"L'ultimo canto di Saffo"

    Letteratura e teatro

    Composta nel 1822 a Recanati in soli sette giorni, la canzone ha come protagonista la poetessa greca Saffo, vissuta fra il VII e il VI secolo avanti Cristo. Secondo la leggenda[1] Saffo, brutta e deforme, si suicida perché il bellissimo Faone non ricambia il suo amore. Leopardi riprende questa antica storia e dà voce alla poetessa che, di notte, alla tenue luce della luna (verecondo raggio) si chiede perché l’empia sorte e la natura superba l’abbiano condannata a non far parte dell’infinita beltà che la circonda. A lei, che ha desiderato invano e con tutte le sue forze (implacato desio) l’amore, la felicità e la gloria (sperate palme) non resta che la morte (il Tartaro m’avanza): il suo nobile spirito (prode ingegno) apparterrà per sempre alla dea Proserpina (tenaria Diva), regina dell'Oltretomba, dove scorre silenzioso il fiume Averno (silente riva). Questo tragico destino è comune all’umanità: nei versi Saffo fa riferimento a se stessa (a me non ride, me non saluta) ma si identifica anche con tutti i viventi (nostro dolor, nascemmo al pianto). La canzone, composta a breve distanza da Alla primavera o delle favole antiche, segna una tappa importante nell’evoluzione del pensiero di Leopardi dal pessimismo storico al pessimismo cosmico.

     

     

    Placida notte, e verecondo raggio
    Della cadente luna; e tu che spunti
    Fra la tacita selva in su la rupe,
    Nunzio del giorno; oh dilettose e care

    mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,

    Sembianze agli occhi miei; già non arride
    Spettacol molle ai disperati affetti.
    Noi l’insueto allor gaudio ravviva
    Quando per l’etra liquido si volve
    E per li campi trepidanti il flutto
    Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
    Grave carro di Giove a noi sul capo,
    Tonando, il tenebroso aere divide.
    Noi per le balze e le profonde valli
    Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
    Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
    Fiume alla dubbia sponda
    Il suono e la vittrice ira dell’onda.


     

    Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
    Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
    Infinita beltà parte nessuna
    Alla misera Saffo i numi e l’empia
    Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
    Vile, o natura, e grave ospite addetta,
    E dispregiata amante, alle vezzose
    Tue forme il core e le pupille invano
    Supplichevole intendo. A me non ride
    L’aprico margo, e dall’eterea porta
    Il mattutino albor; me non il canto
    De’ colorati augelli, e non de’ faggi
    Il murmure saluta: e dove all’ombra
    Degl’inchinati salici dispiega
    Candido rivo il puro seno, al mio
    Lubrico piè le flessuose linfe
    Disdegnando sottragge,
    E preme in fuga l’odorate spiagge.


     

    Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
    Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
    Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
    In che peccai bambina, allor che ignara
    Di misfatto è la vita, onde poi scemo
    Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
    Dell’indomita Parca si volvesse
    Il ferrigno mio stame? Incaute voci
    Spande il tuo labbro: i destinati eventi
    Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
    Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
    Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
    De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
    De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
    Alle amene sembianze eterno regno
    Diè nelle genti; e per virili imprese,
    Per dotta lira o canto,
    Virtù non luce in disadorno ammanto.

     

     

    Morremo. Il velo indegno a terra sparto
    Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
    E il crudo fallo emenderà del cieco
    Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
    Amore indarno, e lunga fede, e vano
    D’implacato desio furor mi strinse,
    Vivi felice, se felice in terra
    Visse nato mortal. Me non asperse
    Del soave licor del doglio avaro
    Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
    Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
    Giorno di nostra età primo s’invola.
    Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
    Della gelida morte. Ecco di tante
    Sperate palme e dilettosi errori,
    Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
    Han la tenaria Diva,
    E l’atra notte, e la silente riva.



    [1]La leggenda è tramandata da Ovidio nelle Eroidi (XV)

     

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