La lingua della Commedia

Letteratura e teatro

Varietà ed economicità
La lingua che Dante usa nella Commedia è nuova ed estremamente varia. Non è il volgare illustre di cui si parla nel De vulgari eloquentia, ma ha alla base il dialetto fiorentino, accolto in tutti i suoi aspetti, quello letterario e quello della vita quotidiana, con termini popolari, gergali e osceni (“pappo”= pane; “dindi”= denari; mezzule, lulla = parti della botte; striglia = arnese usato per pulire i cavalli; groppone = schiena; raffi = bastoni uncinati; andonno = andarono).


Dante utilizza anche voci dialettali provenienti da altri luoghi della Toscana e da altre regioni d’Italia, dal Nord (brolo = orto, burlare = cadere) al Sud (sorpriso = sorpreso; vurrìa = vorrei); e adopera moltissime parole provenienti dal latino (pande = manifesta; prande = nutre; assolto = compiuto; ignoto = infuocato, splendente; cive = cittadino), dal francese e dal provenzale (miraglio = miracolo; vengiare = vendicare; giuggiare = giudicare); si serve di “allotropi”, cioè utilizza modi diversi per scrivere la stessa parola (mangiare/manducare/manicare; imagine/imago/image; speranza/speme/spene).


E quando le parole e le espressioni esistenti non bastano, il poeta Dante ne crea delle nuove (insemprarsi = durare sempre; indracarsi = inferocirsi come un drago; inzaffirarsi = adornarsi con zaffiri; inmiarsi, inluiarsi = penetrare in me, in lui; adimare = scendere; dilibrarsi = uscire dall’equilibrio; disvicinare = allontanare; adduarsi = accoppiarsi; aggueffarsi = raggrupparsi; biscazzare = giocare; luttare = piangere; oltracotato = tracotante; sitire = aver sete...).


Il linguaggio della Commedia, oltre alla ricchezza, presenta anche un’altra caratteristica, apparentemente in contrasto: l’economicità. Dante usa una sola parola o poche parole per dire molte cose, sfruttando fino in fondo l’aspetto polisemico, la molteplicità dei significati che le parole portano con sé: una sola frase descrive la scena del suicidio di Jacopo da Sant’Andrea, fiorentino, che si impicca nella sua casa dopo aver dilapidato tutti i suoi beni («Io fei gibetto a me de le mie case» - Inferno XIII, v. 151); tre versi racchiudono la vicenda terrena di Pia de’ Tolomei («Siena mi fé, disfecemi Maremma: / salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma» - Purgatorio V, vv. 135-137); poche immagini sintetizzano il principio del libero arbitrio («A maggior forza e a miglior natura/liberi soggiacete» - Purgatorio XVI, vv.79-80) e l’idea di Dio come primo motore dell’universo («La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende/in una parte più e meno altrove» - Paradiso I, vv. 1-3).


Dante usa anche tutti gli stili: passa dal tono comico a quello grottesco a quello lirico a quello drammatico e si serve delle similitudini, nelle quali è un vero maestro (ce ne sono 165 nell’Inferno, 183 nel Purgatorio, 223 nel Paradiso) insieme ad altre numerose figure retoriche.


Alcuni famosi esempi: l’allegoria iniziale («Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura /ché la diritta via era smarrita» – Inferno I, vv. 1-3), le similitudini per descrivere la passione amorosa («come fa mar per tempesta», «E come li stornei ne portan l’ali», «E come i gru van cantando lor lai», «Quali colombe, dal disìo chiamate» – Inferno V, v. 29, v. 40, v. 46, v. 82), una metafora per riassumere le possibilità di riscatto offerte dalla vita terrena («mentre che la speranza ha fior del verde» – Purgatorio III, v. 135); la perifrasi per definire Dio («colui che tutto move» – Paradiso, I, v. 1).


Nella lingua italiana dei nostri tempi sono presenti espressioni che provengono dalla Commedia di Dante. Le troviamo nelle pagine dei giornali, le ascoltiamo in televisione, le usiamo noi stessi nel quotidiano, senza sapere da dove provengono. Eccone alcune: il bel paese là dove il sì suona (spesso si usa solo il bel paese); con l’animo si vince ogni battaglia; scegliere fior da fiore; tremar per ogni vena; il fiero pasto; alti guai; gli dei falsi e bugiardi; la compagnia malvagia e scempia; non mi tange; n’hai ben donde; maestro e donno; disiato riso; natio loco; far tremar le vene e i polsi; morta gora; uomini al mal più ch’al ben usi.


A volte il significato originario di alcune espressioni viene travisato. Ad esempio: perdere il ben dell’intelletto per Dante significava ‘perdere Dio, la fede’, mentre oggi significa ‘pensare e comportarsi in modo sbagliato’.


Una frase misteriosa
Nel quarto cerchio dell’Inferno (canto VII), dove vengono puniti gli avari e i prodighi, Pluto, la mostruosa creatura che fa’ da guardiano, accoglie Dante e Virgilio con queste strane parole: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!».


Le ipotesi sull’origine e il significato della frase sono molte.


Secondo alcuni critici è stata inventata da Dante, secondo altri invece è formata con parole che hanno una etimologia riconoscibile, come la parola Satàn, ripetuta due volte, e Pape (o papè), che potrebbe derivare dal latino papae, o dal greco παπαί (papaí), un’espressione di stupore o di rabbia che troviamo negli autori antichi. Aleppe potrebbe provenire da alef, la “A” dell’alfabeto ebraico (alep in fenicio, alfa in greco) che significa anche ‘numero uno’, ‘il principio che contiene il tutto’, un attributo della maestà di Dio. La frase sarebbe un miscuglio di latino (papae, genitivo di papa), greco (satan, col significato di ‘avversario’) ed ebraico (aleph o alef prima lettera dell'alfabeto ebraico) e significherebbe ‘Primo nemico del papa’.


Abbūd Abū Rāshid, primo traduttore arabo della Divina Commedia (Tripoli, 1930-1933), interpretò questi versi come la traslazione fonetica di una parlata araba, e li tradusse come Bāb al-shaytān. Bāb al-shaytān. Ahlibu (“La porta di Satana. La porta di Satana. Proseguite nella discesa”). Secondo alcuni studiosi islamici, Dante avrebbe tratto alcune ispirazioni da fonti. Egli infatti, anche se condanna Maometto all’Inferno, non disprezza il mondo arabo e pone ben tre musulmani tra gli Spiriti magni del Limbo: Saladino, Avicenna e Averroè. È vero che Dante non conosceva la lingua araba, ma si è fatta l’ipotesi che Brunetto Latini, suo amico, lo avesse avvicinato a questa cultura con cui era entrato in contatto durante gli anni vissuti nelle Asturie.


Alcuni critici infine, interpretano le parole come traslitterazioni dal francese: “Pas paix Satan, pas paix Satan, à l’épée” (“Niente pace Satana, niente pace Satana, alla spada”); “Paix, paix, Satan, paix, paix, Satan, allez, paix” (“Pace, pace, Satana, pace, pace, Satana, andiamo, pace”); “Pape Satan allez en paix” (“Papa Satana andate in pace”). Una di queste traslitterazioni è proposta anche da Benvenuto Cellini nella sua Vita (1558-1562), dove dichiara di aver sentito dire quella frase (“Phe phe Satan phe phe Satan alè phe”) durante una lite a Parigi e che traduce come: “Sta’ cheto, sta’ cheto, Satanasso, levati di costí, e sta’ cheto!” (2, XXVII).

 

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