, conferisce quel tocco di “carattere” inconfondibile ad un capo di vestiario. Lo sapeva bene Lord Beau Brummell, caposcuola del dandysmo: frac blu doppiopetto con bottoni dorati, attillati pantaloni beige infilati nei lucidissimi stivali, gilet, spesso doppio ma comunque bianco, come la camicia dal colletto alto inamidato su cui avvolgere l’immacolata cravatta; un’“uniforme” inflessibile che doveva far risaltare la cura ossessiva dei dettagli, come il nodo della cravatta, complesso ma perfetto che variava stile con l’occasione, i guanti, il bastone da passeggio; i capelli pettinati ad arte completavano la maniacale toilette all’insegna dell’igiene e poi … la cultura, il linguaggio scelto ma arguto, le belle maniere e il senso di cavalleria, a decretare una volta per tutte che nella Moda non conta solo il "cosa", ma il "come". Certo lo stile minimalista di Brummel era una eloquente risposta a quegli Incroyables post-rivoluzionari del Direttorio, che spingevano a ogni possibile eccesso l’aria di libertà che di nuovo respiravano “i ricchi”: vestiti che combinavano tre o quattro colori squillanti, il collo irrigidito da cravatte “ortopediche”, i capelli a "orecchie di cane" (corti ovunque ma lunghissimi sulle tempie e sulla fronte), e poi grandi orecchini, bizzarri dettagli e grandi feluche sgangherate per andare a passeggio in pendant con le loro dame Merveilleuses.

 

Con il passaggio da eccentrico a dandy, l’abito dell’uomo elegante si va sempre più modellando con lo stile di vita e di pensiero. Lasciando il pragmatismo alla categoria imprenditrice, il vento “romantico” dal motto “arte come vita” smuoverà le vesti della Restaurazione traendo ispirazione dai romanzi “gotici” e “storici” alla Walter Scott, dalle liriche di Byron, fino agli italici Foscolo e D’Azeglio. Un romanticismo che si tingerà dei colori del patriottismo fino e oltre l’Unità d’Italia. Nel 1861, ormai il realismo positivista avvia a riformare anche l’inaccessibile donna silfide, iniziando a “sgonfiare” persino la crinolina dell’imperatrice Eugenia e delle sue cortigiane.

 

Oltre che dall’andamento ondivago con cui si sottolinea la struttura del corpo (grazie all’arte sartoriale che attraverso i tagli della veste può modellare a piacimento): più alto, più basso, più stretto più largo, rispetto a spalle, gambe e punto vita, il passaggio di stili nell’abbigliamento maschile nel corso di tutto il XIX secolo, sarà scandito soprattutto dall’arte del parrucchiere, in un andirivieni di baffi, barbe, basette o “favoriti” che arrivano a scendere sotto le orecchie fin quasi ad unirsi al mento), onde e riccioletti più o meno “scapigliati” nei capelli corti. E poi l’immancabile cappello (il cilindro, in tutte le sue inflessioni, la farà da padrone), guanti e “gingilli” tipo bastone, occhialini, monocoli, tabacchiere, orologi da taschino … Altro rivelatore del passaggio modaiolo è il collo della camicia: alto, basso, duro, morbido, con o senza pistagna, staccabile, ma rigorosamente bianco.

 

Coerentemente con l’abbigliamento femminile, sempre più le collezioni scandiranno non solo le stagioni, ma i ritmi della giornata: mattina, pomeriggio, sera, lavoro, svago … Imponendo sul mercato la nuova moda per lo sport di cui diverranno naturalmente maestre America e Inghilterra.

6.1.2. L’abito femminile fra Artificio e Natura

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Il XIX è un secolo di grande cambiamenti dell’idea stessa di donna e del rapporto con il corpo. Agli estremi di questo complesso percorso incontriamo due icone femminili: la Ebe della mitologia greca effigiata da Canova (simbolo egli stesso del Neoclassicismo) e l’americana Loïe Fuller, donna, artista, manager di se stessa. Pur non rappresentando abiti quotidiani, queste immagini sintetizzano al meglio lo spirito della moda del tempo. Marmo l’una, carne l’altra, unite nella sfida di vincere la staticità della materia e liberarla nello spazio attraverso il movimento; è questo il tema cruciale di tutto un secolo che ha ri-creato la luce, come ha re-inventato l’arte della danza: “tecnica” e “sentimento”, base di ogni grande arte, come della Moda stessa, mai come nell’Ottocento marciarono a fianco.

 

La linea dell’abito femminile imposta dal gusto Neoclassico è ispirato alla giovinezza danzante di Ebe, con la leggerezza delle vesti che scoprono braccia e spalle: anche d’inverno l’uso dei soprabiti sarà allora inviso, iniziando una moda degli scialli lunga tutto il secolo, grazie anche ai cachemire importati dalla Compagnia delle Indie. Anche la linearità e la predilezione per il bianco riportano in territorio inglese, con le “rivoluzionarie” ceramiche disegnate da Flaxman per la fabbrica di Wedgwood dal motto: Artes Etruriae Renascuntur, che richiude il cerchio sul mito del Grand Tour Italico.

 

Il gusto neoclassico ha avuto largo seguito anche in Italia, e comprensibilmente, dato che dalle sue arti era nato e grazie anche alla fortuna del Canova, artista prediletto da quell’entourage napoleonico che si era insediato in buona parte d’Italia unificandone il gusto. Anche le abitazioni delle classi “moderne” erano improntate alla stessa sobrietà delle vesti: “ambienti nudi e spogli nella lucida freddezza delle pareti di stucco e dei pavimenti di marmo che il rigore rettilineo dei mobili laccati abitualmente in bianco con qualche sobrio ornamento in oro non disturba né anima” (Rosita Levi Pisetzky), che sottolinea la coerenza stilistica del periodo. Fin dal regno di Etruria (1801-1807) ad esempio, con Luisa di Borbone Parma, fu promosso un rinnovato interesse per la promozione delle arti, ma fu soprattutto Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, principessa di Lucca e Piombino (1805-1809) e poi granduchessa di Toscana (1809-1814), che richiamò a sé scultori, pittori, musicisti e sostenne le industrie artigiane toscane, incentivando la lavorazione della seta, della mobilia e della porcellana, come le Ceramiche Ginori di Doccia.

 

Con il degenerarsi dell’Impero napoleonico e la conseguente Restaurazione il soffio di fresca naturalezza che annunciava la liberazione del corpo femminile cominciò a fermarsi e irrigidirsi sotto gli abiti. Le bianche tuniche che scendevano dritte da sotto il petto, ondeggianti leggere intorno ai piedi sfiorando le gambe, presero a gonfiarsi ad ogni lustro di tempo. Stecche di balena costruirono un intreccio che raddrizzava e allungava il busto, gravato da una quantità di tessuto sempre più abbondante nella gonna. La tendenza puritana di un cattolicesimo contro-illuminista che copriva e castigava la donna, era bilanciata dai fasti mondani delle corti come quella francese dell’influente imperatrice Eugenia o quella asburgica della romantica Sissi e di cui Franz Xaver Winterhalter ci ha lasciato una straordinaria galleria di ritratti: vaporose toilettes dove gli abiti, specie quelli da ballo, si scollavano sempre più e si arricchivano di decorazioni, pizzi e vezzosità, come ventagli e mantiglie. Ma in questo tripudio neorococò si era già innestata la “primavera dei popoli” (come furono chiamati i moti rivoluzionari del 1848) e le istanze realiste che la interpretavano, determinando l’inizio di una nuova inversione di rotta.

 

6.1.3. L’era della Crinolina

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Nella moda, mai niente viene abolito una volta per tutte: tutto si ripresenta, con varianti. Ciò è tanto più vero nell’Ottocento quando, al definitivo tramonto del Neoclassico e del suo epigono, lo stile Impero, si avvicendarono un revival dietro l’altro. Siamo intorno al 1830, che vede fronteggiarsi i vari spiriti della Restaurazione. Il revival medievale, portato dalla grande ondata romantica, indusse ad adottare lunghe gonne con strascico e corsetti dalle maniche a sbuffo, fodere di pelliccia e berretti di velluto ornati di piume: ornamenti in verità partoriti da un’idea, da quella “fantasia” sul medioevo come testimoniano la grande “pittura di storia” come quella di Francesco Hayez o i movimenti come il Preraffaellismo, dove si mischiavano età e territori. Sta di fatto che la moda del revival medievale interessò in Italia molta parte della produzione culturale e del vivere sociale. Nella moda il fenomeno, meno diffuso ed evidente rispetto all’architettura, si manifestò dapprima nella forma delle maniche, grandi e imbottite dette à gigot (eredi più del tardo-rinascimento che del medioevo), poi con le gonne, sempre più ampie, fino al ripristino di una sottostruttura rigida, mutuata da verdugale e guardinfante: tant’è che l’immaginario collettivo, quando pensa alla donna ottocentesca, la vede in crinolina.

 

In uso all’incirca dal 1840, la crinolina era una sottogonna fatta di crini di cavallo intessuti con lino o seta, ammorbiditi ed impermeabili all’acqua che non si sgualciva o deformava: il favore che subito incontrò rese ricco M. Oudinot, il suo inventore! A metà Ottocento si conoscevano molti modelli di crinoline, che di fatto dal 1856 erano diventate vere gabbie (ottenute con cerchi di filo metallico), tesi a creare un effetto architettonico sempre più voluminoso che raggiunse la massima ampiezza nel 1866. La donna, collocata al centro di pagoda diveniva sempre più “irraggiungibile”, quanto facile preda dei tanti disegnatori satirici. Nonostante, il successo riscosso, in contesti aristocratici quanto in ambienti borghesi, fu incontenibile.

 

“La parte inferiore del vestito spesso era costituita da un insieme di nove o dieci strati fra gonna e sottogonne realizzate in diversi materiali. Le varie sottogonne non erano vendute singolarmente ma a fasci, anche di dodici l’uno. Era pure molto apprezzato il fruscio determinato dal contatto fra le sottogonne e per aumentarne l’effetto sonoro in qualche caso non si esitava a inserire fra una gonna e l’altra qualche foglio del «Daily News», o meglio ancora del «Times», come si legge in uno dei libri di memorie di Molly Hughes” (M.G.Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia).

 

Per abbellire una tale superficie di tessuto si faceva ricorso alle più svariate guarnizioni di nastri, trine, gale, rouches, persino frange e pon-pon, senza limiti alla fantasia, tanto che nei casi più maldestri di “arrampicamento sociale” si poteva essere confusi con il sofà! Quanto più la crinolina era ampia ed elaborata, tanto più i movimenti erano impacciati e inadatti ai lavori manuali, facendo la spia all’effettivo livello di privilegio sociale della dama: anche se le evoluzioni produttive l’avevano resa, oltre che leggera e maneggevole, anche a basso prezzo, con la crinolina indosso non ci si poteva muovere nelle case modeste senza provocare danni.

 

Se la storia della moda vede impalmare l’inglese/francese Worth come demiurgo della crinolina; la leggenda popolare vede invece fronteggiarsi Italia e Francia attraverso due forti caratteri di donne, l’imperatrice Eugenia, simbolo stesso dell’eleganza e la “cortigiana” contessa di Castiglione, antesignana della femme fatale. Si narra che fu proprio Eugenia, prima fautrice dell’”attrezzo”, a volersene liberare nel momento culminante della gara a rialzo con la rivale, in cui la contessa si presentò con una crinolina esageratamente larga: ritrovandosi con una quantità di tessuto fra i piedi, l’imperatrice se la raccolse sul dietro a modo di fiocco, determinando l’avvento della tournure e quella tipica forma a coulinson che ha segnato la linea femminile dagli anni ’70 del XIX secolo fino alla “riforma” del Novecento.

6.1.4. W l’Italia

Moda e design

“Da allora tutto mutò rapidamente nelle abitudini domestiche, nella vita cittadina, nelle usanze, nelle menti, quasi come se fosse passato un secolo” (Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù).

 

I moti del ’48 sono una data capitale anche nel calendario della storia della moda italiana: succube per tutto l’Ottocento delle mode francesi, riuscì dal sentimento irredentista a prendere lo slancio verso un ruolo più creativo, elaborando nuove tendenze molto particolari e molto seguite. I fermenti politici e gli aneliti di indipendenza, effettivamente, diedero vita al tentativo di una nuova moda autoctona, anche al di là dell’evento simbolico costituito del vestito nazionale, cioè all’italiana.

 

Già negli anni precedenti comparvero barbe e pizzetti come simboli carbonari; dal ’47, a seguito dei moti in Calabria, venne adottato il cappello alla calabrese, come simbolo di liberalismo, quello alla puritana (da I Puritani del Bellini) o anche quello piumato all’Ernani (il bandito protagonista dell’omonima opera verdiana).

 

Il «Corriere delle Dame», che già dal suo inizio ai primi dell’Ottocento, promuoveva la cultura nazionale, non aveva dubbi "Che la moda sia collegata cogli avvenimenti sociali e politici” come “…è provato anche dai recenti avvenimenti in Italia. Abbiamo visto lo scorso carnevale le signore presentarsi al teatro colle cuffie guarnite di nastri di tre colori, presenti i dominatori della casa d’Austria; abbiamo visto la moda dei vestiti di velluto proposta per danneggiare le case commerciali della Germania; poi i cappelli acuminati, simbolo della rivoluzione napoletana, calpestati al loro apparire dal bastone della polizia; ma risorti più tardi a nuova e gloriosa vita, accompagnarsi con le fogge svelte e marziali dei popoli della Calabria”.

 

L’utilizzo del velluto diede poi vita al costume all’italiana, detto anche alla lombarda era divenuto in via informale quasi l’uniforme dei combattenti delle Cinque Giornate: “…un camiciotto o blouse di velluto nero, di fabbrica nazionale, stretta alla vita da una cintura di pelle da cui pendeva una daga o spada: colletto bianco grande rovesciato sulle spalle: calzoni corti di velluto nero, stivali che arrivavano al ginocchio, cappello alla calabrese con pennacchio e una collana che scendeva sul petto e da cui pendeva un medaglione, ch’era di solito il ritratto di Pio IX”, come ricorda Giovanni Visconti Venosta. Questa moda d’impegno civile fu adottata anche dalle donne: il vestito, sempre di velluto, era portavano “aperto su una sottana bianca di raso o di lana, rifinito da fusciacche tricolori, cappelli alla calabrese, pistole e persino spade e sciabole usate dalla cavalleria. Il capo veniva coperto non dai frivoli cappellini alla francese, ma da grandi veli neri o da mantiglie di pizzo, che scendevano a coprire spalle e vita.” (Cristina Cenedella, Tra moda e rivoluzione: la Lombardia nel 1848, Rivista la ca' granda, XLVII, 1, 2006).

6.2. Ebenezer Butterick pioniere del prêt-à-porter

Moda e design

Il processo di democratizzazione del mercato della moda compie nel corso dell’Ottocento i suoi passi determinanti. Ma se l’evoluzione del gusto, l’impronta determinante delle linee-guida dell’estetica, provenivano ancora da un ambiente elitario, se non di corte, i cambiamenti strutturali evolvevano in settori “utilitari” e commerciali. L’espansione di un mercato può avvenire solo a condizione di costi accessibili per le classi meno privilegiate, per cui la necessità di conciliare i due fronti si fa indispensabile. Il primo passo sta nella reperibilità di tessuti meno pregiati ed è evidente come la diffusione del cotone e della stampa su tessuto in Europa, tramite le colonie e l’industria tessile inglese, seppe già interpretare il gusto di una linea più “pura”. L’altro settore sensibile è la confezione (il terzo, la pubblicizzazione sarà in carico alle riviste di moda, il quarto, la distribuzione, si stava creando attraverso la struttura dei grandi magazzini). Già nel 1830, in Francia, Barthélemy Thimonnier, arrivò al brevetto della macchina per cucire spinto dalla necessità di confezionare una quantità di divise per l’esercito; una trentina d’anni più tardi lo stesso problema si verificò con la cruenta Guerra civile americana (1860-1865). Dovendo accelerare la distribuzione delle uniformi ai soldati, il confezionamento passò dalle case dei sarti dell’esercito, ai sarti delle fabbriche. Qui, il ripetersi con regolarità di alcune misure, come la circonferenza del torace, ispirò lo studio di modelli standard.

 

Fino al 1860 l’unica alternativa alla sartoria su misura era l’abbigliamento preconfezionato di abiti ampi e informi diffusi in due sole misure, acquistati per lo più da operai e gente di mare.

Ma se certe costanti nelle misure del corpo umano esistevano nei soldati, perché non rintracciarle anche nelle signore desiderose di adeguarsi all’”ultimo grido” della moda?

Questo fu la domanda che si pose Ebenezer Butterick, sarto su misura, quando inventò i primi cartamodelli graduati (detti modelli di cucitura graduati) per abiti femminili di lusso.

La rivoluzione di Butterick, grazie anche alla moglie Ellen Augusta Pollard, approdò ai moderni cartamodelli in carta velina, con le sagome delle varie taglie da riportare sui tessuti con il gesso. L’utilizzo della carta velina, tanto sottile da poter essere tagliata anche in dieci strati alla volta, facilitava la produzione di massa; poteva essere più facilmente spedita in tutto il paese dalla base operativa di Sterling (Massachusetts).

 

Essere sempre un passo avanti alle richieste del pubblico è buona legge per un successo commerciale e com’era prevedibile, in un solo anno l’impresa Butterick sbarcò a New York, al 192 di Broadway Street. Il passo successivo non poteva che essere la diffusione a stampa: dal 1868 propose modelli, notizie di moda e consulenze, nonché servizi di vendita per corrispondenza, sul mensile Metropolitan, finché nel 1873 nacque The Delineator, rivista trimestrale pubblicata dalla Butterick & Co. che, alla fine del secolo, era già la prima rivista femminile negli Usa.

6.3. Charles Frederick Worth: dal sarto alla stilista

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La parabola dell’inglese Charles Frederick Worth da commesso di un grande magazzino di tessuti e guarnizioni a riconosciuto creatore dell’haute couture parigina, capostipite dei celebrati stilisti, è esemplare nello svolgersi della storia del “sistema moda”. Nel 1838 inizia con la più difficile arte di trattare con le capricciose clienti londinesi in Regent Street. Nel 1845 a soli vent'anni è già pronto per l’avventura parigina, che riparte da un negozio di tessuti: qui l’incontro cruciale con la bella Marie Vernet, che sarà, più che futura moglie, musa e modella. Con lei nel 1857 apre la propria attività e riesce a conquistare la moglie dell’ambasciatore prussiano a Parigi, principessa Pauline de Metternich e da lei nientemeno che l’imperatrice Eugenia di Montijo. La sposa di Napoleone III di Francia era una delle maggiori icone di stile del Secondo Impero e divenirne il sarto di corte ufficiale nel giro di due anni è un fatto tangibile di talento. Un talento non solo formale, ma manageriale, tanto che è difficile scindere il suo ruolo di innovatore della linea femminile, da quello di creatore di un’immagine professionale che unisce l’artista all’artigiano.

Specializzato in abiti da sera e da ballo, sarà in grado modificare la foggia corrente adottando variazioni della crinolina, elemento chiave del percorso della moda nel XIX secolo, decretandone prima l’espansione, poi il tramonto, passando per la fase mediana della tournure, una sorta di “cuscinetto” alza la gonna sul didietro, lasciandola invece scendere piatta sul davanti, che andò di moda, con pochi cambiamenti, fino alla fine del secolo. Vera prova di tecnica applicata all’arte fu la Princesse, concepito appunto per le dame della corte di Eugenia, abito dalle lunghe maniche cucito in un unico pezzo, con il punto vita che non è segnato da cuciture ma da pinces verticali che fanno aderire l’abito alla cintura e mettendo in risalto il busto e i fianchi.

 

Il manager Worth, capì argutamente che le parola d’ordine della moda ormai erano immagine e diffusione. Il sarto-servitore doveva lasciare il posto al creatore indiscutibile dello stile, che coinvolgeva sempre più tutta la sfera estetica e comportamentale: gli abiti cominciarono allora a presentarsi in una sequenza, come i quadri di una galleria che rispettavano anche il ritmo delle stagioni, ben “incorniciati” su attraenti mannequins, che ancora non sapevano di interpretare una delle professioni più vagheggiate della nostra era.

Non di minore importanza la diffusione delle sue creazioni, certificate da etichette con la sua griffe apposta all'interno dell'abito, immettendo anche il cartamodello sul mercato, evitando così qualsiasi imitazione e proponendo regolarmente nuove fogge, nuovi tessuti e guarnizioni, modelli. Ormai con Worth la moda entra nell'età moderna, reinventando la sua realtà fra estetica, comportamento, impresa creativa e spettacolo pubblicitario.

6.4. Les marchandes de mode

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“In Francia un punto di svolta in fatto di creazione sartoriale l’hanno segnato in pieno Settecento le marchandes de mode che nelle botteghe in cui vendevano nastri e trine presero a proporre nuove decorazioni sulla base del loro gusto e di invenzioni personali. Rappresenta emblematicamente questa svolta la figura di Madame Rose Bertin, la già menzionata modista di Maria Antonietta, specialista in cappelli e decorazioni del capo. Il fatto stesso che di questa modista si sia tramandato il nome costituisce un’importante novità. Precedentemente si conosceva il nome di un sarto quasi solo se finiva in tribunale per avere magari disatteso le norme suntuarie. Di Madame Bertin possediamo anche il ritratto, che restituisce l’immagine di un volto paffutello sovrastato da una pettinatura gonfia decorata con trine, nastri e fiori, gli ornamenti che l’avevano resa famosa Alle sue dipendenze lavorava una settantina di marchandes de mode. Coordinando il lavoro di un piccolo esercito, Rose Bertin consegnava alle sue illustri clienti abiti estrosi ed elaborati, adatti alla vita di corte, che costavano una cifra equivalente a più di 1.000 giornate di lavoro salariato (intorno alle 2.000 lire). Le grandi dame si contendevano le sue creazioni che lanciavano continuamente mode rapidamente adottate e altrettanto rapidamente superate” (M.G. Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia).

 

Guardando le immagini dei costumi del settecento, specie nel loro massimo splendore rococò, comprendiamo quanto la decorazione, soprattutto quella dell’acconciatura, fosse primaria. Non sorprende quindi che proprio da quelle che oggi chiamiamo “merciaie” venga il più forte impulso alla presa di potere del “sarto creativo”, ovvero dello stilista di moda, dalla conclamata dignità professionale. Va perciò ricordato come Charles Frederick Worth, incoronato l’inventore della haute couture, abbia iniziato la sua attività come garzone in un negozio di tessuti. E la loro massima “incoronazione” viene proprio dall’affezione dimostrata loro dalle regine di mezza Europa, comprese quelle delle scene teatrali!

 

Forse ancora più rilevante per capire l’evoluzione compiuta da questo tipo di categorie professionali, è la pubblicazione della “epocale” Encyclopédie compilata da Diderot e d’Alembert: un Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri che, conforme ai dettami dell’illuminismo, apre la via ad una rivalutazione, culturale e morale, dell’artigianato. Qui, alla sezione Arti dell’abbigliamento, sono elencate molte professioni legate alla moda e alla toilette, come il bottonaio, il fabbricante di passamaneria, la ricamatrice, il cappellaio, la sarta, il commerciante di tessuti, la merlettaia, la fabbricante di ventagli, di biancheria, di piumaggio, il parrucchiere, il barbiere, la guantaia, e poi l’arte di fabbricare i tessuti, la produzione della seta … Il tutto fornito di illustrazioni di laboratori e attrezzi.

Quella delle marchandes de mode divenne una vera e propria corporazione nel 1776 e ovviamente ebbe fra i primi sindaci proprio Rose Bertin.

 

7. La rinascita delle arti applicate: alle basi del concetto di Design

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La rivalutazione delle “arti applicate” è legata da un lato al progresso tecnologico che facilita la crescita del mercato e l’emancipazione sociale, dall’altro si rivolge a cercare nel lontano passato la linfa di una nuova operatività. Così nel Medioevo e Rinascimento, così nella controversa marcia della Rivoluzione industriale nell’Europa del XVIII-XIX secolo.

La ricerca “illuminista” verso un maggiore rispetto per l’individuo e la sua libertà creativa, la rivalutazione del lavoro manuale e del concetto di abilità, si intrecciano con l’esigenza di riprodurre e moltiplicare il prodotto. 

La fattura a regola d’Arte, il gusto del “ben fatto”, nota virtù italica, divenne nel XX secolo la chiave patriottica per trasformare in virtù tare strutturali quali il ritardo nello sviluppo industriale e la subalternità nel dibattito culturale. Penalizzati dalla frantumazione territoriale, si assisteva all’ascesa delle nazioni unitarie e alla loro espansione coloniale: come negare che la “prima rivoluzione industriale” nell’Inghilterra del ‘700, iniziata nel settore tessile, fu favorita dall’importazione di materie prime come il cotone (e la relativa tecnica di stampa su tessuto) di cui la “loro” India era ricca quanto le colonie del Nuovo Mondo? Filato resistente, di più facile ed economica lavorazione, il cotone riformerà i guardaroba di tutta Europa e oltre.

I medesimi venivano in Italia cercando il luminoso passato, una cultura artistico-artigianale non ancora minacciata dal lato oscuro della macchina. Così la voga aristocratica del Grand tour, divenne un apprendistato artistico: un nome per tutti, John Ruskin, “padrino” del Preraffaellismo e dell’Arts and Crafts Movement, ispirato alle Corporazioni delle Arti e Mestieri medievali che pur ponendosi come modello anti-industriale, influenzò i futuri movimenti come l’Art Nouveau e la Wiener Werkstätte, fino al Deutscher Werkbund, tappa importante per la fondazione del Bauhaus, prima vera scuola di formazione professionale di disegno industriale, anzi, di design.

La rivalsa autonomista italiana confida sul secolare bagaglio di cultura manifatturiera, ma punta a legare il momento artigianale-decorativo con quello produttivo-industriale. Con l’appoggio di molti artisti e intellettuali come Camillo Boito, si costituirono le “Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria”, iniziando una tradizione didattica che ha formato fino ad oggi la tanto rinomata classe di maestranze.

Rilevante fu l’influenza delle Grandi Esposizioni Universali su arti, educazione, commercio e relazioni internazionali. La Great Exhibition nella Londra vittoriana del 1851, fu modello anche per quelle celeberrime di Parigi del 1889 e del 1900. 

“Torino 1902- Le arti decorative internazionali del nuovo secolo” fu la prima esposizione internazionale interamente dedicata a questo particolare settore e costituì un momento di confronto straordinario con i movimenti modernisti internazionali (e apice della breve ma gloriosa esperienza del Liberty italiano). L’intenzione è ben dichiarata nel regolamento:

L'Esposizione comprenderà le manifestazioni artistiche ed i prodotti che riguardino sia l'estetica della via, come quelli della casa e della stanza.
Vi saranno ammessi soltanto i prodotti originali che dimostrino una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma.
Non potranno ammettersi le semplici imitazioni di stili del passato, ne la produzione industriale non ispirata ai sensi artistici.
(dall’art.2).

Clausole che erano perfettamente in linea con il genio eclettico di Carlo Bugatti l’ebanista che si fece designer, che infatti conquistò il Primo Premio, per l’assoluta perizia e originalità nel combinare i più diversi materiali, ridisegnando lo stile arabeggiante ancora in voga con uno stile unico che lo rese internazionalmente celebre. Per inciso, suo figlio Ettore fu progettista e fondatore della premiata compagnia di automobili sportive. 

Gli artisti progressisti del tempo intendevano le arti decorative come un unicum, dall'arredamento urbano al più umile oggetto d’uso, convinti che l'alito della creazione artistica dovesse entrare nella quotidianità e comunicarsi ai più, annullando il confine tra l’utile e il bello.

7.1. La rivalutazione delle Arti applicate tra industria e artigianato

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Arti democratiche”, le definiva il socialista William Morris, e ne idealizzava la rinascita medievale in cui ogni uomo potesse rendersi libero con il lavoro delle sue mani e, nello stesso tempo, circondarsi di oggetti belli e di qualità, rifiniti e durevoli, in antitesi all’invadente riproduzione industriale. Di fatto fu costretto a fare i conti con gli alti costi che il suo tipo di manifattura imponeva, limitandone la fruizione ai più, che continuavano ad avere miglior accesso ai prodotti dell’industria, che in Inghilterra vantava ormai un buon secolo di vita: le Arts and Crafts nascevano infatti nel 1861, mentre la Wedgwood, ad esempio, è targata 1759 (come appare sul sito web dell’azienda, a tutt’oggi una delle industrie di ceramica più rinomate al mondo, che ne mostra anche la gloriosa storia con immagini dal suo museo). L’arguto Josiah, con l’aiuto degli amici scienziati della pionieristica Lunar society, come Erasmus Darwin e Watt, già nel 1782 fece dell’Etruria (nome dal significato inequivocabile) la prima fabbrica dotata di un motore a vapore e vi introdusse una moderna divisione del lavoro: da un lato il designer, che per lungo tempo fu il neoclassico John Flaxman (dal 1775 al 1787), delegato alla progettazione delle forme e delle decorazioni dei manufatti; dall'altro gli artigiani, divisi in formatori, tornitori, plasmatori, decoratori e addetti alla rifinitura. Dalle celebri stoviglie creamware, ai “grecizzanti” basalti neri, fino ai raffinati e imitatissimi Jasperwares (oggetti in porcellana Jasper, lavorati in rilievo come cammei, con motivi antichi studiati nella ricca collezione che lord Hamilton aveva portato con sé da Napoli), l'esportazione a marchio Wedgwood suscitò entusiasmo in tutta Europa, tanto più forte in quanto la moda britannica cominciava allora a imporsi sul continente.

 

La distanza temporale fra questi due artefici non toglie la diversità di formazione e temperamento dei personaggi: Morris era pittore-poeta, Wedwood un imprenditore, seppur entrambi legati dal senso della ricerca e della sperimentazione. Entrambi sono citati nella storiografia del design come basilari pionieri, ma lo scarto nella concezione del rapporto arte-macchina li pone a guida di due linee parallele nella concezione delle arti applicate e non solo, due linee che alimentano l’animoso dibattito lungo tutto quel secolo e molto oltre, che ha teso a separare l’arte dalla tecnica, con esiti talvolta deleteri. Qui ritorna la differenza epocale, quel secolo che fa cogliere a Morris le degenerazioni insite in ogni progresso incontrollato. Il sogno medievele di Morris, vi agisce al suo tempo da ammortizzatore, come in fondo lo era stata la visione neoclassica, pur nell’impeto pre-romantico di “meravigliose invenzioni”.

E l’Italia? L’energia italiana dell’Ottocento è soprattutto impiegata nella “fabbrica” unitaria: D’altronde il ritardo tecnologico è almeno servito a perfezionarne l’innato senso artigianale; quanto alla tradizione classica, è intimamente metabolizzata. Il problema del progresso si pone fortemente nei termini di questa tradizione: tralasciando la corsa alla “novità” e puntando alla “trasmissione”, ad una corretta divulgazione, incentivata dalla crescente richiesta di maestranza artigianale e artisti decoratori e che l’imperante stile eclettico richiedeva ovunque sul mercato. Su tali presupposti si fonda la concezione delle Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria, da tempo al centro del dibattito europeo sull’importanza del tirocinio formativo dell’artigiano e il suo collegamento alle istituzioni artistico-accademiche, come già aveva sostenuto Gottfried Semper. In Italia fu interprete di tale esigenza Camillo Boito, tuonando sulla totale insensatezza culturale e economica di una tale separazione:

 

…tentano di distinguere le arti superiori dalle arti applicate alle industrie, o più brevemente industriali, col dire che le prime intendono al bello, le seconde all’utile. Non so veramente se le prime guardino sempre al bello, massime al dì d’oggi. Nego che le seconde mirino all’utile, perché all’utile mira l’industria; ma forse si vuol significare che intendono abbellire l’utile, il che nella maggior parte dei casi è vero. […] All’opposto la legge sulle scuole d’arte applicata alle industrie, presentata alla camera dei deputati […] torna a sanzionare il distacco assoluto fra le arti cosiddette superiori e le arti cosiddette decorative e industriali, fra i musei di queste e i musei di quelle […]. Non c’è altro che togliere questa (l’arte minore) al Ministero di Agricoltura e Industria e Commercio per darla alla Direzione Centrale di Antichità e Belle Arti. E la faccenda s’andrebbe allargando. Entrerebbero in campo le scuole d’arti e mestieri, […] forse le scuole del museo industriale di Torino […]. Eppure io non posso staccarmi dalla visione di una grande Direzione Generale di Antichità e Belle arti […] la quale riunisse insieme le cose che non si possono ragionevolmente scindere: musei e arti belle, musei e scuole di arte applicata alle industrie" (C. Boito, "Le scuole di architettura di belle arti e di arti industriali", Nuova Antologia, 1890, V27, 41-51).

7.2. Il Grand Tour

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“Non esiste sicuramente altro luogo al mondo in cui un uomo possa viaggiare con maggior piacere e beneficio dell’Italia. Ciascuno trova nel paese qualcosa di più particolare e più sorprendente nella natura di quanto possa essere trovato in qualsiasi altra parte d’Europa. È la grande scuola della musica e della pittura, e in essa vi sono tutte le più nobili opere di scultura e di architettura, sia antiche che moderne … Non v’è quasi luogo del paese che non sia famoso nella storia, né vi è un monte o un fiume che non sia stato la scena di qualche straordinaria battaglia” (Joseph Addison, 1745).

 

I viaggi di formazione sono sempre stata un’abitudine encomiabile e insostituibile per tutti i cultori delle arti, a partire dall’arte della vita. Il Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa continentale effettuato dai ricchi giovani dell’aristocrazia europea a partire dal XVII secolo e a definirlo così fu appunto Richard Lassels nella guida Voyage of Italy del 1670. Una pratica cresciuta proporzionalmente con l’evolversi della società civile e il diffondersi del benessere economico e destinato a divenire una vera e propria moda, con tempi, itinerari, canoni di abbigliamento e comportamento codificati nel tempo. Ma il Grand tour non ci interessa tanto per l’aspetto di promozione sociale, quanto per l’importanza che ha avuto nella circolazione delle arti, le antiche come le nuove, per il formarsi di un dibattito sia storico-filosofico che estetico ed hanno avuto un ruolo determinante nell’evoluzione degli stili e delle tecniche.

 

Senza scordare i romantici e solari paesaggi, così benefici alla salute del corpo prima ancora che dello spirito, la predilezione per l'Italia come meta ideale proveniva dalla vena classicista insita già nell’arte del Rinascimento, da Brunelleschi e Donatello fino a Palladio e oltre: lo studio delle rovine di Roma surrogava anche quelle più disagevoli della stessa Grecia. Primi gli stessi francesi, fondatori dal 1666 del fondamentale Prix de Rome, poi tedeschi e inglesi “ideatori” del Neoclassicimo come Winckelmann e Gavin Hamilton che dopo gli straordinari ritrovamenti di Pompei e Ercolano spostarono l’asse verso Napoli, finché l’Ottocento non rimise in gioco anche il “secolo buio” dando avvio alla grande stagione dei revival.

 

L’utilità di tale ricerca non si basava solo sul lato stilistico della forma, ma anche su quello tecnico e artigianale, che in una linea ininterrotta univa i saperi di Roma antica e le botteghe medievali, quelle rinascimentali a quelle contemporanee. Ma non fu solo una questione fra artisti, poiché a tutto questo si connetteva un mercato di scambio di oggetti e “commesse”: dalla moda dei ritratti, che i “turisti” affidavano ai pittori in relazione alle risorse, dal successivo affermarsi del mercato antiquario e la richiesta continua di manufatti artigianali per adornare le abitazioni in patria e in loco. Vere e proprie comunità si sono formate nelle varie città, interagendo in vario modo con la cultura locale, incidendo sul tenore economico quanto su quello estetico e sul paesaggio: basta pensare al ruolo di tali comunità a Firenze dal periodo romantico fino al XX secolo, a luoghi neomedievali come il museo Stibbert e il castello di Vincigliata, o quello del vicino borgo di Montegufoni che Sir George Sitwell nel 1922 arricchisce con la decorazione dell’(ex) futurista Gino Severini.

 

7.3. Arts and crafts Movement e Preraffaellismo

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L’Arts and Crafts Movement (movimento delle arti e dei mestieri) muove dal pensiero di Augustus Pugin che enfatizza lo stile gotico: unico ad accogliere i principi della cristianità e quindi di purezza e onestà. A tale assunto si collega John Ruskin, per cui il nuovo stile dovrà nascere sulle orme di quello medievale, caratterizzato dalla semplicità del lavoro dell'uomo e perciò idealmente contrapposto alla freddezza impersonale di quello industriale. E proprio di Ruskin fu allievo William Morris.

 

Il movimento Arts and Crafts ha la sua patria nell’Inghilterra dell’epoca vittoriana (1837-1901), ma il suo inserirsi così profondamente nel sentimento di trasformazione economico-sociale indotto dalla rivoluzione industriale, ha portato i suoi presupposti ad articolarsi in tutta Europa (e nella giovane America “colonia culturale” del Vecchio Continente), plasmandosi nelle storie artistiche e sociali dei vari paesi con differenze stilistiche e tempistiche spesso profonde, percepibili già nel nome con cui si identificano: Jugendstil in Germania, Art Nouveau in Francia e Belgio, Modernismo in Spagna, Secessione in Austria, Liberty in Italia, a cui si aggiungono forme intra-nazionali, come il Glasgow movement di Charles Rennie Mackintosh, o il “caso” Gaudì a Barcellona. Comune ad ognuno il desiderio di esprimersi creativamente in maniera “artigianale”, riscoprendo nel termine la positività di arte individuale di memoria medievale. I manufatti realizzati all’interno di tali movimenti sono infatti molto vari e riconoscibili fra loro, sottolineando la singola personalità degli artisti. Non dimentichiamo che nello stesso periodo, la seconda metà dell’ottocento, nel campo dell’abbigliamento si afferma la personalità dell’anglo-francesizzato Worth, prototipo dello stilista di moda, così come i vari Morris, Mackintosh, Horta e Hoffmann, senza far torto a tutti gli altri, sono da considerarsi i primi designer (anche gli artigiani della Wiener Werkstatte apponevano il proprio nome su gli oggetti da loro disegnati, proprio come faceva Worth). D’altra parte il concetto di “arte totale”, con l’idea di abbattere le barriere fra “arti nobili” e “arti applicate”, porta ogni progettista a cimentarsi in maniera trasversale rispetto ai “generi”: non sorprende quindi trovare un Gustav Klimt a disegnare, fra un ritratto e l’altro, gli abiti per la sua compagna Emilie Flöge o, ancora prima, il pittore-poeta italo-britannico Dante Gabriel Rossetti e Edward Burne-Jones a dipingere vetrate, arazzi e carte da parati per gli arredi “coordinati” della ditta di Morris, tutti e tre profondamente legati dalla Confraternita Preraffaellita, nata proprio in nome delle Corporazioni medievali e delle botteghe rinascimentali, che ebbero il loro “canto del cigno” appunto con l’arte di Raffaello. In realtà dietro un calderone pseudo storico che unisce Dante a Shakespeare, Beato Angelico a Michelangelo, si cela il sentimento romantico, teso fra spiritualismo e edonismo, speculazione e azione, ma comunque paladino della libera immaginazione: «L'immaginazione non è uno stato mentale: è l'esistenza umana stessa», sosteneva William Blake, artista “profetico” e visionario, che per comporre i suoi libri miniati inventò l'acquaforte a rilievo, divenuta in seguito un importante metodo di stampa commerciale.

 

Proprio il teso dialogo (quand’anche scontro) fra le istanze positiviste e ingegneristiche dell’industrializzazione e la poetica naturalista del creatore-artigiano, fu capace di generare una vitalità così profonda, nelle arti quanto nel progresso della società. Morris stesso fu tra i primi a lavorare con Karl Marx e Friedrich Engels per diffondere il movimento socialista in Inghilterra. Nemico della produzione in serie di stampo industriale, Morris utilizzava e sperimentava tecniche particolari: come per le sue stoffe, per cui usava tinte naturali e procedimenti scoperti su un libro del XVI secolo, o traeva ispirazione da erbari medievali per le carte da paratie i tessuti. Ciò non gli impedì di strutturare in modo produttivamente razionale l'azienda Morris, Marshall, Faulkner & Co, fondata nel 1861 proprio con Rossetti e Burne-Jones oltre a Madox Brown e Webb. L’azienda ha poi cambiato nome con l’avvicendarsi dei soci, ma i motivi qui creati rappresentano ancora un rinomato marchio, concesso su licenza alla Sanderson and Sons e a Liberty&Co., che dà il nome anche al movimento italiano, diventato uno dei più prestigiosi negozi di Londra.

7.4. Le Grandi Esposizioni Universali

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L’ottimismo dell’Ottocento, e la sua fede nella possibilità dell’industria, si riflettono nelle grandi esposizioni. L’industria avrebbe “unito la razza umana” –o press’a poco così sognava il Principe Consorte Alberto nel 1850. All’inizio del periodo della massima espansione industriale, sembrava non esistessero limiti a ciò che l’industria sarebbe stata in grado di realizzare” (Sigfried Giedion).

 

Il passaggio dalla produzione artigiana a quella industriale era ormai evidente e i tempi erano maturi per riunirne i risultati raggiunti nei vari paesi ed esporli al confronto; l’idea quindi di dare carattere internazionale alle esposizioni di prodotti dell’industria si impose.

Lo sviluppo dell’industria in tutti i suoi rami fu accelerato da queste esposizioni, nelle quali si trovava rappresentata ogni branca dell’attività umana: i macchinari, i procedimenti e i prodotti minerari, fabbriche e laboratori di utensileria, fattorie, tutto era in mostra, insieme con opere delle arti belle e applicate. […] realizzava la sintesi dei fini non ancora formulati dell’Ottocento. Essa preannunciava la trasformazione che stava per compiersi nell’uomo, come nell’industria, nei sentimenti dell’uomo come del suo ambiente” (Giedion).

Nel 1851, la Great Exhibition fa il suo exploit nella “dominante” Londra vittoriana: 25 paesi ospiti e 6 milioni di visitatori nell’ardito Crystal Palace, una sintesi di legno, ferro e vetro che aveva risvegliato nuove forme fantastiche: “… è una rivoluzione nell’architettura, da cui daterà un’epoca”, un’impressione di “tanta romantica bellezza.[…] Adopero un linguaggio contenuto e sobrio, se dichiaro lo spettacolo incomparabile, e degno del paese delle fate. È un sogno di una notte di mezza estate, visto alla chiara luce del mezzogiorno” (Lothar Bucher, citato in S. Giedion).

 

Tanta “romantica bellezza” racchiudeva luci e ombre, come risulta dal fervente dibattito sull’alienazione del lavoro meccanico e sulla separazione di lavoro manuale e lavoro intellettuale, testimoniato dalle posizioni della cerchia di Ruskin e Morris (volendo tenere per faro solo l’ambito estetico). Ma proprio perciò è importante segnalare personaggi come Sir Henry Cole, che oltre al ruolo primario svolto nell’esposizione londinese, ha fortemente operato in funzione della collaborazione fra le arti e l’industria, promuovendo interventi didattici anche per elevare il livello del gusto popolare (come gli Arts Manufacturers nel 1847), lo studio e la catalogazione delle arti decorative con l’istituzione del primo museo tematico (l’insuperato Victoria and Albert Museum).

In tempi più maturi si ricomporranno (anche se parzialmente) le due visioni del problema arte-macchina, come nel Deutscher Werkbund creato nel 1907 a Monaco di Baviera.

Il Crystal Palace fu distrutto in un incendio nel 1936. Winston Churchill lo commentò con acutezza come un fatto emblematico, la fine di un'epoca. Di queste grandi opere di ferro e vetro dove non si avverte il peso della superficie trasparente ma “aria e luce; cioè un elemento di fluidità imponderabile” (Boileau), come anche le Galeries des Machines, che hanno accolto le successive esposizioni parigine (dal 1855 al 1889) non rimane traccia fisica. La Tour Eiffel (dal suo geniale costruttore) del 1889, ne è unica superstite, èd è diventata simbolo di una città, di una Nazione, dove turisti stupiti vi si accalcano da tutto il mondo. A salvarla, nel 1909, dalla sprezzante élite artistica della città è stata l’utilità per le antenne di trasmissione della radiotelegrafia, la nuova scienza; è tanto più significativo che nell’esposizione universale di Parigi del 1900, nonostante tante nuove costruzioni, la nuova “meraviglia” fu il cinematografo dei Lumière, non a caso definita poi “la settima Arte”: ma siamo già nel nuovo secolo e l’era meccanica, iniziata dall’invenzione capitale della stampa di Gutenberg, dovrà fare i conti con quella dell’inafferrabile magnetismo e della luce.

Per chiudere il capitolo sul dibattito ottocentesco sulla separazione fra il bello e l’utile che ruota intorno alle Esposizioni Universali ottocentesche, oggi rappresentato dall’”inutile” Tour Effel, possiamo ricordare ancora le parole di Ruskin:

 

«Il mondo non può diventare tutto un'officina… come si andrà imparando l'arte della vita, si troverà alla fine che tutte le cose belle sono anche necessarie».

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Sigfried Giedion Mechanization takes Command. A Contribution to Anonymous History, Oxford 1948 (trad. it. L'era della meccanizzazione, Milano 1967)
  • Luca Massidda, Atlante delle grandi esposizioni universali. Storia e geografia del medium espositivo, Franco Angeli editore.

 

8. Il PRIMO '900: la riforma dell’abbigliamento e il caso Fortuny

Moda e design

Figli delle utopie socialiste ottocentesche, i movimenti di stampo neo-medievalista come l’Arts and Crafts Movement di William Morris, seppure commercialmente perdenti perché elitari, segnalano un’emergenza sociale e culturale di portata rivoluzionaria (irripetuta fino ai nostri anni '60), che hanno inciso profondamente nell’evoluzione del “costume sociale”. Pur con le dovute differenze ideologiche e operative, si possono citare svariati movimenti di segno libertario che unirono il vecchio e il “nuovo mondo”: le suffragette e la danza libera, le comunità ideali, (dal falansterio di Fourier al Monte Verità di Ascona), il movimento naturista e salutista, l’abbigliamento riformato (rational dress reform), la rivoluzione teatrale di Appia e Craig, la Wiener Werkstatte fino alla Bauhaus di Weimar. Un clima di liberazione generale, ben rappresentato dalle linee fitomorfe, fluide e verticaleggianti del Liberty, verso il raggiungimento dell’“armonia universale”, o perlomeno di quella “bellezza universale” di cui fu cantore Gabriele d’Annunzio. E non sembri un caso che un grande poeta sia stato uno dei maggiori artefici della “costruzione dell’immagine” in senso moderno e un paladino del “marchio di fabbrica” progenitore del moderno brand. E una “fabbrica” mirabile fu infatti quella congegnata dall’amico e compagno di ricerche estetiche “applicate” Mariano Fortuny y Madrazo.

 

L’arte cresce in uno strano flusso di scambi fra cultura e commercio, in perpetuo moto di dare-avere: ed è di questo crogiolo che la moda si sazia. In quale ambito collocare una figura come Fortuny? Nato nel 1871 all’ombra dell’Alhambra di Granada, capolavoro del rinascimento ispano-islamico, svezzato nella evoluta Parigi, praticamente veneziano dal 1889. Pittore, scenografo, stilista, inventore di tecniche applicate alla creazione: brevetta l’omonima cupola (1904) adottata da Appia e innova l’illuminotecnica teatrale; per l’arredo mette a punto le lampade in seta decorata, ancora in commercio; sperimenta sistemi di stampa su tessuto e il suo originale plissè su seta con cui confeziona i famosi pepli di ispirazione classica, brevettati anch’essi, nel 1909. I suoi modelli, i Delphos tanto amati da Isadora Duncan come da Peggy Guggenheim, le tuniche, i bornous, i kaftan in seta o velluto stampati a grandi motivi rinascimentali e orientaleggianti presenti anche nel guardaroba della Duse, ispirati alle linee essenziali delle etnie arabe e orientali, come i kimono, si nutrirono della corrente liberatoria del corpo che rifiuta il giogo del busto e dei lacci e cerca la fluidità e l’ariosità del movimento fra stile Liberty e Riforma. Certo i clienti del laboratorio Fortuny erano la crema economico-intellettuale del tempo, trainati dal gusto delle dive internazionali, ma allora era questa élite che vestiva i cambiamenti più radicali e indirizzava il futuro, in attesa che il mercato divenisse così ampio da suggerire ai più grandi stilisti di prendere ispirazione “dalla strada”. Ma per questo dovremo aspettare l’ultimo quarto del secolo.

8.1. La riforma dell'abbigliamento fra XIX e XX secolo

Moda e design

"La natura nobile che è nella donna la spinge a desiderare una cosa soltanto: affermarsi accanto all'uomo forte e grande. Questo oggi è possibile solo se la donna conquista l'amore dell'uomo. Ma noi andiamo incontro ad un'epoca nuova, migliore. Non sarà più il richiamo alla sensualità, ma l'indipendenza economica della donna che determinerà la parità con l'uomo. Il valore di una donna non dipenderà più dalle trasformazioni della sensualità. Assisteremo perciò alla definitiva sconfitta dei velluti e delle sete, dei fiori e dei nastri, delle piume e dei colori. Scompariranno" (Adolf Loos, 21 agosto 1898).

 

L’eclettismo formale che domina le arti della seconda metà dell'800 si riflette anche nella moda che, pur non portando cambiamenti strutturali, si modella inquieta variando sulle proporzioni, che ingessano ora le braccia, ora il collo, ora il busto …, come se l’eleganza dovesse essere antitetica alla comodità. Molte voci si levavano allora a evocare una profonda riforma dell'abbigliamento: di uno “stile di vita” oltre che “stile di moda”, visto il numero di “movimenti” e “comunità” sorti contro la deformazione sociale operata dalla nuova fase di industrializzazione, che da una parte ha asservito, dall’altra ha allargato la possibilità di crescita sociale e culturale a una fascia più ampia, a cominciare dalle donne. Le voci dei primi i movimenti per l'emancipazione femminile si uniscono a medici e scienziati (come il biologo tedesco Gustav Jäger, soprannominato Wool-Jager, inventore della maglia di lana “della salute”) per richiedere un abbigliamento più pratico e funzionale. Il progresso della scienza medica ha portato l’attenzione sulla salute, sull’ambiente, sulle norme igieniche, spostando l’attenzione sulla biancheria per denunciare crinoline, busti e corsetti, che comprimevano il corpo in modo innaturale. La nuova cultura del corpo e del tempo libero incentivava le attività sportive, promuovendo la moda per lo sport che avrebbe generato una fiorente industria e un attento studio sui materiali: basti pensare allo sviluppo della maglieria e della maglia-stoffa, il jersey, che dai pescatori dell’isola omonima divenne “moda” con Coco Chanel.

 

Forti erano anche le componenti moraliste di stampo borghese o religioso, predicanti la sobrietà, la funzionalità, i valori del lavoro e dell’operosità, soprattutto negli Stati Uniti, paese meno legato a canoni aristocratici, nato sulle volontà individuali o su ferree comunità protestanti dove le donne erano le principali educatrici della “nuova civiltà”: come Amelia Bloomer, fondatrice di "The Lily" (prima rivista nata per le donne e ispirata ai principi di temperanza), che nel 1851 promosse un costume più razionale, secondo la sua ideatrice Libby Miller: pantaloni larghi sono riuniti alle caviglie, come certi pantaloni delle donne mediorientali, sormontato da un abito corto o gonna e gilet. Le cosiddette Bloomers coraggiosamente sfidarono per alcuni anni lo scherno della stampa e le molestie in strada: in ballo non era la decenza (l’abito era fin troppo pudico), ma la sconvenienza di indossare un indumento maschile. Così nel 1959 anche Amelia capitolò alla crinolina e l’idea decadde fino al 1881, quando The Rational Dress Society, fondata in Inghilterra da Lady Harberton, propose l'uso di gonne-pantalone per le attività sportive e per andare in bicicletta, mezzo amatissimo per la sua praticità e accessibilità anche alle donne, che costituirono il Lady Cyclists' Association; ma il debito maggiore del Bloomer si vedrà nei costumi da bagno, che da questo momento, grazie alla voga dell’idroterapia, si diffonderà rapidamente.

La crociata contro il corsetto come quella di Ada Baillie della National Health Society, era benvista anche dalla cultura borghese più conservatrice poiché, come sosteneva il medico Alice Bunker Stockham, l’angustia del busto poteva pregiudicare la maternità, ritenuta "il solo status possibile di un'esistenza femminile".

8.2. Stile dannunziano e Roma umbertina

Moda e design

Io sono un animale di lusso”, e quel lusso schiarisce il cervello e accende la fantasia: “Io ho, per temperamento, per istinto, il bisogno del superfluo. L’educazione del mio spirito mi trascina irresistibilmente verso l’acquisto delle cose belle. Io avrei potuto vivere in una casa modesta, sedere su seggiole di Vienna, mangiare in piatti comuni […], soffiarmi il naso in fazzoletti di Schostal o di Longoni. Invece, fatalmente, ho voluto divani, stoffe preziose, tappeti di Persia, piatti giapponesi, bronzi, avorii, ninnoli, tutte quelle cose inutili e belle che io amo con una passione profonda e rovinosa …” (d’Annunzio)

 

Poeta, romanziere, drammaturgo, politico, eroe, pubblicista e pubblicitario, “decoratore”. Si dice che incarnò lo spirito di un’epoca, ed è senz’altro vero che personificò l’assunto per il quale non c’è vera cultura e vero progresso se non attraverso la circolazione delle idee, idee che si nutrono del riconoscimento di una forte identità: per questo d’Annunzio è stato allo stesso tempo il più nazionalista e il più internazionale rappresentante della cultura italiana del tempo. Non è superfluo aggiungere che fu anche uno strenuo sostenitore delle “arti (tutt’altro che) minori”, tanto che attraverso il suo guardaroba e l’arredo delle sue dimore, nonché i doni alle molteplici amanti, si può tracciare una mappa delle eccellenze manifatturiere del tempo: molte francesi e anche inglesi, moltissime italiane. In ogni foto in cui appare la sua immagine (e sono davvero tante) si mostra sempre inappuntabile, nell’abito e nel gesto, soprattutto nei ritratti fotografici del geniale amico Nunes Vais… Molti dei coetanei, come dei posteri, lo considerano il massimo rappresentante del Dandy all’italiana, dello stile, appunto dannunziano. Certo, la ricerca estenuante di una bellezza assoluta che si perpetuasse in ogni recondito aspetto dell’arte, ossia della vita, era palese in ogni sua opera. Neanche la disposizione alla teatralità gli faceva difetto: i suoi romanzi, oltre ad essere una continua dichiarazione d’estetica, ci lasciano dei ritratti d’ambiente e di personaggi che superano per afflato ogni descrizione realistica, trasfigurandola nell’immagine di un’esperienza eccezionale. Lo fa con la consapevolezza di “catturare” il pubblico, in quel fluire fra riserbo e sensualità, ancora repressa sotto l’abito umbertino, sospesa fra il pudore medievale della donna Preraffaellita e i sinuosi nudi di Giulio Aristide Sartorio:

 

Il mantello foderato d’una pelliccia nivea come la piuma de’ cigni, non più retto dal fermaglio, le si abbandonava intorno al busto lasciando scoperte le spalle. Le spalle emergevano pallide come l’avorio polito, divise da un solco morbido, con le scapule che nel perdersi dentro i merletti del busto avevano non so qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali” (G. d’Annunzio, Il Piacere, 1889)

 

All’arrivo di d’Annunzio, nel 1881, Roma è da poco divenuta capitale d’Italia. Attraverso la collaborazione con «Cronaca Bizantina» prima e poi con la «Tribuna», il Duca Minimo (come ama firmarvi le sue Cronache Mondane) può penetrare a fondo quella società aristocratica e alto-borghese presa dall’ansia di apparire, “controllandone” gli umori e partecipando all’ affermazione dello stile umbertino. Vestiti i panni dell’arbitro di tutte le eleganze, suggerisce decor e menu, sport e passatempi, tessuti e fogge, divertendosi talvolta a criticarne le deformazioni:

 

Ogni anno più aiutate in questo dalla moda, le spalle delle signore si vanno rialzando e acuminando a discapito della bellezza e della nobiltà loro. Le spalle salgono, salgono salgono, come un titolo immobiliare qualunque. Ma a quando il crac?” (Spalle delle signore, in “Tribuna”, novembre 1886).



 

8.2.1. Lo stile umbertino

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Dal 1871, dopo la breve parentesi di Firenze capitale, Roma ebbe il compito di rappresentare nel mondo l’Italia Unita e lo fece con la sua congeniale maestosità, più nella quantità che nel genio antico; si ritrovò perciò a gestire un’emergenza di crescita sociale e culturale per assicurarsi la supremazia e, come diciamo oggi, la visibilità di una grande e moderna città, capace di influenzare le forme e gli stili. Se è evidente che fino ad allora erano gli ambienti di corte a dettare gli stili, lo è ancor più in quell’epoca di espansione colonialista. In Francia trionfava il Secondo Impero, lo stile Vittoriano in Inghilterra era all’apogeo e anche il guglielmino in Germania aveva la sua “cifra”. L’Italia ebbe il suo stile umbertino, che coincise con il regno di Umberto I di Savoia, Re d’Italia dal 1878 al 1900, anno del suo assassinio. Coerentemente alla situazione di ritardo nello sviluppo industriale e tecnologico (nonché sociale), nell’assillo di dar vita a uno stile “nazionale”, l’umbertino si distingue per un'interpretazione particolare dell'eclettismo, individuato in un neorinascimento accademico e convenzionale, con qualche incursione nelle neobarocco imperante oltralpe: tendenza evidente soprattutto in architettura, che influirà anche nell’adozione nostrana del “ciclone” Liberty, nome preso in prestito dal mercante inglese delle Arts and Crafts (che aveva punti vendita in Italia di gran successo) e passato così in fretta da non fare a tempo a tradursi in stile “floreale”. Il moderno stile, identificativo della Belle Epoque, si fa ancor meno sentire nella grevità governativa di Roma, rispetto a città più dinamiche e industriose come Milano e Torino o nella Palermo di una borghesia imprenditoriale alla ricerca ricchezza e prestigio, come la famiglia Florio, che ne fecerouna città essenzialmente liberty, quasi una piccola capitale dell'art-nouveau" (Leonardo Sciascia).

 

Anche l’arredo ebbe la sua traduzione umbertina, con l'opulenza ornamentale e la pregnanza simbolica della stagione manierista che privilegia la decorazione ad intaglio, spesso ad altorilievo, con vere e proprie sculture a tutto tondo, spesso inglobate nella struttura stessa del mobile: motivi zoomorfi ed antropomorfi, mascheroni, ghirlande di fiori, stemmi, borchie e festoni, fusi in un unicum monumentale quasi a forzare il gusto dell'epoca, come nei “pezzi” di Mariano Coppedè (padre di quel Gino dell’omonimo quartiere romano, massimo sforzo del Liberty romano).

Similmente, la moda del periodo umbertino, senza il coraggio di slanci risolutivi, si destreggia inquieta su variazioni a tema: maniche, collo, cappelli, drappeggi scultorei e decorazioni di nastri, rouches, trine, ricami e lustrini, con sottili distinzioni a seconda delle occasioni. Il tessuto deve “aiutare” la composizione, quindi essere corposo e malleabile insieme: velluto, broccato e il raso … stoffe sontuose ideali per lo sfoggio di ricchezza di aristocrazia e alta borghesia, ispirate all’eleganza della Regina Margherita, donna fiera e raffinata che godeva di un discreto seguito “modaiolo”.

 

La sola costante della linea in questi anni è la posizione naturale del punto-vita, sempre assottigliato dal busto steccato a creare il cosiddetto “vitino di vespa”. All’inizio del periodo la figura femminile si assottiglia in uno slanciato schema tubolare, poi ritorna alla linea sinuosa che accentua le curve del seno e dei fianchi, in contrasto con la vita sempre più sottile. Nell’ultimo decennio il ritorno alla verticalità renderà inevitabili le diete dimagranti. Dopo il 1890 lo stile Liberty si annuncia negli svolazzi delle mantelline e degli orli.

Intanto, per influsso della riforma in atto, si avverte la tendenza alla semplicità, di cui è emblematico il vestito tailleur o alla mascolina.

Nell’abbigliamento maschile ancora non si assiste a grandi cambiamenti, a parte nel settore sportivo, come richiesto dalla grande espansione dell’attività fisica con la nascita di tanti nuovi sport.

Questo è un periodo importante per l’Italia, pur nelle contraddizioni del suo ibridismo, come altrove d'altronde. Nonostante le ritrosie delle classi aristocratiche e borghesi più conservatrici, la febbre del rinnovamento e il progresso tecnico e scientifico saranno di grande stimolo per una classe imprenditoriale orgogliosa e operosa: molte delle future industrie e manifatture che hanno fatto la storia della ripresa economica del secondo dopoguerra sono nate da qui.

Sono passati trent’anni dalla Great Exhibition londinese, ma finalmente re Umberto I può inaugurare l'Esposizione Industriale di Milano, che riscuote un enorme successo. Siamo nel 1881 e l’ormai celeberrimo teatro La Scala celebra l’evento con il Gran Ballo Excelsior, un osanna al progresso e al trionfo della "luce" ovviamente elettrica.



 

8.3. Gabriele d’Annunzio, il Poeta del Brand

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“È indubbio che a cominciare dal Piacere […] d’Annunzio va allestendo invitanti vetrine”, con queste parole Annamaria Andreoli, fra i massimi conoscitori dannunziani, ne sottolinea la capacità di costruttore d’immagine dalla scaltrezza di un sociologo “attrezzato”: “Davanti ai suoi occhi”, continua, “sfila l’esordiente – da noi – società dei consumi, con tutto ciò che comporta di edonismo e di effimero. La folla comincia a gremire la città il cui volto va colorandosi di lucide reclame e dove la moda, al pari delle epidemie è determinata da un contagio intorno al quale d’Annunzio s’interroga. L’industria e le regole del mercato non lo atterriscono […]. La piazza è lì che attende. Fra il prodotto e il fruitore non si colloca intanto, decisivo, il potere della parola, capace di caricare di fascino ciò che bisogna vendere?”. Chi meglio di lui può trovare parole per diffondere quel suo vivere inimitabile? “Il dannunzianesimo ha le radici proprio nell’acuta e precoce diagnosi che d’Annunzio sa formulare intorno alla realtà in cui vive, dominata dall’implacabile legge della domanda e dell’offerta”: i bisogni non vanno solo compresi, dobbiamo anche imparare a sollecitarli e a saper trasformare i consumatori in “amatori”.

 

Amatore” lui lo era senz’altro, e per gli abiti e i relativi accessori aveva una passione speciale e non di rado la sua creatività si applicava volentieri ad attività decorative, come dimostrato dagli arredi delle sue dimore che curava amorevolmente pezzo per pezzo: dagli artistici ferri battuti di Mazzuccotelli, ai vetri di Murano dai Barovier a Alessandro Martinuzzi, anche i “falsi” statuari erano siglati dalla premiata Manifattura di Signa e poi … tavole apparecchiate Richard-Ginori, tappezzerie e tessuti a profusione, vero monumento ai vari Ferrari, Lisio … solo per limitarci all’alto artigianato autoctono.

 

Fra le sartorie italiane spiccano la ditta Prandoni con gli abiti di Giovanni Battista Rosti, la sartoria Cellerini di Firenze, il milanese Mario Pozzi, i gioielli di Buccellati, le calzature di Mantelatici & Volpi .… Un pezzo di storia del Made in Italy racchiusa nelle stanze, come negli armadi del Vittoriale. E nel garage ,un autentico status symbol: un'Isotta Fraschini, automobile per eccellenza.

Dappertutto spiccava il “marchio di fabbrica”, la sua griffe: dai fazzoletti di seta écru ricamati “G.d’A”, ai bottoni personalizzati e, ovviamente, allo strumento di lavoro del “grafomane”, la pregiata carta a mano di Fabriano, fabbricata appositamente e marchiata “con il motto del momento. Delle sue opere di Stilista - teatro, come delle illustrazioni per i suoi libri, curava personalmente ogni dettaglio. Regia, scenografia, costumi: i suoi pur geniali collaboratori, da Michetti a De Carolis, da Fortuny a Cambellotti, erano inondati da messaggi con richieste puntuali, spesso corredate da “schizzi” altrettanto eloquenti. Da stilista si dilettò a ideare abiti per le sue compagne, e non poteva certo rinunciare a un profumo a sua immagine, l’Acqua Nunzia, appunto, un equilibrio di aromi fioriti e spezie orientali dalle testate qualità afrodisiache, che forse sarebbe piaciuta più adesso di allora.

Ma l’elemento che non dovrà mai mancare al Dandy divenuto promoter, è la firma d’autore. Già un semplice tessuto, pur prestigioso, scelto di sua mano per esser donato a un’amante o a un amico, richiedeva un riconoscimento che lo nobilitasse: Gabriel Nuncius Vestiarius Fecit.

8.4. Laboratorio Fortuny

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L’interesse di Mariano Fortuny per la moda può essere inserito in quel filone dell’”abito d’arte” che dal 1860 aveva attratto l’interesse degli artisti ed era diventato popolare nei circoli intellettuali, amanti delle pure forme naturali, dei materiali di qualità, del rispetto per le lavorazioni artigianali, ma anche rafforzato da ideali sociali che si legano alla riforma dell’abbigliamento. Primi fra tutti la Confraternita preraffaellita, con la rivalutazione delle arti medievali e una visione della donna ispirata all’”amor cortese”, tradotto dalla sensualità estetizzante della cultura vittoriana, che allungherà la sua influenza in tutto il decadentismo europeo, fino a d’Annunzio.

 

"Ella era avvolta in una di quelle lunghissime sciarpe di garza orientale che il tintore alchimista Mariano Fortuny immerge nelle conce misteriose dei suoi vagelli rimosse col pilo di legno ora da un silfo ora da uno gnomo e le ritrae tinte di strani sogni e poi vi stampa co’ suoi mille bussetti nuove generazioni di astri, di piante di animali. Certo alla sciarpa d’Isabella Inghirami egli aveva dato l’impiumo con un pò di roseo rapito dal suo silfo a una luna nascente" (Gabriele d’Annunzio, Forse che sì forse che no, 1910)

 

Queste poche righe condensano alla perfezione tutta l’essenza dell’arte e del “metodo” di Fortuny, un metodo che d’Annunzio conosceva bene, essendogli amico dall’arrivo a Venezia. Li accomunava l’amore per il teatro a partire da Wagner; e furono compagni di tanti esperimenti e progetti, sulla scena, sui costumi e soprattutto sulla luce: quel mirabile elemento antico come il mondo, da cui è nata la vita, ora è anch’esso un soggetto riproducibile e dagli infiniti utilizzi. Come un’ossessione le varie arti, non meno della scienza, hanno cercato di indirizzarla: così il curioso Mariano da pittore ne declina il colore, come ci dice il poeta, o la cattura con la sua Kodak (più di 10.000 lastre fotografiche su vetro esistenti); da scenografo sperimenta l’illuminazione in teatro; da costumista e creatore di abiti la lascia vibrare in mille piegoline o nei riflessi oro e argento della stampa su tessuto. Dopo il suo progetto del 1901 (non realizzato) per una Francesca da Rimini, disegnerà ancora per la Duse i costumi della Donna del mare (1904), mentre l’attrice acquisterà i suoi pepli da Babani, importatore di merce orientale e distributore esclusivo di Fortuny a Parigi.

L’attitudine teatrale insita nelle sue opere attirò anche il mondo della danza: è noto che Ruth Saint-Denis e Isadora Duncan utilizzarono le sue tuniche, ma è ipotizzabile anche una relazione con Loïe Fuller, le cui “danze di luce” avevano il loro punto di forza proprio nell’effetto “luministico” dei tessuti.

 

Ma ciò che ha più influito sulla moda è quel modo di trattare i tessuti che, come ci indicano le parole di d’Annunzio, univa l’antica civiltà e la nuova: le stampe serigrafiche alla gelatina, con ricorrenti motivi in oro ispirati ai disegni medievali e orientali, hanno orientato il lavoro di Maria Monaci Gallenga; la tecnica del plissé, detto appunto Fortuny, che si ispirava alle koré della classicità, brevettata nel 1909 insieme al suo “capolavoro couture”, il Delphos (lunga tunica cilindrica, essenziale, con maniche corte e stretta in vita da una cordicella, ispirato all’antica Grecia), è stata poi utilizzata da uno dei più geniali creatori di moda italiani, Roberto Capucci, che ne ha esplorato le possibilità nei suoi abiti-scultura, ancor prima che lo stilista giapponese Issey Miyake esordisse con la collezione “Pleats Please” (1993).

9. L’Italia s’è desta: fra Autarchia e nuove prospettive

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La ferrea volontà di “Italianizzare” la moda percorre strade diverse ma complementari.

 

1) La linea dell’autarchia, già avviata nel 1848 alla vigilia dell’Unità d’Italia con il vestito nazionale confezionato in velluto (unico tessuto di genuina provenienza italica), era il criterio sostenuto dall’iter istituzionale con la fondazione di enti ad hoc, dalla Società italiana per l’emancipazione delle mode, nel 1872, fino all’Ente nazionale della Moda fondato nel 1932 dal regime fascista con il compito di certificare e difendere l’“italianità” della produzione nazionale.

 

2) La linea “delle donne” era portata avanti dalle riviste a partire dal “Corriere delle Dame” di Carolina Lattanzi, poi da «Margherita», «La nostra Rivista», «Lidel», dirette da donne sensibili ai fermenti in corso come la liberazione del corpo delle donne. Di base restava la volontà al recupero del patrimonio culturale, come Rosa Genoni, lodata anche dai sarti parigini, che ricercava l’ideale artistico rinascimentale, come nel famoso abito la Primavera del 1906, dove alla preziosità di ricami e finiture in onore alla tradizione locale, si legava la ricerca di una linea semplice e fluida e della comodità nei movimenti; qualità già suggerite dall’opera di Botticelli, icona di molta intelligentia coeva, che ispirò le “danze libere” della Duncan, emblema di donna emancipata, libera di muoversi nella società.

Dopo decenni di battaglie le donne ottenevano maggior credito anche nel lavoro, rivelando creatività unita a doti imprenditoriali, pure di fronte al dramma del primo conflitto mondiale. Dopo la guerra anche gli equilibri della Moda furono stravolti, inabissando imperi come quelli di Paul Poiret, tanto rivoluzionario nelle linee e nel marketing, quanto ancorato al leggiadro lusso mondano della società belle époque che ancora occhieggiava dai manifesti pubblicitari. Ormai ritenuto fuori moda dovette cedere il passo alla genialità di due donne dagli stili contrapposti: l’eleganza “restauratrice” di Jeanne Lanvin, dai virtuosismi sartoriali e i complessi ricami e la classe essenziale di Gabrielle Chanel, che traducendo la sobrietà dell’abbigliamento maschile e la funzionalità di quello sportivo (semplicità nel taglio, linearità delle fogge e praticità dei materiali come il jersey), creava un nuovo ideale di eleganza e di femminilità. Ideale riassunto negli intramontabili tailleurs e nel petit noir del 1926.

 

3) L’esaltazione delle qualità manifatturiere (interpretazione più che creazione)

Tornando all’Italia, nel 1911 l’Esposizione universale dedicata a “industria e lavoro”, incoronava Torino capitale italiana della moda: per le numerose sartorie e modisterie attive in città, più che per la genuina autonomia creativa. Si intensificò la ricerca sui tessuti (come Maria Gallenga che realizzò stoffe e colori inediti) e sui modelli, per plasmarli più «italici» con il sostegno dell’Ente nazionale per l’artigianato e la piccola industria.

L’unico lampo di originalità venne dal movimento futurista. Nel Manifesto del Vestito Antineutrale (1914) Giacomo Balla promuove l’abito «dinamico, aggressivo, urtante, volitivo, violento, volante, agilizzante, gioioso, illuminante, fosforescente, semplice e comodo, di breve durata, igienico, variabile». Del 1920 il Manifesto della moda femminile futurista, ancora a favore di asimmetria e stravaganza e nel 1933 perfino il Manifesto futurista sulla cravatta italiana.

 

Ma ciò non inciderà sulla visione del regime di Mussolini: strumento di consenso politico, la moda del Ventennio usò anche le congenite formosità delle italiane come simbolo del patrio benessere, opponendolo alla longilinea esilità del modello di femminilità francese. In questi anni la moda italiana riuscì a esprimere originalità solo nell’esaltazione delle tradizioni folkloristiche e delle lavorazioni artigianali come ricami, pizzi, merletti, perline di vetro veneziano che donarono agli abiti femminili un inconfondibile tocco di italianità.

 

9.1. La produzione nazionale alla prova dell’industrial design

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 “Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschee dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia…” (F.T.Marinetti, Manifesto futurista, 11 febbraio 1909).

 

Il movimento di massima rottura “globale” con il mondo ottocentesco, si annuncia con parole che di fatto contengono tutto l’humus della cultura che ha nutrito il periodo detto Liberty: un moderno cuore tecnologico, “elettrico”, che anima con linguaggio simbolico figurazioni cosmologiche di sapore “orientalista”. Sembra di vederlo, il padre dell’avanguardia italiana (e non solo), seduto sulla sua sedia firmata Bugatti, a redigere uno dei proclami più antiaccademici della storia. L’”atavica accidia” ci ricorda il ritardo italiano nel rinnovamento formale del Modernismo, specie nelle cosiddette “arti industriali”, non del tutto imputabile all’arretratezza dell’industria, che in città come Milano e Torino, ad esempio, godeva di un’assestata tradizione. Si può concordare con Fabio Benzi, che l’ostacolo è rintracciabile in “uno strato sociale assai cospicuo di artigiani che proseguivano un magistero creativo e tecnico di portata impareggiabile rispetto a quello di altri stati europei, che trovava una continuità fin dal Rinascimento e con prodotti di qualità tecnica eccellente. A questo larghissimo strato sociale, di cultura eminentemente tradizionale (i cui echi sono ancora oggi vivi in molte città italiane) e non intellettuale-cosmopolita, facevano riscontro una borghesia e una nobiltà altrettanto poco dinamiche, frenate nell’innovazione del gusto dal peso delle proprie stesse tradizioni. I manufatti d’arte industriale, pur attivamente presenti,si limitavano così all’imitazione pedissequa degli stili passati, come rivelano le molte esposizioni di settore organizzate nei primi decenni del Regno Unito. Nonostante il sostegno ufficiale di una politica volta alla diffusione e all’istruzione (con la creazione delle Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria e la fondazione di Musei di arte industriale a Torino, Roma, Napoli e Firenze), a rompere il muro di provincialismo furono pittori e scultori, attivando scambi con il resto d’Europa, soprattutto con Parigi, dove erano già di casa De Nittis, Boldini e Medardo Rosso, d’Annunzio e Marinetti, Fortuny e Carlo Bugatti, che fu originariamente pittore, ma già dal suo clamoroso esordio nel design del mobile, all’Italian Exhibition di Londra del 1888 propose un lessico altamente innovativo e sofisticato, sostanzialmente Liberty: asimmetrico, innervato di linee curve e sciabolate, da diagonali dinamiche, a cui miscelerà suggestioni dell’Oriente: arabeggianti e giapponesi, cinesi e indiane. Similmente realizzerà i mobili di casa Segantini, decorati con racemi giapponeggianti dallo stesso pittore, “quasi cognato” del Bugatti. Ma, a conferma dell’assunto precedente, al grande successo goduto in Europa da questi straordinari “pezzi” di design, farà riscontro l’oblio in patria.

 

Non si può negare che sulla linea, ora fiorita ora esotica, dell’arte Liberty alitino i venti d’oltralpe, come nella linea più geometrizzante affiora l’accento tedesco (leggi Jugendstil e Wiener Werkstatte), ma una vera specificità italiana appare la capacità di recuperare anche l’osservazione del Rinascimento come matrice dello “stil nuovo”, specialmente nelle sue originarie culle: Roma e Firenze saranno i luoghi privilegiati per l’elaborazione di questo innesto, di cui d’Annunzio appare centro ideale: Sartorio, Cellini e soprattutto De Carolis, illustravano le sue opere cercando una modernità che unisse echi di Michelangelo e Leonardo, Botticelli, Mantegna e i “tipi” di Aldo Manuzio con risonanze di Klinger e Burne-Jones. Far rivivere insomma “i mirabili ritmi del Rinascimento: non come esercizio accademico, ma come sublime gioco intellettuale” (Benzi). E mentre a Firenze il richiamo rinascimentale vedrà gli esordi Galileo Chini, soprattutto con le decorazioni parietali, a Roma vi si assoceranno le citazioni in gotico-fiabesco di Gino Coppedè per l’omonimo quartiere residenziale.

9.1.1. Il Mobile Liberty

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Dalla indiscussa genialità di Carlo Bugatti discende una generazione di ebanisti milanesi. Alla data del successo londinese di Bugatti, nel 1888, Eugenio Quarti apre la sua piccola officina, dopo un apprendistato in Francia e accanto al “maestro”: periodo breve, ma che lascia un influsso fino all’Esposizione Nazionale di Torino del 1898. Proveniente da una famiglia artigiana di stipettai, Quarti è un esperto ebanista che usa legni pregiati, cura i particolari bronzei e gli intarsi in madreperla e fili di bronzo, che saranno man mano più evidenti e discosti dall’orientalismo bugattiano, verso l’approdo ad uno stile personale, un Liberty italiano prezioso e inconfondibile, tanto che Vittorio Pica gli dedicherà un articolo illustrato sulla rivista Emporium dell’ottobre 1899.

 

A differenza dell’irrequieto spirito “artistico” di Bugatti, che vende i suoi modelli come fossero brevetti (per tutelarsi dalle copie) e, nonostante i tentativi, resta circoscritto ad un mercato artistico-artigianale d’élite, Quarti pur restando legato all’amore per il mestiere, per i materiali e per la perfetta esecuzione, diventa un grande industriale, specializzandosi in grandi commesse di arredi completi. Lo stesso avviene per Carlo Zen e il figlio Pietro che, con un riuscito processo di industrializzazione della loro Fabbrica Italiana Mobili, riescono a fornire produzioni nel nuovo stile modernista, intarsiate e dipinte, diversificate sia per i costi che per gli stili, pur all’interno di modulazioni floreali.

 

Sono molti i pittori e gli scultori che in questo periodo diventano artisti-artigiani e ebanisti-industriali, dando spazio alla pittura e alla decorazione cromatica nelle opere di ebanisteria, come Giacomo Cometti e Alberto Issel.

Quella formata da Ernesto Basile e Vittorio Ducrot è forse l’esperienza più originale nella rivendicazione di “latinità” del nuovo stile. I mobili creati dall’artefice di Villa Igiea per la ditta Ducrot sono vari e duttili, legati alla sua architettura, ma altresì pensati per la produzione in serie, tanto da annoverarlo come il primo industrial designer italiano all’altezza di quelli attivi in situazioni nazionali più avanzate industrialmente. Dalle committenze palermitane dei Florio agli arredi per la Biennale del 1903, al caffè Faraglia di Roma, ai disegni per tappeti, lampade e stoffe, ceramiche, ferri battuti, vetrate e paramenti, Basile conserva uno stile autonomo e inconfondibile, continuamente aggiornato pur nella consapevole aderenza alla cultura siciliana.

Menzione a parte merita la vicenda di Aemilia Ars, società cooperativa nata a Bologna nel 1898, vera e propria “gilda” di artisti, decoratori e artigiani, ispirata a un’ideologia di avanzato rinnovamento sociale, morale ed estetico, ma in grado di mettersi in contatto operativo con industrie, artigiani e laboratori del territorio. Pur nel breve periodo di vita, riescono a creare prodotti armoniosi, calibrati fra reminiscenze del passato e istanze moderniste. Alla sua liquidazione, a inizio 1904, sopravvivrà soltanto la produzione di ricami, presente ancora per decenni nello storico negozio del centro di Bologna.

9.1.2. L’industria ceramica

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Nell’industria ceramica il retaggio dell’alta tradizione artistico-artigianale, i cospicui profitti generati da un mercato estero che supporta la passione dell’antiquariato richiedendo copie fedeli o rifacimenti dei manufatti “storici” (uniti all’alto costo delle nuove tecnologie), giocano un ruolo di deterrente all’innovazione formale. Ma alcune aziende lungimiranti capiscono l’aspirazione degli artisti “nuovi” (primi fra tutti Adolfo De Carolis, Duilio Cambellotti, Arturo Martini e Galileo Chini) di misurarsi con le arti fin qui ritenute minori, ma che abbracciavano in un’unica ricerca la loro concezione estetica e offrivano la possibilità di testare materie e tecniche diverse. Una delle “arti” più frequentate fu la ceramica, per sua natura la più vicina a quella sintesi alchemica cara alla poetica simbolista a cui il Liberty non fu immune (una simile attrazione si manifesta nei confronti del vetro, materia anch’essa fatta di terra, acqua e fuoco). I prodotti ceramici inoltre erano i più vicini all’oggetto d’uso quotidiano, attraverso il quale far penetrare la democratizzazione della bellezza totale, aspirazione anch’essa in prima linea negli scopi dei movimenti dell’Arte Nuova, dalle Arts and Crafts, alla Wiener Werkstätte, fino alla Bauhaus. Anche se in Italia non vi furono veri movimenti-azienda, a parte il breve tentativo di Aemilia Ars, si realizzarono collaborazioni importanti fra alcune fabbriche e i singoli artisti-designer (una visita al mirabile Museo Internazionale delle Ceramiche, fondato nel 1908 a Faenza, sarebbe illuminante).

 

Oltre alla centralità di Faenza (e il contributo donatovi da Domenico Baccarini), “è interessante segnalare una curiosa intersecazione anglo-italiana, realizzatasi a Firenze. È noto come la città toscana fosse meta di pellegrinaggi di intellettuali e artisti di tutta Europa, ma particolarmente inglesi e tedeschi, e dunque vivesse (come peraltro Roma) una condizione di aperto e vasto cosmopolitismo. Negli anni Ottanta il grande ceramista inglese William de Morgan si recò diverso tempo a Firenze per studiare nella fabbrica di Cantagalli (era amico di uno dei dirigenti) la tecnica del lustro ceramico. Un raro albarello [vaso di farmacia] a lustro metallico rosso e a disegno di pavoni, databile alla metà del nono decennio, indica con sicurezza il frutto di questo contatto e degli scambi proficui tra gli Arts and Crafts inglesi e il patrimonio figurativo e tecnico italiano. E allo stesso tempo indica come i prodotti della celeberrima fabbrica, esportati in tutto il mondo, potessero influenzare il nascente gusto Liberty europeo” (Fabio Bensi). In realtà la Manifattura di Ulisse Cantagalli è soprattutto nota per la bravura nell’ “imitare” passati stili gloriosi, ma, come dimostra il vaso “a testa di gatto” del 1902, uno dei pezzi più significativi del periodo, il pur breve passaggio di De Carolis nella ditta ha avuto il suo seguito, così come lo ebbe nella Società Ceramica Artistica Fiorentina e nella Manifattura Ginori di Doccia, che pur nella fusione alla lombarda Richard darà valore al design dell’oggetto, come accadrà in “area Decò” (1923-1930) con la direzione artistica di Gio Ponti.

Esemplare è il caso di Galileo Chini, artista “totale”, che nel 1896 si emancipa in senso modernista gestendo una fabbrica tutta sua, L'Arte della Ceramica: “ispirata prima a una lineare interpretazione del preraffaellismo, poi a un versatile e straordinariamente moderno repertorio di forme e di colori, tra i più alti raggiungimenti del genere in Europa” (F. Bensi). Il fascino subito dall’oriente fin dagli esordi si impone qui nelle rutilanti cromie, nei lustri cangianti delle maioliche e persino nella ricerca, nell’emulazione tecnica del grès cinese, che costituisce una delle novità della sua fabbrica, divenuta nel 1906 la Manifattura Fornaci San Lorenzo.

 

9.1.3. L’arte del ferro battuto

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La moda del Liberty fece rivalutare anche l’antica arte del ferro battuto, dopo la battuta d’arresto del rigore Neoclassico, grazie anche ai ritrovati della tecnica come le macchine a vapore e la saldatura ad ossigeno, che permettevano agli artigiani fabbri di mettere a frutto tutta la loro maestria: cancelli, ringhiere e balconi, suddivisi in spazi ben ritmati e ricchi di linee morbide ispirate della natura vegetale e animale, rianimarono gli spazi architettonici esterni e interni. Ciò favorì un’alta collaborazione fra gli artisti dei vari settori, dall’architetto al decoratore d’interni, alle manifatture di ebanisteria, di lampadari e oggettistica.

 

L’ambiente milanese, influenzato dalle riviste e dalla grafica Jugendstil dette origine a botteghe di alto artigianato come quella creata da Alessandro Mazzucotelli: qui uscirono opere raffinate e ricche di invenzioni formali, che si espressero pienamente nella collaborazione con Giuseppe Sommaruga (architetto allievo di Camillo Boito) in alcune delle più significative realizzazioni di ferro battuto del Liberty, come nel palazzo Castiglioni, al cui arredo contribuì Eugenio Quarti.

 

Gli ideali socialisti umanitari, uniti alla passione didattica, legano Mazzucotelli ad artisti artigiani come Duilio Cambellotti, Giacomo Cometti e Eugenio Quarti, anche lui insegnante alla Scuola Umanitaria per “arti e mestieri” di Milano, istituzione ancora esistente, da cui nacque nel 1922 il famoso ISIA (Istituto Superiore di Industrie Artistiche) di Monza. Queste scuole, basate sul principio dell’educazione e dell'apprendimento di un mestiere come strumenti per l'elevazione sociale dei meno abbienti, costituivano una sorta di accademia di formazione all'artigianato, dei professionisti delle arti decorative. Dalla necessità di esporre al confronto le opere degli allievi dell’Istituto in un apposito spazio (che fu però subito aperto ai contributi artistici internazionali), la Villa Reale di Monza ospitò dal 1923 le Biennali delle arti decorative, che nel 1930 divennero Triennali e costituirono la premessa per l'attuale Triennale di Milano. Tra gli artisti partecipanti alla I Biennale troviamo Giò Ponti, Marcello Nizzoli, Fortunato Depero.

Se a Mazzucotelli spetta un posto di riguardo fra gli artisti del ferro nel periodo Liberty, dobbiamo ricordarne anche l’alta tradizione bolognese e Sante Mingazzi, che si distinse nella produzione di pregevoli pensiline in vetro e ferro battuto (come quella in via D'Azeglio a Bologna). Aderì all’esperienza del gruppo Aemilia Ars, "società protettrice di arti e industrie decorative nella regione emiliana", manifattura artistica che, sull'esempio dell'Arts and Crafts Movement di William Morris, produsse oggetti d'uso quotidiano (pizzi, mobilia, gioielli, tipografia) di raffinata esecuzione.

Alberto Calligaris, assieme ad Alessandro Mazzucotelli, è stato collocato dalla storia ai vertici dell’arte del ferro lavorato a caldo in Europa. Calligaris, che nel 1910 ha ricevuto il primo premio per le arti decorative all’Esposizione Internazionale di Bruxelles, è il geniale forgiatore di uno stile personale ed eroico, forse più vicino al neo-Luigi XVI (stile più colto e aristocratico, ripreso da quello di Luigi XVI, alleggerito con il colore bianco, che fu detto ironicamente "stile ghirlanda" per l'uso massiccio che ne fece) che al Liberty: “le ghirlande di rose imperversano, ma con una forte presenza del linguaggio formale classico, dai girali alle palmette fino ai bucrani. Dentro l'esuberanza decadente delle rose, questa irruzione della romanità antica crea una dimensione eroica del tutto inedita, che non ricorda nient'altro, se non le atmosfere letterarie di D'Annunzio” (Walter Pagliero).

 

9.2. La belle époque nei manifesti pubblicitari: la grafica Liberty

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“Niente stile Liberty … espressione venuta in Italia, e quasi ignota all’estero, almeno a chi ha un concetto esatto dell’Arte Nuova. Da essa sorsero le espressioni complementari di stoffa Liberty, tono Liberty, le quali, nate da un errore noi non adotteremo né ora né poi. Arte Nuova, stile nuovo, stile moderno, ecco come devesi chiamare l’arte che rappresenta l’attuale movimento estetico da chi vuole essere esatto e chiaro” (Alfredo Melani, L’Arte Nuova e il cosiddetto stile Liberty, 1902).
 
La sdegnata nota del critico “modernista” rileva l’ambiguità del nuovo linguaggio stilistico, insita già nell’aura di libertà di quel nome: Liberty. Libertà creativa e originalità che è qualcosa di più e di meno di un “movimento”, poiché libera dai dettami programmatici di questo, ma suscettibile di adattarsi a inclinazioni individuali, territoriali e temporali: dall’evolversi dalle Arts and Crafts, alla scuola di Glasgow, al Modernismo catalano, alla Wiener Werkstatte e alla stessa Art Nouveau, il cui nome deriva da un negozio, come nel caso italiano. Non un difetto di per sé, anzi, uno dei dati più “moderni”, e sottolinea che vi era “nella natura, nell’essenza stessa di quell’Arte Nuova, una contaminazione profonda con il mercato, con il commercio, con la diffusione mediatica: che, essendo fattori lucidamente enunciati a livello teorico, entrano poi con evidenza nella natura profonda degli stessi manufatti” (F. Benzi).
 
Il progresso delle tecniche fotografiche, litografiche e tipografiche è stato basilare nella diffusione del nuovo stile. La grafica pubblicitaria, ricreata in Francia da Toulouse Lautrec e Jules Chéret a “nuova arte”, sarà per l’Italia foriera di rinnovamento: Carpanetto, Villa, Metlicovitz, Beltrame, Umberto Brunelleschi, Dudovich e tanti altri, cartellonisti che hanno diffuso i marchi (brand) dell’emergente produzione industriale e artistica, orientando la ascesa dei nuovi status symbol: l’automobile, l’abbigliamento, la villeggiatura, i generi alimentari, come l’olio Sasso illustrato da Plinio Nomellini, vero fuoriclasse, come Galileo Chini. Artisti forniti anche di grande intuito commerciale nell’elaborare l’immagine del prodotto: pensiamo alle serie della Fiat, del Campari, dei grandi magazzini come la Rinascente di Milano e, primi fra tutti, i F.lli Mele di Napoli … una vera antologia dello stile di vita targato Belle Epoque.
 
La dinamicità del settore dell’illustrazione e delle arti applicate in genere (richiesti dalla “democratizzazione” dei beni di consumo), surclassa la marginalità rispetto alle arti “libere” in cui l’imperante cultura accademica, borghese e conservatrice, le aveva relegate: ciò ha concesso più libertà di espressione e innovazione, anche per le caratteristiche insite nelle tecnica grafica stessa, incline alla sintesi della forma e alla fluida linearità del segno, tratti peculiari del Liberty. Non va tuttavia omesso l’influsso del “giapponismo”, che irruppe in Europa attraverso le stampe giapponesi importate dalla Compagnia delle Indie dal 1854, alla riapertura dei mercati d’Oriente. Come dire “la cosa giusta al momento giusto”: taglio fotografico delle composizioni, sviluppo bidimensionale a colore piatto, privo di chiaroscuri, una linea curva, semplice e sinuosa a suggerire l'idea del movimento, come i soggetti, dalle onde alle inafferrabili nuvole, i motivi vegetali e animali giocati spesso in sequenza dinamica, simili a fotogrammi, come la serie de La grande onda di Hokusai; e poi il simbolismo naturale nei soggetti e nella forma, con la stilizzazione della figura umana stretta nei Kimono, come quelli di Sada Yacco, ispiratori anche della moda, da Fortuny a Poiret.
 
Enorme fu il peso delle riviste: da Emporium, Scena Illustrata, Cronaca Bizantina, Hermes, Novissima, L’Italia Ride … per citarne alcune in ordine e genere sparso proprio per segnalare l’ampiezza di diffusione di uno “stile”, di un “gusto”, che lo si denomini Liberty, Belle Epoque, Fin de siècle, floreale: un’attitudine posta fra decadentismo estetico e avanguardia futurista, fra rilettura (non più revival) di epoche passate e frenesie tecnologiche, fra mistica simbolista e “poetica” del quotidiano, a seconda dell’aspetto che si vuol privilegiare di quell’intricato e vivissimo periodo racchiuso fra il 1880 e la prima guerra mondiale; questa sconvolgerà tutti gli assetti, ma certi presupposti formali del Liberty fluiranno, quasi per mutazione genetica, nell’Art Decò.

9.3. Gli equilibri della moda

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Evocando lo stile Liberty sorge un’immagine di donna flessuosa e conturbante nelle fluide vesti, che si “avvita” sul vitino di vespa a disegnare la celebre “linea a S” con la mimica di un serpente incantato: dal breve strascico fino alla fiera testa dritta sul collo fasciato, a incoronarsi nel grande cappello piumato. Donne sensuali e sfuggenti come le dinamiche pennellate di Boldini, loro sommo interprete; donne dai nomi indelebili nella memoria collettiva: Lina Cavalieri, Marguerite Rejan, Loïe Fuller, Bella Otero, Sarah Bernhardt, donna Francesca Florio, marchesa Casati … Dame dell’aristocrazia e dive dello spettacolo sono i simboli di seduzione e di eleganza Belle Epoque, fra matinées e soirées, all’ippodromo o a teatro, seguite da signori compiacenti nei relativi tight e frac o smoking (unica “novità” nell’armadio maschile).

 

Seguendo la forte marca simbolista dell’epoca, si può evocare in quell’avvitamento l’elica dei nuovi motori che domavano le leggi della statica: l’automobile, l’aereo, fino alla pellicola del neonato cinema, che si srotolava davanti a platee cittadine sempre più ampie e popolari… Tutto accelerava e si disarticolava, come ben intuivano gli artisti più acuti: così gli occhi, languidi o alteri dei ritratti “conformi” delle dame, ora fissano immoti dai volti sgangherati delle “Demoiselle” di Picasso, con la crudezza di un rito voodoo: è il 1907, la linea a “S” è divenuta una “Z” che perfora l’opprimente busto: e Poiret ne afferra subito il concetto proponendo una linea che ricorda lo stile impero, un modo di vestire più semplice e pratico, con la vita alta e la gonna stretta e lunga, con quel tanto di orientalismo che alla fine conquista il gusto delle donne, surclassando definitivamente le Maisons Worth e Doucet, suoi passati maestri.

 

Il bon ton ovviamente comportava una veste per ogni occasione, adeguata al ruolo mondano da interpretare: abiti da casa, da passeggio, da carrozza, da visita, da ballo, da lutto, da mezzo lutto e, in grande auge, abiti da viaggio e per lo sport. È chiaro che a stabilire le regole era sempre il bel mondo à la mode, di elevata appartenenza sociale; regole poi diffuse alle donne della media borghesia attraverso le proliferanti riviste femminili (e non) “calmierate” dagli eccessi, rivedute e corrette verso la stabilizzazione di un tipo di donna più “addomesticata”, ma più realistica, quella che decreterà il trionfo del tailleur.

Al di là di tutte le avanguardie (tali anche le “suffragette”), erano presenti sul territorio una quantità di iniziative e personaggi, molte delle quali donne appunto, che operavano al dissodamento e alla semina di un nuovo parterre di operatori e acquirenti preparati, consapevoli delle istanze della modernità, in costante equilibrio fra tradizione artistico-artigianale e diffusione industriale, che costruiranno le solide basi di una rinascita nazionale, fuori dal clamore mondano, che porterà qualche decennio e qualche “guerra” dopo, al “miracolo” del Made in Italy. Professionisti impegnati nella didattica, nel giornalismo di settore, nell’associazionismo, come Rosa Genoni, Rosa Menni Giolli e tutti quei professionisti impegnati nelle scuole per l’apprendimento delle “arti applicate”: a Milano, Torino, Firenze, Venezia, Napoli, Monza … alcune già attive da decenni, altre in formazione.

 

È in questa tornata di anni che si formano i nuclei di molte future aziende leader del settore: ora di impianto più artistico- artigianale, da Maria Monaci Gallenga a Vittorio Zecchin, o dalla vocazione più industriale come Luigi Bianchi che nel 1907 costituì il nucleo originario dell’attuale Lubiam, o imprenditori come Senatore Borletti, i Marzotto, Ermenegildo Zegna, Nazareno Gabrielli nella lavorazione del cuoio, firma tra le più prestigiose nell’industrial design applicato alla moda e, prima ancora, Giuseppe Borsalino (dal 1834), che portò la sua collaudata fabbrica di cappelli ad essere, al volgere del secolo, all’avanguardia industriale e nella politica assistenziale. Molti furono anche gli enti promotori e i comitati: fra i più importanti quello lombardo per “Una moda di pura arte italiana” (1909), o le iniziative nell’ambito dell’Esposizione Universale di Torino del 1911, con la realizzazione del Palazzo della Moda. Gli intenti erano chiari: “D’ora innanzi non sarà più una necessità spostarsi dal nostro centro solito di lavoro o di affari, né intavolare lunghe noiose corrispondenze con le case estere per vestire con solida eleganza” (La Donna, 1911. Periodico. Numero speciale per l’Esposizione torinese).

9.3.1. La moda “pratica”, tailleur, paletot e abiti per lo sport

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Spensieratezza, ottimismo e divertimenti, feste, concerti, balli e ricevimenti: tale è la prima impressione lasciata ai posteri dalla Belle époque, con la sua moda vaporosa e spumeggiante. Ma l’aspetto più incisivo, quello per cui “niente sarà più come prima” è il fenomeno dell’inurbamento che, in crescendo dall’Unità d’Italia, inizia a colpire anche il bel paese, soprattutto l’industrioso nord.

 

Nelle città la vita si fa frenetica, cambia il modo di vivere, di abitare, di muoversi e di divertirsi. Gli spazi sono più ristretti, più “costruiti” e al contempo dispersi nel tessuto cittadino: da casa al lavoro, dal lavoro al cinema, al museo, al teatro, al parco … e poi di nuovo a casa, fino alla domenica: a passeggio sul “corso”, sul fiume, a pattinare o in campagna, magari a cavalcare, al tennis, al golf, o ancora meglio in gita, a sciare, nuotare … in villeggiatura. Insomma, un su e giù da carrozza a cavalli, tram e omnibus, automobili per i più fortunati e tante biciclette.

 

Così, mentre a Parigi le maisons de l’haute couture divenivano sempre più raffinate interpreti dei desideri delle gran dame di salotti e palcoscenici, altrove si brigava per rendere la vita quotidiana più agevole. In prima linea vi erano gli angloamericani, basti citare le Bloomers, a metà Ottocento, la Rational Dress Society o il chimico scozzese Mackintosh, per entrare nel vitale campo delle innovazioni tessili.

Ma il vero simbolo della donna nuova fu il tailleur. Composto da giacca e gonna (per il pantalone dovremo attendere ancora qualche decennio), il primo tailleur deriva dalla tenuta da equitazione ed è mutuato dal guardaroba maschile, tanto che, per la particolarità del suo taglio rigoroso, occorreva un sarto da uomo, in francese, appunto, “tailleur”. Le signore dell’alta società riconobbero la praticità di questo capo e iniziarono a indossarlo anche per passeggiare o per eventi pubblici. La paternità del capo va a John Redfern, specializzato in abiti sportivi e da cavallo, il preferito dalla regina Alessandra, moglie di Edoardo VII e icona di stile negli eleganti tailleur da viaggio. Fu appunto il sarto inglese a dare nel 1885 una linea precisa al nuovo “capo”, da indossare solo nelle ore del mattino e accentuato da accessori mascolini come il gilet e la cravatta. Le donne che dovevano misurarsi nelle diverse professioni, adottarono con gioia il tailleur, per la sua praticità e duttilità a varie situazioni: comparvero camicette lavorate con passamanerie, merletti e bottoni; corsetti molto meno attillati e gonne lunghe, tessuti leggeri e meno severi, in linea con il gusto del momento.

 

La diffusione degli sport richiese indumenti appropriati per ambo i sessi anche se quello femminile, per ovvi motivi di decenza, comportava maggiori compromessi: il costume da bagno doveva permettere il movimento in acqua, ma scoprire meno epidermide possibile; il completo da amazzone per l'equitazione comportava una lunga gonna a strascico, per coprire le gambe quando la donna cavalcava, scomodamente seduta di fianco sulla sella. Per i nuovi sport, come il golf, il tennis, lo sci e la bicicletta (dopo il 1890 comparirono gli abiti per le cicliste e i primi tentativi di ripudio della sottana con larghi calzoni alla zuava, chiusi sotto il ginocchio e una corta tunica a nascondere i fianchi), si avranno comode giacche di maglia e golf più sportivi,con la relativa ascesa dell’industria della maglieria e della maglia-stoffa, il jersey, che nel primo dopoguerra sarà il cavallo di battaglia di Chanel.

 

Dall’inizio del nuovo secolo si diffusero i paletots, soprattutto per l'inverno, tipici soprabiti maschili con chiusura a doppio petto e lunghezza fino al ginocchio che assunsero una linea sempre più diritta e larga con l’abolizione del taglio in vita e ampliando i revers del collo. Si preferì per il paletot un colore più chiaro rispetto a quello dell'abito e vennero proposti anche modelli più sportivi accanto a quelli più eleganti. Inarrestabile la nuova moda del “trench-coat” (soprabito da trincea): doppio sprone alle spalle, spalline, cinturini ai polsi e al collo, grande bavero e cintura con fibbia rettangolare foderata in pelle. Già nel 1824, a Glasgow, Charles Mackintosh impiantò la prima fabbrica di soprabiti in tessuto impermeabile di lana di suo brevetto, seguito da Burberry, che dal 1856 produsse il primo modello di impermeabile in gabardina. Lo trasformò in un capo da uomo e da donna, curandone anche l’eleganza A partire dal 1920, il Burberry in versione classica di soprabito impermeabile, doppio petto, beige, con fodera tartan beige, a righe nera e rossa, maniche a raglan e cintura, è proposto con successo fuori dall’ambito militare e diviene un classico dell’abbigliamento maschile. Da non scordare il Barbour, giaccone impermeabilizzato in cotone oleato, oilskin, venduto, a partire dal 1894, da John Barbour nel suo negozio della città marittima inglese South Shields, rappresenta un caso esemplare di identificazione di un marchio con un prodotto.

Questi capi, di taglio più semplice e essenziale permisero una rapida produzione industriale anche per la minore specializzazione richiesta alla mano d’opera. Inoltre parte del lavoro poteva essere gestita all’esterno, soprattutto per la maglieria, aspetto che ne permise una grande espansione anche in Italia In Toscana, Empoli ne divenne un centro di produzione, dalla Barbus in poi (1907); al nord sorse la English Fashion Waterproof (1912, poi Valstar).

 

BIBLIOGRAFIA

Ivan Paris, Oggetti cuciti. L'abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli anni Settanta, Franco angeli Ed., 2006

9.3.2. Donne, artiste e vecchi merletti

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Ad alimentare la schiera di donne industriose (senza distinzione di classe sociale) negli anni “belle epoque”, concorrono molte attività legate al settore della moda. Giornaliste, sarte, decoratrici, artiste come Maria Rigotti Calvi, che studiano e insegnano, come Rosa Genoni, sarta, pubblicista, socialista anti interventista, che cercò sempre di applicare nelle sue collezioni, nei costumi teatrali, nella didattica (dal 1905 è alla Società Umanitaria di Milano, direttrice e insegnante della Sezione sartoria della Scuola professionale femminile e docente di Storia del costume), le nozioni apprese nell’apprendistato parigino, adattandole al tessuto sociale italiano, battendosi per la formazione di un’associazione di lavoratrici nel campo della moda e sostenendo la produzione di abbigliamento su scala industriale, come strumento di democratizzazione della società. Tuttavia restò sempre convinta che lo studio del passato artistico avrebbe ispirato il rinnovamento: ciò che infatti più si ricorda di lei sono gli abiti ispirati al Rinascimento italiano, come il manto di corte alla Pisanello o l’abito in raso rosa pallido con la preziosa sopravveste di tulle color avorio a ricami floreali come la Primavera di Botticelli, tutti realizzati con tessuti autoctoni a ulteriore difesa del patrimonio nazionale.

 

Sulla stessa linea Rosa Menni Giolli (tra le fondatrici dell’UDI, Unione Donne Italiane nel 1945), attiva soprattutto nel settore tessile, di cui riprende la tradizione nazionale innovandola tramite tecniche e stilemi orientali, come il batik giavanese (particolare pittura su cotone, diffusa dall'Esposizione universale di Parigi del 1900). Anche la Liberty &co. richiese a Rosa alcuni disegni e lo stesso d’Annunzio, versione di dandy italico, le ordinò cuscini, tappeti e anche pigiami e vestaglie per il Vittoriale. A ornare la dimora del poeta concorrerà anche Vittorio Zecchin, artista di Murano, a contatto con artisti della Secessione viennese, autore del ciclo pittorico-decorativo Le Mille e una notte (1914) all’Hotel Terminus, “capolavoro della pittura liberty a Venezia”. Considerato il primo vero designer del vetro, avvierà la rinascita della tradizione muranese: interprete dell’unione delle arti, progettò anche arazzi e ricami (reinventando gli antichi merletti delle anziane donne nel “punto mio”, che imita con fili di lana e seta la consistenza della pennellata dei suoi quadri) in stretta collaborazione con il laboratorio di ricamo della contessa Pia di Valmarana e destinata ad estendersi anche a Maria Monaci Gallenga, come dimostrano le più importanti mostre di arte decorativa fino agli anni ‘30.

 

Oltre al recupero delle tradizioni locali, alcune società (ispirandosi alle esperienze inglesi dei vari Morris, Mackmurdo, o alla produzione Wiener Werkstätte), vollero realizzare tessuti, ricami e merletti con motivi creati da artisti contemporanei; molte erano promosse da nobildonne, come le contesse Lina Bianconcini Cavazza e Carmelita Zucchini, che intendevano offrire alle lavoratrici precarie una "industria sussidiaria, senza distoglierle dalla famiglia". Nel 1901 si unirono alla Aemilia Ars di Bologna, la società cooperativa creata nel 1898 dall'architetto Rubbiani e dal conte Cavazza, che forniva modelli tratti dal repertorio antico alle industrie e ai laboratori artigiani di gioielli, sculture, arredi in ferro battuto e mobili, riletti in gusto decisamente Liberty. Ma fu proprio la “nuova” sezione, l’unica a sopravvivere alla liquidazione del 1904 e continuare una prospera attività fino al 1936.

 

BIBLIOGRAFIA:

A. Antoniutti, Il tessuto Liberty: dalla tradizione al “nuovo stile”, in Il Liberty in Italia

Barbara Cantelli, L'Aemilia Ars di Antonilla Cantelli, Nuova S1

10. Creatività senza confini e autarchia: moda tra le due guerre

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Finita la prima guerra mondiale la Bella Otero, ideale di femme fatale dalla flessuosa linea a “S”, si ritirò dalle scene e con lei la Belle époque: d’origine spagnola, le sue forme mediterranee mal si adattavano al nuovo ritmo importato dall’America. Già a inizio secolo due audaci americane avevano scosso i corpi della vecchia Europa: Loïe Fuller snodava la grande tunica in danze serpentine e Isadora Duncan liberava al movimento gli scandalosi pepli verso un Eden perduto. Muse entrambe dei tanti artisti decisi a cogliere con ogni tecnica quel vano fluire, danzavano il loro anticonformismo sulle note dei classici, cercando l’espressività nelle nostre radici; non esportarono così una vera espressione autoctona, come lo fu il jazz: Duke Ellington stesso lo definì “come il tipo d'uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia”. Ma queste figlie erano donne emancipate, disinibite: sigaretta in mano, pronte a conquistare il mondo, a rimboccarsi le maniche lavorando e "osando", anche nel campo dello stile e della moda, come Coco Chanel, che lanciò il taglio di capelli alla garçonne, corto e essenziale come la petite robe noire, intramontabile quanto l’intrigante fragranza dello Chanel No.5. E intrigante fu quella tendenza all’androgino della donna filiforme, come Ida Rubinstein (approdata a Parigi fra i dirompenti colori dei Ballets Russes di Diaghilev), stilizzata, come la linea dell’arte contemporanea, ma anche “selvaggia”, come Josephine Baker, l’afroamericana dall’impudente vitalità che incendiò le notti parigine.

 

La voga “americana” nasceva anche dal mito della ricchezza d’oltreoceano, un benessere reale che favorì l’esportazione di beni di lusso di produzione italiana e Francese. Ma alla crisi del 1929 ogni Stato, liberale o assolutista che fosse, rispose con decreti protezionisti. Così Gran Bretagna e Stati Uniti, fautori di lungo corso dell’igiene fisica e dello sport, convalidarono la loro autonomia creativa nella produzione di capi sportivi, più classici e raffinati i primi, più accessibili e informali gli altri.

 

La creatività si nutre di scambio, di movimento, fondamentale in ogni campo del design. Molti “creativi” italiani trovarono terreno fertile oltre confine, alcuni oltreoceano, come Salvatore Ferragamo (salvo poi tornare in Italia, già famoso, in cerca di artigiani all’altezza delle sue creazioni). Fu la Parigi delle avanguardie che pubblicò gran parte dei manifesti del futurismo italiano, movimento in cui militò anche l’estroso Thayaht, vero designer della moda, artefice della TUTA, abito unitario a forma di 'T' basato sul concetto di praticità, economia e riproducibilità, che cambiava d’uso secondo il tessuto di confezione: uniforme da lavoro, abito da viaggio o esclusivo abito da sera in lamè. Madeleine Vionnet lo volle nel suo atelier per declinare in infinite varianti il suo rivoluzionario “taglio in sbieco”. Da qui l’artista fiorentino influenzò la moda parigina dal 1918 al 1925.

 

A Parigi giunse Elsa Schiaparelli, nel 1922. Stravagante e anticonformista, si alleò a cubisti, surrealisti e dadaisti come Man Ray, Duchamp, Picabia, già incrociati a New York. Lungimirante, ideò collezioni “a tema” e sfilate-spettacolo, fondendo il senso italiano di artigianalità a stilemi dell’avanguardia: mix cromatici mozza fiato, come il rosa shocking (come il suo profumo dall’ampolla sinuosa, disegnata da Leonor Fini sul busto hollywoodiano di Mae West), materiali pioneristici (goffrato “escorce d’arbre”, fibre artificiali e trasparenti), ricami polimaterici e tessuti stampati ispirati da Dalì o Jean Cocteau, che dirà di lei: “Ogni uscita dell’italiana era un evento dadaista”, come il “cappello-Scarpa” o il “Gallina”.

 

Alle lusinghe del regime e alla guerra reagì con Cash and carry, una collezione di abiti multiuso con tasche e zip per la donna “in fuga”, come lei. Al suo rientro dall’America nel dopoguerra, il new look di Christian Dior dettava già legge in Europa. Ma "l'artista che fa vestiti", come ironizzava su di lei Chanel, parimenti segnò la moda internazionale, da Yves Saint Laurent a Giorgio Armani e oltre.

 

BIBLIOGRAFIA:

Elsa Schiaparelli, Shocking Life. Autobiografia di un'artista della moda, Padova, Alet, 2008

Caterina Chiarelli - testi di G. Uzzani, a cura di, "Thayaht e Ram. La Tuta/Modelli Per Tessuti. Per il Sole e Contro il Sole". Catalogo della mostra, con la presentazione di Antonio Paolucci. Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino. Galleria del Costume di Palazzo Pitti, Sillabe, Livorno 2003.

10.1. Vionnet, Thayaht, i futuristi: il triangolo della moda (all’ombra di Coco)

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“Non fu la prima a tagliarsi i capelli (fu l’attrice Eva Lavallière), ma non è grave. L’idea dei bijoux - veri o falsi - per il giorno non era sua, era di Misia Sert, ma non è così importante. Persino la petite robe noire non è solo Chanel, è anche madame Vionnet”. Questa dichiarazione di Karl Lagerfeld, direttore artistico della maison Chanel dal 1982, mette in luce cosa significa essere la migliore icona del proprio stile: Gabrielle (Coco) Chanel seppe costruire una forte mitologia intorno alla sua persona e dare al suo lavoro statuto non di sarta, ma di creatrice di moda e non solo. Il mondo artistico e intellettuale parigino la lusingava, Picasso, Cocteau e Diaghilev, nel 1924 le affidarono i costumi de Le train bleu, balletto “à la mode” sulle vacanze marine per cui la giovane Coco aveva creato sobrie mise da spiaggia con l’amato jersey e in tricot dalle bande sui toni azzurrini, troppo poco spettacolari per lo spettatore di teatro, perfette per la vita quotidiana del villeggiante.

 

“Oltre al plus d’immagine, a lei dobbiamo “lo stile immortale della gonna in tweed, della maglia con il filo di perle, dell’abitino nero, del tailleur senza collo profilato in passamaneria, dei bottoni gioiello, delle mitiche omonime scarpe bicolori che lasciano il calcagno scoperto, delle borsette in nappa trapuntata con la catena sulla spalla e della bigiotteria”.

“Era una donna di gusto […]. Sì. Bisogna ammetterlo. Ma era una modiste. Vale a dire […] che si intendeva di cappellini” (Gnoli, 2012, pp.41-57). La vena polemica del commento di Madeleine Vionnet sulla più “introdotta” e seducente collega fa luce su due caratteri e due stili antagonisti. Dimessa e grassoccia “la sarta più importante del Ventesimo secolo”, secondo Diana Vreeland, asseriva di non amare la moda: “Nei fugaci capricci stagionali sta un elemento di superficialità, di instabilità che scandalizza il mio senso di bellezza”. Quando a Londra, giovanissima, fu colpita da Isadora Duncan danzante nei classici pepli, capì che lì si univa la strada verso la liberazione del corpo e la creazione della vera bellezza femminile. Fu Jacques Doucet, suo patron dal 1907, a darle carta bianca per liberare “il tessuto e la donna dalle costrizioni loro imposte” provando che “una stoffa che cade liberamente su un corpo è lo spettacolo armonioso per eccellenza”. Sovvertendo le regole sartoriali Mme Vionnet rinnovò la tecnica del taglio e dell’ornamento. La sua maison, aperta nel 1912, nel 1919 si arricchì della collaborazione di Thayat, conosciuto nel lungo soggiorno in Italia durante la guerra, che seppe magistralmente interpretare la “filosofia Vionnet” e darle un’immagine, iniziando dal celebre logo: un peplo greco inserito in una spartitura geometrica, sintesi di classicità e modernità. Quegli ingegnosi tagli “triangolati” stimolavano il suo animo futurista, che si irradiò nelle linee dinamiche dei figurini, dei tessuti disegnati per lei fino al ’25. E fu proprio nel ’25, all’Expo parigina, che i futuristi si resero conto quanto delle loro idee (che l’Italia bollò come rumorose bizzarrie), era stato ripreso e sfruttato dalle ricettive e accorte sartorie francesi, a cui niente sfuggiva dei fermenti culturali delle avanguardie che ruotavano nel magma cittadino: “Per la prima volta appaiono a Parigi pellicce colorate e mantelli futuristi […] i bottoni futuristi trovansi realizzati nello stand della Casa Bauer […] le borsette e anche le scarpe […] nello stand di Casa Brusk di Parigi”, come lamentarono Balla e Jannelli in un’intervista sull’”Impero”.

“La moda femminile è stata sempre più o meno futurista. Moda equivalente femminile del Futurismo. Velocità, novità, coraggio della creazione”, si leggeva nel Manifesto della moda femminile futurista, elaborato da Volt (Vincenzo Fani) nel 1920. Le tre grandi protagoniste della moda internazionale del nuovo secolo, Chanel, Vionnet, Schiapparelli, interpretarono “a regola d’arte” tutto il potenziale della donna nuova esaltata nelle sue mille sfaccettature: sportiva, seducente, ironica, mutevole ... sempre dinamica e sorprendente protagonista di stile.

10.2. Le mille vie dell’italianità

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  1. La ricerca dell’italianità

 

Nel 1910 la rivista senese «Vita d’arte» istituì il concorso per un abito femminile da sera per promuovere la creatività italiana: vinse Francesco Nonni che, sulle orme di Rosa Genoni ritenne che uno stile nazionale dovesse ispirarsi alle opere dei principali artisti di Medioevo e Rinascimento. Il dialogo con la tradizione, l’abilità delle maestranze e la capacità ideativa al servizio del lusso si profilavano già allora come i tratti costitutivi della moda italiana che cominciava a delinearsi come ambito specifico all’interno del dibattito sulle arti decorative. A Roma nel 1919, il "Primo Congresso Nazionale dell'Industria del Commercio dell'Abbigliamento"  fu abbozzato il disegno teso ad affermare un carattere italiano della moda e a potenziare l’industria locale “affrancandola dalle influenze straniere”. Nel ventennio fascista il progetto acquisì compattezza e sistematicità: nel 1932 fu costituito l’Ente autonomo per la Mostra nazionale permanente della moda, convertito nel 1935 in Ente Nazionale della Moda più efficace nel coordinare l’intero ciclo produttivo «con unità di indirizzo e di azione […] in una sola e organica linea di lavoro il sarto modellista, l’industriale tessile, quegli affini all’abbigliamento, e l’artista creatore». Le circa 300 ditte ammesse dovevano apporre un talloncino a “marca di garanzia” di italianità, previa controllo dell’Ente stesso, modello per modello. Si può immaginare in quali pastoie burocratiche si arenava la produzione “Doc”! Difficile ricavare da pubblicazioni dell’epoca spie su falle del sistema-moda del regime, poiché alla stampa fu imposta una ferrea censura, oltre all’invito (!) di evitare ogni riferimento a creatori e produzioni parigine. Ma si sa, è costitutivo della moda essere controcorrente, così proliferò la lettura clandestina di periodici esteri e le signore, soprattutto del bel mondo, potevano confrontare le modeste fotografie filtrate dall’Ente (Luxardo ne era il fotografo “ufficiale”), con quelle di riviste come Vogue, Harper’s Bazaar, Vanity Fair, scattate da geni dell’obbiettivo come Edward Steichen o Cecil Beaton, che hanno veicolato le immagini delle dive hollywoodiane come Joan Crawford, Norma Shearer, Greta Garbo, Katharine Hepburn, con i total look creati dal “mago” americano Adrian, come i celebri tailleurs di taglio mascolino di Marlene Dietrich, che sono stati longeva fonte di ispirazione, da Yves Saint Laurent a Giorgio Armani. (cfr. Gnoli, 2012, p.71).

 

Erano quelle le vere icone imposte dal cinema, anche per signore e massaie d’Italia, nonostante lo sforzo dispiegato dalla cinematografia del ventennio, come nella Contessa di Parma (1937) di Alessandro Blasetti, o i Grandi Magazzini (1939, girati alla nuova UPIM) di Mario Camerini, apoteosi della politica espansiva della distribuzione: la Rinascente, la UPIM, la Standard (poi Standa)…, che, “aiutati” dalle leggi razziali, oscurarono la fama dei Magazzini Cohen (dal 1880 in via del Tritone, come segnalato sulle guide turistiche di Roma), all’apice tra gli anni '20 e '30, con i loro vasti assortimenti delle migliori fabbriche nazionali ed estere, la produzione di ricami e di "lavori di stile e precisione", eseguiti nei laboratori ai piani alti del palazzo. I quattro fratelli Coen, con precoce attenzione alla moda maschile, si recavano a Londra e Parigi quattro volte l'anno per la scelta di stoffe per abiti, camicie e cravatte; in Piemonte, a Biella, si rifornivano di telerie italiane. A Roma si tagliava e si confezionava. John Guida si occupava per loro, dal 1914, della donna: eccellente e aggiornatissimo figurinista (a via del Tritone tenne anche un corso di formazione per tale professione emergente): "Per creare una moda nostra, la moda del nostro buon gusto veramente italiano, ad ogni mutare di stagione io prendo il treno e vengo a fare una passeggiata a Parigi.......Perché non si può negare ai nostri amici d'oltre Alpi di essere i despota in fatto di mode femminili. Io guardo, ammiro, studio e targo le mie deduzioni, sulle quali poi lavoro”. I modelli che la ditta Coen ne ricavava furono messi in vendita dal 1936 anche in carta. Guida, due volte la settimana, allestiva le undici vetrine dei Magazzini: i figurini su cartoncino colorato, solitamente cm. 50x70, marchiato "S. di P. Coen", vi erano sistemati con attorno i tessuti “giusti” per la realizzazione dell'abito, drappeggiati con sicuro effetto da John, che nobilitò anche un’altra professione della moda: l’arte del vetrinista.

 

  1. La ricerca dei materiali e sui tessuti

 

L’opera patriottica sulla moda proseguiva, grazie anche alla regina Margherita e Edda Mussolini, e all’attivissima Lydia De Liguoro, fondatrice di «Lidel» (il ruolo delle riviste di moda fu fondamentale e tante ne nacquero); furono banditi concorsi con il contributo di artisti futuristi come Marinetti, Balla e Depero e nel 1928 si aprì, proprio a Parigi, la Boutique italienne, una vetrina permanente della migliore produzione italiana d’arte e artigianato (attiva fino al ’34), col contributo determinante di Maria Monaci Gallenga, dopo il grande successo dei suoi tessuti all’Expo parigina del ’25. Vicina agli artisti della “Secessione Romana” come Gino Sensani, Galileo Chini, Romano Romanelli e Marcello Piacentini, Maria amava organizzare mostre e promuovere giovani artisti, confermando la consanguineità fra arte e moda. Sperimentatrice, per le proprie creazioni di moda e arredo brevettò un’esclusiva tecnica di stampa su tessuto portando avanti la ricerca di Mariano Fortuny.

 

Il nazionalismo fascista sostenne la ricerca di tessuti nazionali, non solo con la valorizzazione di fibre rustiche, dalla lana “casentino”, all’orbace, fino alla ginestra (oltre al velluto, tessuto autarchico per eccellenza), ma “tutte le più impensate combinazioni di fibre tessili sono state escogitate per creare la più ricca qualità di tessuti” (“Dea”, Le fibre tessili, 1937). E Roberto Papini seppe dare un tocco letterario a questo sforzo: “Chimica e fisica danno ai tessuti ricchezze nuove che la storia non ha mai conosciuto. Velluti leggeri come crespi, damaschi morbidi quanto veli, […] gli ibridi più bizzarri, crespi damascati e tulli vellutati e garze broccate e maglie rasate, in milioni di sfumature e di toni che anche Iride se tornasse resterebbe a bocca aperta” (cit. in Gnoli, 2012, p.95). Anche Marinetti nobilitò con Il poema del vestito di latte, la campagna pubblicitaria disegnata da Bruno Munari per il lancio pubblicitario del “Lanital” nel 1937. Divagazioni poetiche a parte, si aprì l’era della “SNIA viscosa” e delle altre ditte produttrici di rayon, che fu usato in questi anni sempre maggiormente, non solo nei calzifici, ma anche nell’abbigliamento, declinato in molte varietà: viscosa, acetato, fiocco... misto a lana, cotone oppure seta, oppure da solo, uso che fu facilitato dall’invenzione più “naturale” filo opaco. Anche Elsa Schiapparelli fu una grande sperimentatrice di fibre nuove, mai allora pensate per gli abiti, compresa la plastica trasparente, aprendo la strada ai vari Courreges e Rabanne, per non parlare di Salvatore Ferragamo, che nobilitò il settore della calzatura finora considerato accessorio anche grazie all’uso di materiali alternativi, come la famosa scarpa ortopedica con la zeppa di sughero che negli anni ’40 riuscì a conquistare la duchessa Visconti di Modrone.

 

Anche il recupero avviato dalla fine Ottocento sull’artigianato locale e sulla manifattura italiana si intensifica nel ventennio, proseguendo l’istituzione di scuole e laboratori per il ricamo e il merletto (favorite dallo stato di arretratezza industriale) e la modisteria (di gran moda i fantasiosi cappellini!). In linea con la riscoperta dell’accessorio anche la pelletteria e calzoleria e al genio Ferragamo si aggiunsero anche Gucci, Gherardini e Roberta di Camerino.

Nonostante la politica di semplificazione e riduzione dei pezzi del guardaroba femminile (mise-base: gonna godet al ginocchio e camicette infilate nella gonna), si concedeva un certo lusso negli abiti da sera e nell’abito da sposa, tanto più in matrimoni “titolati” come quelli delle due “famiglie regnanti” italiane: nel 1930 si celebrarono i matrimoni del principe Umberto di Savoia e Maria José del Belgio, poi del conte Galeazzo Ciano con Edda Mussolini ed entrambe le spose omaggiarono, ovviamente, la sartoria italiana.

 

  1. La tradizione sartoriale:

 

Per identificare un creatore italiano dobbiamo arrivare alla metà dell’Ottocento e al sarto milanese Pietro Prandoni, fornitore della Real Casa, che dal 1862 vestì gli uomini più importanti dell’epoca, da industriali a finanzieri, da Verdi a Puccini. Il valore “aggiunto” dato agli abiti «di sartoria» dai clienti eccellenti, suggerì a Giovanni Battista Rosti, che ne rilevò l’atelier alla morte di Prandoni di mantenerne la «firma», aggiungendo al carnet anche il nome di Gabriele D’Annunzio, vero cultore in materia che seppe dire la sua fino alla morte, nel 1938, alla vigilia del precipizio della seconda guerra mondiale.

Anche se i più geniali stilisti erano, o operavano, soprattutto all’estero, tra Otto e Novecento le principali città d’Italia pullulavano di laboratori sartoriali dove sotto la direzione della caposarta o première, centinaia di «caterinette» (dalla protettrice Santa Caterina, che le sartine ogni 25 novembre celebravano festosamente) lavoravano alacremente. Torino, all’inizio del Novecento era considerata la capitale italiana della moda, con circa 30.000 «caterinette», pari a un quinto della forza lavoro femminile. Occupate in un migliaio fra atelier, laboratori e botteghe di vario rango (molte anche a domicilio, situazione che si rivelerà strategica), le donne monopolizzarono il settore della sartoria, fatta eccezione per la figura del couper, il tagliatore, tradizionalmente maschile.

 

Napoli, tra gli anni ‘20 e ‘30 del Novecento era una delle città più eleganti d’Italia grazie ai suoi sarti (di cui il più celebre era Vincenzo Attolini), che operavano in botteghe strutturate su quelle del Rinascimento ed erano da allora considerati i più abili: i più famosi tessutai britannici concedevano solo ai sarti partenopei l’uso dei loro tessuti. Anche in molte altre parti d’Italia si andava comunque affermando l’arte della sartoria: così in Emilia-Romagna come in Lombardia o in Abruzzo dove “i sarti sapevano trasformare la materia in capolavori” parola di Gabriele D’Annunzio!

Comunque, anche negli anni ’40, nonostante la “marca oro” istituita dall’Ente Nazionale della Moda, le più stimate case di moda (Zecca, Montorsi, Ferrario, Biki, fino a Calabri, per citarne solo alcune, oltre alla rinomata Ventura, a cui è legato il nome di Fernanda Gattinoni, un ponte al futuro della moda italiana) continuarono le loro “ispirazioni sul tema” dalle passerelle parigine.

10.3. Dal charleston al new look

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Spartiacque fra la vecchia e la nuova generazione, la prima guerra mondiale scombinò le divisioni nei ruoli tradizionali uomo-donna, come fra le classi sociali. Se la maggioranza delle signore altolocate si dedicò ad opere di assistenza (dalla Croce Rossa alla beneficenza), una più ampia rappresentanza femminile fu impiegata in ogni settore produttivo, spesso in sostituzione degli uomini arruolati nel conflitto: ciò fornì ulteriore consapevolezza della forza di autonomia da esse raggiungibile, anche se, a pace fatta, ci furono tentativi di “richiamo ai ranghi”, soprattutto in Italia, impreparata economicamente e culturalmente a tale rivoluzione. In un numero del 1917 della “Tribuna” si dichiarava così, non senza una vena di ingratitudine: “il Paese più che le sue braccia vuole i suoi fianchi”. Forse, la generosa donna lavoratrice, con quell’abbigliamento utilitario stava perdendo anche un po’ di charme agli occhi maschili. “Ora la moda è semplice: tailleur di grosso panno bleu o grigio, una moda esclusivamente giovanile, perché le gonne cortissime, le scarpe e gli stivaletti quasi ‘alla coturno’ non tollerano la decadenza, pretendono belle caviglie e anche procaci […]. La femminilità sembra un po’ mascolinizzata e in uniforme”. Man mano anche le più vistose diversità d’abbigliamento fra classi e fra ambito contadino e urbano, si andavano uniformando, anzi, la moda acquistò il grembiule: “Audace e grazioso questo grembiule è sfacciatamente salito per le scale di servizio ed è entrato in salotto. È di seta, con lacci impertinenti che si annodano in modo civettuolo” (“Margherita”, marzo 1916).

 

Di una certa sfacciataggine erano indubbiamente dotate le anglofone flappers e le garçonnes francesi, con la loro idea di femminilità androgina e sottile, tanto lontana dalla femme fatale, ma non meno intrigante, anche se Poiret ebbe a dire con nostalgia: “Un tempo le donne erano architettoniche come prue di navi. Ora assomigliano a piccole telegrafiste denutrite”. Certo, d’accordo con la cronista di “Margherita”, era più facile dissimulare i difettucci femminili sotto i morbidi drappi orientaleggianti del grande sarto (che pensò bene, fallita la sua maison, di impiegare il suo genio come figurinista, nuova emergente professione, collaborando a migliorare la produzione di alcuni famosi grandi magazzini), che non dalle brevi gonne che tra il 1925 e il 1926 coprivano a malapena il ginocchio: rivoluzione che fece la fortuna di calzettai e calzolai, divenuti fondamentali, come il sandalo (Ferragamo docet) riemerso protagonista. La tendenza “a levare” degli anni ’20, portò l’abolizione delle maniche e il taglio delle chiome: “Le signore tornavano a casa portando un pacchetto di chiome recise […] i capelli erano crespi e fitti sulle gote, i cappelli calzatissimi, gli alti baveri dei paletò lasciavano scorgere appena una cerchiatura d’occhi nera, un sanguigno disegno delle labbra […] Stagione per stagione le donne s’innamoravano della loro libertà”, come testimonia Irene Brin (cit. in Gnoli, 2012, p.38). Una libertà di cui si fecero interpreti Jean Patou e Coco Chanel, due leader del nascente sportswear: il gergo modaiolo si arricchì così di fonemi anglosassoni e i couturiers di grido,  peraltro ancora tutti francesi, iniziarono presto a chiamarsi fashion designer.

 

Nel gioco di alternanza che regola il ritmo delle mode, gli anni ’20 dettero un colpo di spugna sia ai fronzoli “belle époque”, che alle privazioni belliche. Non senza forti contraddizioni: le crisi hanno origini più lontane della loro deflagrazione. Quando nel ’29, il crollo della borsa di Wall Street travolse gli equilibri economici planetari, la vecchia Europa era già minata dai regimi totalitari e la strada verso la seconda guerra mondiale tristemente segnata.

Ma l’operosità umana certo non si ferma e sa creare profitto anche dalle più dure contingenze, che la creatività converte in linfa vitale, facendosi trovare pronta quando la bufera è sedata: e se il new look del genio Dior saprà rubare le copertine internazionali della nuova era di pace, nella piccola Firenze si stavano per aprire le porte del "First Italian High Fashion Show": 12 febbraio 1951, data storica per l’era del Made in Italy.

11. La nuova geografia della moda nel 2° dopoguerra e la costruzione del Made in Italy

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Con la Seconda guerra mondiale molti atelier parigini, fra ristrettezze di mezzi e leggi razziali, dovettero chiudere. Ma già nel 1947 Parigi tornò ad essere la copertina dell’haute couture con l’astro nascente Christian Dior. Abili servizi fotografici (senza dimenticare René Gruau, suo grande illustratore) diffusi sulle riviste incantavano l’immaginario femminile e il mercato promuovendo il suo New Look: nuovo nell’attualizzare la linea-clessidra di memoria ottocentesca e nella recuperata ricchezza di tessuti elargiti con una signorile eleganza non dimentica delle conquiste della donna moderna.

L’Italia, imparata la lezione della stretta autarchica del regime, si concentrò sulla valorizzazione del proprio capitale, forte anche del canale privilegiato avviato con gli Stati Uniti e in cui la sudditanza economica era bilanciata dal secolare elogio del nostro primato artistico e manifatturiero. Alla promozione dello stile italiano contribuiva fortemente la crescente popolarità del cinema e quel filo rosso fra Hollywood e Cinecittà acceso sull’onda degli anni ’20 e del mitico Rodolfo Valentino.

Fra le maestranze fu un pioniere Salvatore Ferragamo, emigrante ragazzino nel 1914: rimpatriato già famoso nel ’27, stimolò la sua clientela di divi e magnati a “seguirlo” in Italia, a Firenze, sogno turistico del Nuovo Mondo, dove le sue invenzioni esclusive (350 brevetti a fine anni ’50, con le sperimentazioni di forma e materia) entravano in sinergia con il passato d’arte e bellezza. Primo italiano e primo calzolaio che vedrà premiato il valore artistico del proprio lavoro, Ferragamo ricevé, per il “sandalo invisibile” il Neiman Marcus, l'Oscar della Moda, insieme a Christian Dior. Era il 1947. Nello stesso anno le Sorelle Fontana, salirono alla ribalta internazionale creando l’abito nuziale di Lynda Christian, sposa del “bellissimo” Tyron Power: l’illusione della “dolce vita” rese il binomio cinema e moda indissolubile. 

 

Arricchire il “marchio di fabbrica” con un plus di colore locale si rivelò una strategia commerciale vincente. Ne erano coscienti le Case di moda che accolsero lo storico invito di Giovanni “Bista” Giorgini: il 12 febbraio 1951 il "First Italian High Fashion Show" entusiasmò oltremisura giornalisti e buyers, aprendo alla neonata Alta Moda Italiana le porte della Sala Bianca di Palazzo Pitti, per trent'anni illustre scenario delle sfilate che proiettarono Firenze fra le capitali della moda.

Certo, non solo la poesia attrasse i compratori americani, pragmatici per natura. La moda italiana esaudiva appieno le richieste del loro mercato: la bella linea associata alla praticità, la garanzia della lunga tradizione artigianale, della qualità e solidità di materiali e confezione e, certo non ultima, la forza lavoro a basso costo. A incentivare la validità di queste motivazioni provvide Emilio Pucci con una collezione dal tema loro congeniale: il tempo libero, che si apriva a un settore autonomo: la moda per lo sport o la “moda boutique”, fatta di prodotti meno costosi, più fantasiosi e facilmente portabili. Famose le collezioni come “Palio di Siena” e gli inconfondibili stampati ispirati ai colori del mare e del paesaggio italiano, coerenti alla linea “arte-vacanze-moda”, dove Pucci appose la sua firma ben in evidenza all’esterno dei capi. Alla «firma» dello stilista come sponsor della moda avevano già pensato Worth e Poiret a fine Ottocento, ma col boom economico degli anni ’60 il fenomeno manifestò la voglia di promozione sociale e il culto dell’immagine. Centro del desiderio dell’utente e dell’attenzione dei mass media, il “logo” surclassò l’oggetto stesso: profumi, rossetti, oggettistica di ogni tipo, mattonelle per il bagno e via dicendo, ne veicolavano il successo con etichette, slogan e … contraffazioni, aprendo un mercato di inquietante fecondità e attualità.

 

Il decennio 1950 che aprì con la storica sfilata (genitrice del Made in Italy e della fortuna di alcuni grandi sarti ormai promossi a stilisti), confermò la conquista dei mercati internazionali e si concluse affermando la centralità della capitale: a Roma nel 1958 fu fondata la Camera sindacale della Moda italiana e, nel 1959 Valentino vi aprì la propria casa di moda.

11.1. Moda e cinema: la dolce vita

Moda e design

La moda è stata strettamente legata al cinema fin dal suo nascere, ingigantendosi con il fenomeno dello star system hollywoodiano. La Hollywood italiana è stata la Cinecittà degli anni ‘50, quando il cinema italiano ha cominciato ad affermarsi attraverso alcuni autentici capolavori (ed un’accorta politica di sostegno statale). Fra le prime protagoniste della moda legate al fenomeno “cinema” è Fernanda Gattinoni, creatrice, dal 1946, dell’omonima griffe (tuttora all’attivo) e protagonista della moda per la “dolce vita” dell’aristocrazia romana. Formatasi a Londra da Molyneux ed ex direttrice della premiata casa di moda Ventura, il suo primo abito “famoso” fu un paltò di velluto verde per Clara Calamai. Vestì poi Ingrid Bergman, nella vita e nei film di Roberto Rossellini e, su richiesta della costumista Maria de’ Matteis, Audrey Hepburn in Guerra e Pace (1956) di King Vidor (cfr. Gnoli, 2012, pp.156-162).

 

Cinecittà ha anche “prodotto” importanti e indimenticati divi italiani, come Silvana Mangano, lanciata nel 1949 da Riso amaro di Giuseppe De Santis: ex indossatrice e già Miss Roma, mise in luce la sua avvenenza “selvaggia e naturale” con un look fatto di calze nere, golfini attillati, sottovesti e cappelli di paglia. Nel 1953 furoreggiò Gina Lollobrigida con Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini: quella “vestaglietta” sdrucita e aderente fu un capo simbolo di una moda lanciata negli anni ‘50. E poi Sophia Loren de La donna del fiume (1954), diretta da Mario Soldati nella celebre scena in cui balla il mambo, con la vita stretta dalla cintura altissima…

 

La stretta relazione fra moda e cinema è sancita anche nella sfilata all’hotel Excelsior, durante la Mostra del cinema di Venezia, nel 1949: per l’haute couture italiana presentarono i loro modelli Biki, Carosa e le sorelle Fontana. L’alta moda era pronta a fare il suo ingresso nel cinema dando il suo apporto alla costruzione di una tipologia divistica femminile. Negli anni ‘60 tale ingresso era già un fatto compiuto ed il rapporto del cinema italiano con la moda si caratterizzava per l’opera del grande sarto che vestiva il personaggio o i personaggi facendone delle icone di stile, come Irene Galitzine con Claudia Cardinale in Vaghe stelle dell’Orsa.

Cinecittà, che oltre a produrre films “in proprio”, ospitava fior fiori di mega-produzioni hollywoodiane attratte, oltre che da rigurgiti da Grand Tour, dalle impareggiabili maestranze, tanto dotate quanto a basso costo. In più, la rinata voga del periodo per il kolossal storico (da La caduta dell’Impero romano, a Quo Vadis?, da Ben Hur a Anna Karenina e Guerra e pace), unì la storia della moda a quella delle sartorie del costume, come la SAFAS, Umberto Tirelli, la Casa d’Arte Peruzzi, d’origine fiorentina come la Casa d’arte Cerratelli.

Oltre ad essere interpellate per gli abiti di scena, le case di moda venivano in contatto con gli attori, i produttori, i giornalisti… tutti potenziali acquirenti di nuovi modelli più o meno esclusivi: un indotto economico e di immagine di tutto rispetto, come hanno dimostrato le Sorelle Fontana e Schubert per primi.

 

La strada alla “dolce vita era aperta e si poteva tentare “il sorpasso”. I due omonimi film, il primo di Fellini del 1960, il secondo del 1962 di Dino Risi, ci mettono in guardia sulle contraddizioni generate dal miracolo economico nostrale: la moda si costruisce sulle imprese del lusso, che basano il mercato sui sogni del pubblico di un’immagine migliore o comunque diversa della realtà e il cinema aiuta all’illusione, o alla riflessione. Nel 1968 Pasolini chiede a Roberto Capucci di vestire Terence Stamp e Silvana Mangano per il suo Teorema. A quel momento il sarto artista aveva già deciso di porsi fuori dal meccanismo tritatutto commercial-mondano della moda (alla Dior per intenderci), rifiutando il nascente regime del prêt à porter e optando per la sperimentazione di materiali inconsueti e la ricerca artistica. Due anni prima Mary Quant, nell’Inghilterra della Rational Dress Society, era stata nominata Cavaliere della Corona (giusto un anno dopo i Beatles). Nessuno fino ad allora aveva tanto considerato le nuove generazioni come potenziali acquirenti. Sarà questa in fondo la più grande rivoluzione della moda, in ogni sua sfaccettatura: dall’entrata in scena delle top model-teen agers (con la mitica Twiggy), alla querelle di Courrège sul copyright della minigonna (nel ’64 aveva presentato abito corti e linee a trapezio) e a cui la stilista inglese aveva indirettamente risposto: ”Le vere creatrici della mini sono le ragazze, le stesse che si vedono per la strada”. E con loro, da qui in poi, anche l’alta moda dovrà fare i conti.

11.2. TorinoFirenzeRomaMilano: la capitale della moda

Moda e design

 “A ribadire il parallelismo fra vita urbana e moda che si era consolidato fra Medioevo e Rinascimento, luoghi quali Genova, Lucca, Venezia o Bologna hanno legato i loro nomi ai processi produttivi relativi alla seta. Con le nuove rotte commerciali, la seta, ma anche damaschi, perle ed altre merci esotiche si resero infatti disponibili, contribuendo alla nascita della moda. Come vi è una storia della moda, così esiste una geografia della moda che rimanda ad alcuni centri per la produzione e ad altri per l’importazione e per lo smercio ora della seta, ora della lana. Alcuni di questi luoghi hanno mantenuto nel tempo un forte legame con l’uno o con l’altro aspetto della moda, altri invece lo hanno perduto mentre ne sono sorti di nuovi”. (Muzzarelli)

 

Quello che ha fatto della moda uno dei settori trainanti del made in Italy è stata la sinergia di una stratificazione di competenze, da quelle più umili di “lavorazioni domestiche”, come merletti, ricami, maglierie e decorazioni, sparse anche nei piccoli centri; altre con maestranze sartoriali più “tecniche”, diciamo da atelier, che convogliava sarti, modellisti e coupiers, di cui erano ricche le città, da Palermo a Torino; poi divennero sempre più importanti le qualità imprenditoriali e organizzative che tendevano a convogliarsi verso le grandi aree cittadine del nord come Torino (già considerata capitale della moda a fine ‘800) e Milano, che con la richiesta sempre maggiore di mano d’opera accoglievano maestranze anche venute dal meno sviluppato sud, città che pur godendo di una solida storia artistica, hanno maggiormente sviluppato una tendenza industriale ed hanno potuto godere il loro massimo splendore con il dominio del prêt a porter.

Sintomatica è la storia di Milano, l’ultima (in ordine temporale) capitale Italiana della moda internazionalmente accreditata, pur vantando premiate imprese dall’800 (qui fu concepito il vestito nazionale nel 1848). Negli anni ‘40 vi nacque il Centro italiano della moda, con l’idea di creare un legame fra industria tessile e moda attraverso una serie di iniziative che avvennero a Como, a Legnano e a Venezia, dove nel 1948 fu invitato anche “il dittatore” Dior, fresco del clamore del suo New Look. A Milano operavano importanti sartorie quali Marucelli, Noberasco, Vanna e Jole Veneziani (“milanese” nata a Taranto, grande stilista e pellicciaia internazionalmente nota per i suoi capi in astrakan, cincillà, lontra e visone) e, intorno agli anni ’50-’60 importanti protagoniste della moda furono Biki (Elvira Leonardi, nipote di Giacomo Puccini) e Gigliola Curiel. Anche per la comunicazione, Milano è stata il centro della stampa specializzata e delle riviste di moda.

 

Ma nel filo rosso che collegava l’America con la moda italiana e con il mito del “bel paese” d’arte, vacanze e mandolini, Firenze e Roma godettero di un plus d’immagine, grazie anche a personaggi colti quanto intraprendenti, come lo fu Giovan Battista Giorgini che riuscì a far convergere nella città di Caterina de’ Medici il fior fiore dei sarti dell’epoca, salvo poi capitolare al primato di Roma, città d’arte non meno invidiabile, capitale d’Italia e del cinema, dove erano ubicati buona parte di quegli atelier che decretarono il successo delle sfilate fiorentine di palazzo Pitti. Così Fabiani, Simonetta, Sorelle Fontana, Giovanelli Sciarra, Schuberth, Mingolini-Guggenheim, Ferdinandi, Garnet e Fausto Sarli, formarono il SIAM (Sindacato italiano di alta moda), emancipandosi dal loro “creatore” per organizzare sfilate in proprio: si iniziò di fatto la “guerra fredda” fra le due città.

 

“Se gli stilisti italiani unissero le loro forze probabilmente potrebbero battere i francesi e diventare i dominatori della moda mondiale” tuonava nel 1960 il Newsweek, “Invece le controversie interne hanno fatto scorrere sangue […] Firenze, città della moda italiana dal 1951 […] ha cercato di sgonfiare i disegni di grandezza di Roma: la posizione fiorentina ha perso gradualmente importanza da quando sempre più numerosi designer romani si sono stancati del viaggio di 190 miglia…” e già due anni prima Elisa Vittoria Massai scriveva su “Novità”: “La rivalità fra Roma e Firenze minaccia […] di essere superata dalla entrata in scena di Milano. È  troppo presto per fare delle previsioni".

Risposero per lei un decennio più tardi Walter Albini, Ken Scott, Missoni e Krizia, per voce di quest’ultima:

“Non abbiamo niente contro Firenze ma è la formula che non funziona più per noi tutti. Io come molti altri desidero mostrare la mia collezione per intero e con calma nel mio atelier senza sfilate affrettate che non dicono nulla ai buyer…” (cit. in Gnoli, 2012, p.228).

12. Il made in Italy fra creatività e strategie industriali

Moda e design

Nel 1978 Beppe Modenese, public relation man con grande esperienza organizzativa, fu determinante nella creazione del Modit, rassegna di prêt à porter che proiettò Milano come polo di moda internazionale: Walter Albini, Laura Biagiotti, Mario Valentino, Ken Scott, c’erano … e poi arrivarono Armani, Krizia, Missoni, Fendi, Ferré e Versace; e poi ancora Moschino, Romeo Gigli e Dolce & Gabbana…

 

Sancita la nascita del Made in Italy, il 4 agosto 1983 il “Women’s Wear Daily” consacrò Modenese “Italy’s Prime Minister of Fashion”. Curioso! Lo stesso appellativo era toccato due secoli prima alla marchande de mode di Maria Antonietta, Marie Rose Bertin, considerata remota anticipatrice degli stilisti, o dei fashion designer, per concludere il passaggio del vocabolario della moda dal francese all’inglese. A Londra d’altra parte, già verso il 1965 “Quel casino […] testimoniava un rapporto nuovo, libero con il problema del vestire, […] la moda non scendeva più dall’alto, come lo Spirito Santo, ma dal basso. Ho soltanto un merito. Averlo capito” (cit. Gnoli, 2012, p.214), come testimonia quel “fenomeno” che fu allora Elio Fiorucci, che commentando poi il successo del made in Italy, concluderà:

In Italia, finalmente, si sono accorti che la moda è anche disegno industriale, mezzo di comunicazione e che l’arredamento, l’architettura e la creazione di un capo o di un accessorio di moda hanno lo stesso valore, lo stesso contenuto, subiscono le stesse influenze. Non vedo più nessuna differenza tra un disegno industriale di un mobile, di un’auto, di un vestito” (cit. Gnoli, 2012, p.236), che suona come un inno al total look propugnato da quel geniaccio di Walter Albini, primo vero “stilista” propriamente detto: stilista inteso come professionista indipendente, che lavora per diversi produttori, che propone alle aziende con le quali collabora linee non solo di abiti, oggetti, ma di stili di vita legati ad ambienti e filosofie, che siano conformi alla produzione aziendale stessa.

 

Se il Made in Italy ha potuto affermarsi è grazie ad una organizzazione economica della produzione basata sulla fusione dell’industria dell’abbigliamento e tessile con la creatività degli stilisti, il cui ruolo ha permesso di mirare ad una fascia di mercato “alta”, anche qualitativamente d’élite. Tuttavia, maestria esecutiva ed elevata sensibilità estetica non bastano a dare conto di un exploit così deciso, che deve tenere conto anzitutto del radicamento sul territorio, al quale hanno contribuito in modo determinante la diffusione del lavoro domestico legato all’abbigliamento e alle conoscenze di tutta una rete di pratiche artigianali, dal «taglio e cucito», al ricamo, alla maglieria (e potremo aggiungere tutte le competenze legate al settore del mobile e dell’arredo), valorizzate al massimo dalla creazione dei “distretti” legati alle comunità locali, in un tessuto di filiere finemente specializzate. Questo fenomeno, peculiare dell’Italia degli anni ’60-70, vede appunto la concentrazione in un’area delimitata di diverse capacità ruotanti intorno a determinati prodotti e lavorazioni, diverse dall’impresa di grandi dimensioni e dalle microimprese artigianali. Più imprese fra loro coordinate realizzano l’intera filiera produttiva, dando vita nello stesso territorio a una proficua sinergia e insieme a un’utile competizione. Ogni distretto è dotato di specificità connesse anche alla localizzazione di tradizioni artigianali risalenti nel tempo: il distretto di Prato vanta ad esempio una secolare tradizione in campo tessile, in altre si eccelle nella maglieria (significativo l’esempio di Carpi) o nella produzione calzaturiera, come nella Riviera del Brenta o nell’area del Rubicone, oppure della seta, come nel Comasco…

 

La maglieria fra gli anni ’60 e ’70 ha puntato molto sul sistema produttivo dei distretti. Settore dinamico, è rimasto propositivo lungo tutto il Novecento, dalla fortuna delle attività sportive e della balneazione, a Elsa Schiaparelli, che iniziò la sua folgorante carriera con gli originali maglioni-tatuaggio, al successo Luisa Spagnoli che nel 1928 inondò l’Italia, e non solo, del filato in morbida angora per la produzione di capi d’abbigliamento, la produzione di maglieria sarà caratterizzante della «moda boutique», entrando nella sua massima fioritura negli anni ’70, con i grandi nomi come Missoni, Krizia, Albertina, Pierluigi Tricò ecc. Ottavio e Rosita Missoni, presenti nel 1966 a Milano con una collezione innovativa di capi in maglia e l’anno successivo a palazzo Pitti, hanno imposto la melangiatura di colori e motivi, divenuto loro segno distintivo. Anche l’azienda fondata da Luciano Benetton nel 1965 si è basata sul colore, ma pieno, assoluto e rivolto ad una generazione più giovane e meno abbiente: i suoi United colors of Benetton sono divenuti un “caso” e un brand inossidabile: caratterizzato da un’attenta innovazione distributiva, oltre che produttiva, si è imposto anche grazie a una straordinaria campagna d’immagine all’avanguardia (curata da 1982 dal fotografo Oliviero Toscani), che ha occupato spesso anche la cronaca per i suoi contenuti provocatori, ma sempre attenti alle problematiche d’attualità della società globalizzata.

 

La globalizzazione è stata il fenomeno preminente sul quale si apre il nuovo millennio. I vecchi equilibri sono stati scardinati in ogni settore e la moda costretta a riorganizzarsi: stilisticamente e produttivamente. Nell’ultimo biennio una crisi economica di tali dimensioni da essere paragonata alla Grande depressione del 1929, sta producendo effetti non ancora ben valutabili, ma è indubbio che le imprese della moda italiane hanno vissuto un decennio estremamente critico, segnato da clamorosi dissesti finanziari, acquisizioni da parte dei due grandi poli del lusso francesi, da gravi ristrutturazioni aziendali. Fra le poche imprese in buona salute spicca ancora l’impero fondato da Giorgio Armani, che ha optato per l’acquisizione di imprese manifatturiere licenziatarie del marchio: una strategia “in attacco” che può indicare una prospettiva nuovamente competitiva al sistema moda italiano, nella riscoperta e nella valorizzazione delle origini manifatturiere (Cfr: Muzzarelli, cap. XV).

12.1. Moda e contro moda

Moda e design

Le figlie del boom economico anni ‘60, le cosiddette babyboomers, indossavano la minigonna, portavano catene e bracciali di plastica colorata, grandi occhiali da sole e ostentavano una nuova libertà.

Accessori in plastica colorata molto vistosi e di forme originali erano in vendita nelle boutique, come le milanesi Cose (nata nel 1963 in via della Spiga), Fiorucci o Gulp, nuove come concezione e stile di esposizione (tutto era esposto e alla portata di tutti), che modificarono il modo di vestire dei giovani e anche l’aspetto delle vie cittadine. La moda dei capelli corti resisteva per le ragazze, mentre le chiome dei maschi si allungavano (i tanto chiacchierati «capelloni»). Negli anni ’70 le donne più emancipate affermeranno la libertà di prendere distanza dalla moda, portando anche nell’abbigliamento la loro contestazione sia al perbenismo delle madri, che al nuovo stile consumistico delle ragazze “alla moda”: comparvero ampie e lunghe gonne, zoccoli e abolizione di quei segni di femminilità contrita da obblighi fisici e morali, fino ai “roghi” del reggiseno dei movimenti  femministi, come a richiamare quelli delle streghe e segno che le correnti innescate dalle Bloomers un secolo prima alzavano costantemente la posta verso una liberazione del corpo mentale oltre che fisico.

 

Il rifiuto della moda esibito dai contestatori di ambo i sessi dagli ultimi anni Sessanta, si trasformò per molti in una nuova moda, cioè, il disprezzato “mercato” se ne appropriò rivendendo poi a caro prezzo quello scarno stile fatto di eskimi (giacche impermeabili con chiusura lampo e ampie tasche) e sciarpe rosse, pantaloni di velluto a coste e Clarks (scarponcini in pelle scamosciata e suola di gomma) divenuta la divisa dei giovani intellettuali che, “maturando”, arricchivano il repertorio con una giacca in tweed un po’ sformata secondo una “moda-non moda” destinata a durare: fu il trionfo del cosiddetto “casual”. Come i jeans (già in auge negli Stati Uniti dagli anni ’50), entrati nella moda Italiana negli anni ‘70 e divenuti sempre più protagonisti dei guardaroba di ogni sesso ed età, declinati in infinite rielaborazioni: ricamati, sfrangiati, tagliati, stinti, bucati … accompagnati dalle irrinunciabili T-shirt, magliette in cotone di forma essenziale (a T appunto), un capo fra i più indossati nel mondo. Le prime furono quelle proposte da Fiorucci con stampe e colori vivaci e da allora sulle T-shirt sono spesso comparse frasi celebri o volti illustri, mentre le polo, anch’esse spesso abbinate ai jeans, sono salite in auge (e con loro i relativi produttori, cavallini o coccodrilli che fossero!) soprattutto attraverso il logo, miglior veicolo di pubblicità gratuita. Oggi le T-shirt compaiono regolarmente, di giorno o di sera, incrostate di pietre, ricamate, rielaborate in mille maniere, con scritte che ricordano i tefilin ebraici o l’abito-poema dadaista, operando una vera rivoluzione nella moda novecentesca.

L’accostamento della T-shirt, indossata sotto la giacca (ovviamente destrutturata) è divenuta la personale, copiatissima, uniforme dello stilista Giorgio Armani, leader indiscusso e inossidabile del made in Italy, sempre all’insegna dello stile e dell’eleganza moderna senza barriere, fisiche o geografiche.

Bibliografia

Moda e design

Bibliografia

 

I criteri orientativi di questa selezione bibliografica cercano di rendere conto delle molteplici angolazioni disciplinari dei temi della Moda e del Design.
I testi sono elencati per grandi sezioni: dalle tematiche generali fino ai contributi monografici, selezionati in base a stili e epoche citate nelle schede.

 

La moda

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François Baudot, Chanel, Firenze, Octavo, 1997.
François Baudot, Poiret, Firenze, Octavo, 1997.
François Baudot, Elsa Schiaparelli, Firenze, Octavo, 1998.
François Baudot, Gruau, Firenze, Octavo, 1998
Gianluca Bauzano (a cura), Roberto Capucci. Vestire l’arte, Milano, Skira, 2006.

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Tessuti

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Donata Devoti, L’arte del tessuto in Europa, Milano, Bramante, 1993.

Florence Edler De Roover, Le sete lucchesi, Lucca, Pacini Fazzi, 1993.

Daniela Ferretti (a cura), Mariano Fortuny: la seta & il velluto. Mostra tenuta a Venezia, Museo Fortuny, 27 marzo-18 luglio 2010, catalogo a cura di Daniela Ferretti, Milano, Skira, 2010.

Michel Pastoureau, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati, Genova, Il Melangolo, 1991.

Carlo Poni, La seta in Italia: una grande industria, Bologna, il Mulino, 2009.

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Design e Arti Applicate

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Mario Praz, La filosofia dell’arredamento. I mutamenti nel gusto della decorazione interna attraverso i secoli dall'antica Roma ai nostri tempi, Milano, Longanesi & C., 1964.
Livia Semerari, La grammatica dell'ornamento. Arte e industria tra Otto e Novecento, Bari, Dedalo, 1993.

Nicola Squicciarino, Utilità e bellezza: formazione artistica ed arti applicate in Gottfried Semper, Roma, Armando, 2009.

Maria Cristina Tonelli Michail, Il design in Italia, 1925-1943. Roma-Bari, Laterza, 1987.

Matteo Vercelloni, Breve storia del design italiano, Roma, Carocci, 2008.

Carlo Vinti, Gli anni dello stile industriale, 1948-1965. Venezia, Marsilio, 2007.

Maurizio Vitta, Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica, 1851-2001, Torino, Einaudi, 2001.

 

 

Temi monografici di stili e designer

Il Liberty a Bologna e nell'Emilia Romagna: architettura, arti applicate e grafica, pittura e scultura, retrospettiva di Roberto Franzoni, Adolfo De Carolis e Leonardo Bistolfi, prima indagine sull'art-déco. [Mostra tenuta a Bologna], marzo-maggio 1977, Bologna, Grafis, 1977.

Sagsa. Il legame virtuoso. Giò Ponti, i committenti, i fornitori, Milano, Sagsa SpA, 2004.

Paola Antonelli, Steven Guarnaccia, Achille Castiglioni, Mantova, Corraini, 2003.

Archivi delle Arti Applicate Italiane del XX sec. (a cura), Il Modernismo a Roma 1900-1915 tra le riviste Novissima e La Casa. [Catalogo della Mostra tenuta a Roma nel 2007-2008], Roma, Palombi, 2007.
Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Torino, Einaudi, 1957.

Marino Barovier, Marco Mondi, Carla Sonego, Vittorio Zecchin 1878-947. Pittura, vetro, arti decorative, Venezia, Marsilio, 2002.

Fabio Benzi (a cura), Balla: la collezione Biagiotti Cigna: dipinti, moda futurista, arti applicate, Milano, Leonardo Arte, 1976.

Fabio Benzi (a cura), Il liberty in Italia, Milano, Federico Motta Editore, 2001.

Carla Bernardini, Doretta Davanzo Poli, Orsola Ghetti Baldi (a cura), Aemilia ars, 1898-1903. Arts & crafts a Bologna. Catalogo della Mostra, Bologna, Collezioni comunali d'arte, 9 marzo-6 maggio 2001, Milano, A+G, 2001.

Camillo Boito, Le scuole di architettura di belle arti e di arti industriali, «Nuova Antologia», CXI -XXVII (1890), pp. 41-51.
Rossana Bossaglia, Il Liberty in Italia, Milano, Charta, 1997.
Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci (a cura), Torino 1902: le arti decorative internazionali del nuovo secolo, Milano, Fabbri, 1994.
Joan Campbell, Il Werkbund tedesco: una politica di riforma nelle arti applicate e nell'architettura Venezia, Marsilio, 1987.
Capolavori del manifesto liberty: 1880-1918, catalogo della Mostra, Riccione, 16 luglio-21 agosto 1988, Milano, Arti Grafiche Ricordi, 1988.

Decio G. R. Carugati (a cura), Paolo Pininfarina, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2003.

Decio G. R. Carugati, Giorgetto Giugiaro, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2004.
Enrico Colle, Il mobile italiano dal Cinquecento all'Ottocento, Milano, Mondadori Electa, 2009.
Emma Dalla Libera, Giuseppe Maggiolini, catalogo online Artgate della Fondazione Cariplo, 2010.

Alessio De Cristofaro, Guido Balsamo Stella e la manifattura Cantagalli, 1920-1923, «Forme moderne», I, 1 (feb. 2009), pp. 76-79.
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Stefano Dirani (a cura), Francesco Nonni e le arti applicate, Faenza, Edit, 2010.

Don Marco Ceriani, Giuseppe Maggiolini, principe dell'intarsio, Milano, La Commerciale, 1965.

Alastair Duncan, Déco, Milano, Electa, 2009.

Laura Falconi, Giò Ponti. Interni, oggetti, disegni 1920-1976, Milano, Mondadori Electa, 2004.

Beppe Finessi, Vico Magistretti, Mantova, Corraini, 2003.

Beppe Finessi (a cura), Su Munari. 104 testimonianze più 152 inediti di Bruno Munari, Milano, Abitare Segesta, 1999.

Valeria Garuzzo, L' Esposizione del 1902 a Torino, Torino, Testo & immagine, 1999
Alvar González Palacios, Mobili d'arte. La storia del mobile dal '500 al '900, Milano, Fabbri, 1981.
Fulvio Irace, Giò Ponti. La casa all’italiana, Milano, Electa, 1988.

Le arti a Vienna: dalla secessione alla caduta dell'Impero asburgico. [Catalogo della Mostra tenuta a Venezia nel 1984], Venezia - Milano, La Biennale - Mazzotta, 1984.
Karl Mang, Storia del mobile moderno, Roma-Bari, Laterza, 1982 (ed. orig. 1978).

Piero Pacini, Giorgio Kienerk: tra simbolismo e liberty, Firenze, Cantini, 1989.

Piero Pacini, Galileo Chini: pittore e decoratore, Soncino, Edizioni dei Soncino, 2002.

Marco Romanelli, Gio Ponti. A World, Milano, Abitare Segesta, 2003.

Ettore Sessa, Ernesto Basile, Palermo, Flaccovio, 2010.

Maria Cristina Sirchia, Eugenio Rizzo, Il Liberty a Palermo, Palermo, Flaccovio, 2001.

Carlo Sisi (a cura), L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle, Milano, Electa, 2005-2007, 3 voll.

Franco Solmi, Marco Dezzi Bardeschi (a cura), Alfonso Rubbiani: i veri e i falsi storici. Catalogo della Mostra, Bologna, febbraio-marzo 1981, Casalecchio di Reno, Grafis, 1981, pp. 273-275.

Ettore Sottsass, Design Interview: Ettore Sottsass, Mantova, Corraini, 2008.

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Sitografia

 

Archivi della moda del Novecento: <http://moda.san.beniculturali.it/>

Trama e Ordito, il blog della moda: <http://trama-e-ordito.blogspot.it/>

Costume e musica nelle corti dell’età rinascimentale e barocca: <http://www.saladelcembalo.org/musicabito/>

Baroque.it: Moda dal 1550 al 1789 <http://www.baroque.it/abbigliamento-e-moda-nel-barocco/cronologia-della-moda-dal-periodo-barocco-al-rococo.html> ; Mobilia. Glossario di termini per i mobili antichi <http://www.baroque.it/mobili-e-arredi-del-periodo-barocco/mobilia-glossario-di-termini-per-i-mobili-antichi.html>

MIC. Moda Immagine Costumi: <http://users2.unimi.it/mic/>

Arte Liberty in Italia: <http://www.arteliberty.it/index.html>

Vogue Italia encyclo: <http://www.vogue.it/encyclo>

Associazione Italiana degli Storici del Design: <http://www.aisdesign.org/aisd/>