Uomini e no: il bene e il male in ciascuno di noi

    Letteratura e teatro

    Il 7 giugno 1947, due anni dopo la pubblicazione del romanzo Uomini e no Vittorini invia una lettera al suo traduttore francese, Michel Arnaud, con una nota in cui spiega il significato volutamente ambiguo del titolo italiano che la traduzione francese ha deformato in Les hommes et les autres (Gli uomini e gli altri). Questa la nota allegata alla lettera:

     

    Il titolo italiano di questo romanzo Uomini e no significa esattamente che noi, gli uomini, possiamo anche essere «non uomini ».Mira cioè a ricordare che vi sono, nell'uomo, molte possibilità inumane. Ma non divide l'umanità in due parti: una delle quali sia tutta umana e l'altra tutta inumana. Il titolo francese Les hommes et les autres opera invece tale divisione, e disturba lo stesso contenuto del libro.[1]

     

    Per Vittorini gli esseri umani sono portatori di nobili valori, di coerenza e di verità, ma in ognuno loro è presente, con il bene (l'essere uomini), anche il male (perdere la propria umanità). Riconoscere il nostro lato oscuro, capire chi siamo veramente e che cosa ci accomuna agli altri è un passo importante per costruire una società nuova e più giusta; e la letteratura (la cultura) può svolgere in questo un ruolo utile significativo. La Resistenza, secondo Vittorini, nella sua drammatica complessità, offre una grande occasione per imparare a essere uomini.

     

    I partigiani dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica) sono l'uomo, le persone offese, che si rifiutano di soccombere al dolore e alla disperazione. Ma anche Hitler e i nazisti sono persone: nell'uomo c'è il bene e c'è il male, ed è sempre l'uomo che offende se stesso e il mondo. E quindi solo dall'uomo possono venire il riscatto e la salvezza per tutta l'umanità. I due episodi del romanzo che proponiamo sono un emblema della grandezza – il primo – e della barbarieil secondo  che possono annidarsi nell’animo delle persone.

     

    Primo episodio - In largo Augusto, una delle vie centrali di Milano, una folla silenziosa sta rendendo omaggio alle vittime di una rappresaglia fascista, seguita a un attentato alla sede del tribunale compiuto dai partigiani comandati da Enne 2. Berta, che sta cercando il suo compagno, si trova ad assistere alla scena. La donna piange, ma un vecchio la conforta e le dice di non disperarsi per quei morti. (cap. LXVII)

     

    «Non bisogna» il vecchio disse «piangere per loro.»
    «No?» disse Berta.
    «Non bisogna piangere per nessuna delle cose che oggi accadono.»
    «Non bisogna piangere?»
    «Se piangiamo accettiamo. Non bisogna accettare.» «Gli uomini sono uccisi, e non bisogna piangere?» «Se li piangiamo li perdiamo. Non bisogna perderli!»
    «E non bisogna piangere?»
    «Certo che no! Che facciamo se piangiamo? Rendiamo inutile ogni cosa.»
    Era questo piangere?
    Rendere inutile ogni cosa ch'era stata?
    Il vecchio lo diceva, e Berta poteva anche crederlo. Forse era questo. Ma non poteva non piangere, e stava pur sempre col capo chino, si bagnava di lagrime il grembo.
    «Non bisogna» disse il vecchio. «Non bisogna.»
    «Sì» disse Berta. «Non bisogna.»
    «Vedi che non bisogna? Smetti.»
    «Ma io non piango per loro.»
    «Non piangi per loro?»
    «Non su di loro.»
    «No?» disse il vecchio.
    Berta non piangeva sopra i morti, per il sangue loro. Ora lo sapeva. Le veniva da loro, ma non era pietà per loro. Era pietà, o forse disperazione, su sé stessa; ma dinanzi a loro era un'altra cosa. Che cosa?
    Disse al vecchio: «No. Non piango su di loro».
    Aveva rialzato il capo, il pianto si asciugava sulla sua faccia, e rivide nel vecchio gli occhi azzurri.
    Glieli guardò. «Ma che dobbiamo fare?» gli chiese.

    «Oh!» il vecchio rispose. «Dobbiamo imparare.»
    «Imparare che cosa?» disse Berta. «Cos'è che insegnano?
    »
    «Quello per cui» il vecchio disse «sono morti.»

     

    Secondo episodio - Giulaj, un ragazzo di ventisette anni, venditore ambulante, per difendersi ha ucciso la feroce cagna di un ufficiale nazista. Dopo aver giocato con lui come il gatto col topo, l'ufficiale lo fa sbranare dal suo cane Gudrun sotto gli occhi indifferenti dei militi fascisti. (cap. CII)

     

    Come in Conversazioni in Sicilia, anche in  Uomini e no le battute e i dialoghi sono scarni e la narrazione oggettiva, su modello degli scrittori americani.

     

    Il capitano aveva strappato a Gudrun la pantofola, e la mise sulla testa dell'uomo.
    «Zu! Zu!» disse a Gudrun.
    Gudrun si gettò sull'uomo, ma la pantofola cadde, l'uomo gridò, e Gudrun riprese in bocca, ringhiando, la pantofola.
    «Oh!» risero i militi.
    Risero tutti, e quello dal grande cappello disse: «Non sentono il sangue». Parlò al capitano più da vicino. «No?» gli disse.
    Gli stracci, allora, furono portati via dai ragazzi biondi per un ordine del capitano, e quello dal grande cappello agitò nel buio il suo scudiscio, lo fece due o tre volte fischiare.
    «Fscí», fischiò lo scudiscio.
    Fischiò sull'uomo nudo, sulle sue braccia intrecciate intorno al capo e tutto lui che si abbassava, poi colpì dentro a lui.
    L'uomo nudo si tolse le braccia dal capo.
    Era caduto e guardava. Guardò chi lo colpiva, sangue gli scorreva sulla faccia, e la cagna Gudrun sentì il sangue.
    «Fange ihn! Beisse ihn!» [2] disse il capitano.
    Gudrun addentò l'uomo, strappando dalla spalla.
    «An die Gurgel» [3], disse il capitano.

     

    Entra poi scena l’autore: la sua riflessione su quei fatti drammatici, scritta in corsivo, è fatta di domande appassionate e incalzanti che vogliono scardinare certezze e facili  risposte:

     

    Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo anche è l'uomo. Il Gap anche? Perdio se lo è! [...] Qualunque cosa lo è anche, che venga su dal mondo offeso e combatta per l'uomo. Anch'essa è l'uomo.

    Ma l'offesa in sé stessa. È altro dall'uomo? È fuori dall'uomo?

    Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos'è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos'è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell'uomo? Che non appartenga all'uomo? (cap. CIV)

     



    [1] Gli anni del Politecnico. Lettere 1941-1951, a cura di Carlo Minoia, Torino, Einaudi, 1977

    [2]Mordilo!

    [3]Alla gola

     

     

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