7.2. Il Grand Tour

Moda e design
Johan Zoffany, "La Tribuna degli Uffizi", 1772-1778, Royal Collection

“Non esiste sicuramente altro luogo al mondo in cui un uomo possa viaggiare con maggior piacere e beneficio dell’Italia. Ciascuno trova nel paese qualcosa di più particolare e più sorprendente nella natura di quanto possa essere trovato in qualsiasi altra parte d’Europa. È la grande scuola della musica e della pittura, e in essa vi sono tutte le più nobili opere di scultura e di architettura, sia antiche che moderne … Non v’è quasi luogo del paese che non sia famoso nella storia, né vi è un monte o un fiume che non sia stato la scena di qualche straordinaria battaglia” (Joseph Addison, 1745).

 

I viaggi di formazione sono sempre stata un’abitudine encomiabile e insostituibile per tutti i cultori delle arti, a partire dall’arte della vita. Il Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa continentale effettuato dai ricchi giovani dell’aristocrazia europea a partire dal XVII secolo e a definirlo così fu appunto Richard Lassels nella guida Voyage of Italy del 1670. Una pratica cresciuta proporzionalmente con l’evolversi della società civile e il diffondersi del benessere economico e destinato a divenire una vera e propria moda, con tempi, itinerari, canoni di abbigliamento e comportamento codificati nel tempo. Ma il Grand tour non ci interessa tanto per l’aspetto di promozione sociale, quanto per l’importanza che ha avuto nella circolazione delle arti, le antiche come le nuove, per il formarsi di un dibattito sia storico-filosofico che estetico ed hanno avuto un ruolo determinante nell’evoluzione degli stili e delle tecniche.

 

Senza scordare i romantici e solari paesaggi, così benefici alla salute del corpo prima ancora che dello spirito, la predilezione per l'Italia come meta ideale proveniva dalla vena classicista insita già nell’arte del Rinascimento, da Brunelleschi e Donatello fino a Palladio e oltre: lo studio delle rovine di Roma surrogava anche quelle più disagevoli della stessa Grecia. Primi gli stessi francesi, fondatori dal 1666 del fondamentale Prix de Rome, poi tedeschi e inglesi “ideatori” del Neoclassicimo come Winckelmann e Gavin Hamilton che dopo gli straordinari ritrovamenti di Pompei e Ercolano spostarono l’asse verso Napoli, finché l’Ottocento non rimise in gioco anche il “secolo buio” dando avvio alla grande stagione dei revival.

 

L’utilità di tale ricerca non si basava solo sul lato stilistico della forma, ma anche su quello tecnico e artigianale, che in una linea ininterrotta univa i saperi di Roma antica e le botteghe medievali, quelle rinascimentali a quelle contemporanee. Ma non fu solo una questione fra artisti, poiché a tutto questo si connetteva un mercato di scambio di oggetti e “commesse”: dalla moda dei ritratti, che i “turisti” affidavano ai pittori in relazione alle risorse, dal successivo affermarsi del mercato antiquario e la richiesta continua di manufatti artigianali per adornare le abitazioni in patria e in loco. Vere e proprie comunità si sono formate nelle varie città, interagendo in vario modo con la cultura locale, incidendo sul tenore economico quanto su quello estetico e sul paesaggio: basta pensare al ruolo di tali comunità a Firenze dal periodo romantico fino al XX secolo, a luoghi neomedievali come il museo Stibbert e il castello di Vincigliata, o quello del vicino borgo di Montegufoni che Sir George Sitwell nel 1922 arricchisce con la decorazione dell’(ex) futurista Gino Severini.