Liguria: testi

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    Da Edmondo De Amicis, L’idioma gentile (Milano, Treves, 2a ed. p. 57)

     

    E tu, ben garzonetto genovese, non ti dar aria d’impeccabile, se dunque sciorino anche a te una bella lista di dialettismi comici che raccolsi a casa tua… e a casa mia. Se dunque per ‘se no’ è uno dei più preziosi, non lo puoi negare. Non me ne capisco per ‘non me n’intendo’ non è men peregrino. Scorrere per ‘rincorrere’ o ‘inseguire’ è un’altra bella perla. E uomo di sua obbligazione per ‘uomo che sa il fatto suo’ è un po’ bello come niente? Certo, tu non dirai mai mugugnare, frusciare, frugattare, camallare, dar recatto alla casa, in luogo di ‘brontolare, infastidire, frugacchiare, portar sulle spalle, mettere in ordine’, come da non pochi concittadini tuoi intesi dire. Ma sii sincero: non t’è mai scappato angoscia per ‘nausea’ e angoscioso per ‘molesto’ e inversare per ‘rovesciare’? Non ti scappa proprio mai bugatta per ‘pupattola’, rango per ‘zoppo’, marsina per ‘giubba’? Pensaci un po’, figgio cao.

     

    Da Eugenio Montale, Ossi di seppia (in Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano Mondadori, 1984, p. 48).

     

    Arremba su la strinata proda

    le navi di cartone, e dormi,

    fanciulletto padrone: che non oda

    tu i malevoli spiriti che veleggiano a stormi.

     

    Nel chiuso dell’ortino svolacchia il gufo

    E i fumacchi dei tetti sono pesi.

    L’attimo che rovina l’opera lenta di mesi

    Giunge: ora incrina il segreto, ora diverge in un buffo.

     

    Viene lo spacco; forse senza strepito.

    Chi ha edificato sente la sua condanna.

    È l’ora che si salva solo la barca in panna.

    Amarra la tua flotta tra le siepi.

     

    Da Italo Calvino, I fratelli Bagnasco, in Ultimo viene il corvo (Milano, Mondadori, 1994, p. 78, prima ed. Einaudi, 1949)

    Mio fratello racconta di tutto quello che rubano i manenti, dei raccolti che vanno a male, delle capre altrui che pascolano nei nostri prati, del nostro bosco dove va a far legna tutta la vallata. E io vado tirando fuori dagli stipi giubbe, gambali, gilecchi con tasche lunghe torno torno per metterci le cartucce e mi tolgo i vesti gualciti della città e mi guardo negli specchi tutto bardato di cuoio e di fustagno.

     

    Da Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue (Torino, Einaudi, 1983, p. 24)

    Lo scosse un frastuono di motociclette e poco dopo entrarono dei tipi bizzarri. Volevano pare tremendi. Erano semirapati con spilloni agli orecchi e petti nudi. Appartenevano alla nuova moda della brutalità. Si atteggiavano a creature infernali. Ma siccome non c’erano spettatori, con la stessa rapidità con la quale erano entrati se ne andarono.

    - E quelli?

    Più mi segno, più lampa.

     

    Da Maurizio Maggiani, Màuri Màuri (Milano, Feltrinelli, 1996, p. 77, prima ed. Roma, Editori Riuniti, 1989)

    Come un panino con la mortadella, che era un lampo fatto del negozio della Fernà con all’ingresso l’odore miscelato di crusca, lavanda e stoccafisso in bagno, le vetrinette delle paste, le arbanelle delle mentine, lei che prende dalla cassa del pane un filonetto lucido, lo taglia nel mezzo (odore fioco della midolla ancora tiepida), monta sulla macchina la mortadella (regina Gigante), preme il calcatoio e dà il colpo di manovella flusssc.

     

    Da Nico Orengo, Il salto dell’acciuga (Torino, Einaudi, 1997)

    Durante la calata dei tremagli, se il mare era calmo, con l’Ernesto ai remi, il Giga alle reti, il Rebissu in piedi sul banco a stenderle in acqua, sfilavano fra Grimaldi e Ventimiglia la terra dell’ultimo Ponente. Rebissu guardava la costa e entrava in litania: - Di fichi Pissalutto qualcuno si vede ancora, di Porcasso pochi, di Berorfo nessuno e meno male che fan schifo, ma l’Arbicone potevano tenerlo e così il Turco o il Merlenco o il Carabroncin.

     

    Da Paolo Bertolani, Racconto della contea di Levante (Milano, Edizioni Il Formichiere, 1979)

    Fece un gran freddo e venne quella neve che abbatté mezzo monte di olivi: ricordo che dalle finestre aperte, a guardare la gran nevada, per tutta la notte ci fu il paese intero.

     

    Da Beatrice Solinas Donghi, Il fantasma del villino (Torino, Einaudi, 1992)

    Innervosita, saltai subito al ritorno. Allora, com’è come non è, tornò a galla, da quel fondo buio della mente dove l’avevo dimenticata addormentandomi, la figuretta chiara, eppure confusa perché non avevo saputo riconoscerla, intravista dietro il villino della signorina Rebaudi.

     

    Da Andrea Camilleri, La mossa del cavallo (Milano, Rizzoli, 1999)

    Tutti e due erano intenti a lavori di scavo e asporto. Quello seduto dietro lo scagno aveva l’indice della mano destra dentro il naso; l’altro, che stava a cavalcioni di una sedia, si puliva i denti con l’unghia del mignolo che teneva lunghissima. L’impressione che Giovanni ebbe del delegato fu che si trattava di un uomo ordinario il quale faceva di tutto per sembrarlo di più: trasandato, la giacca macchiata non si sa di che, le braghe sbottonate.

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