Consiste in alcune riflessioni in prima persona sull’origine della lingua italiana, intercalate da un immaginario colloquio dell’autore con Dante Alighieri. Quest’opera fu pubblicata solo nel 1730, in appendice a L’Ercolano di Benedetto Varchi[1]; prima di allora circolò in forma manoscritta fra gli studiosi impegnati sulla “questione della lingua”. Non è certo che il Discorso sia stato scritto in toto da Machiavelli; la parte sicuramente dovuta a lui costituirebbe una risposta alla tesi di Gian Giorgio Trissino[2] che, rifacendosi al De vulgari eloquentia di Dante, sostiene le origini interregionali della lingua italiana.
Giorgio Trissino, in visita a Firenze, aveva fatto conoscere agli studiosi il contenuto del De vulgari e negli Orti Oricellari erano nate discussioni sul problema della lingua. A differenza di Trissino, Machiavelli sostiene che la lingua da preferirsi è il fiorentino contemporaneo, una lingua priva di artifici, tutta natura, superiore a tutte le altre; il fiorentino, infatti, ha dato vita a personaggi straordinari come Dante, Petrarca e Boccaccio, che hanno determinato la superiorità indiscussa della lingua da loro usata.
[1] Benedetto Varchi (1503-1565), umanista, scrittore e storico, è autore di Ercolano, un dialogo fra lo stesso Varchi e il conte Ercolano sulla natura del volgare toscano. Ercolano è il primo libro di linguistica che non sia stato scritto in latino.
[2] Gian Giorgio Trissino (1478-1550), poeta e autore di tragedie, si interessò di linguistica e architettura e tradusse il De vulgari eloquentia di Dante