"Gog e Magog"

Letteratura e teatro

Nei Poemi conviviali Pascoli ripropone il mito di Gog e Magog, di cui si hanno tracce confuse nella Bibbia, nel Corano e nell'Apocalisse. A seconda delle fonti, Gog e Magog vengono identificati con popolazioni selvagge dell'Asia centrale (Sciti, Goti, Mongoli, Tartari, Ungari, Khazari), con esseri soprannaturali (giganti o demoni), con uomini che hanno dato origine a intere nazioni; nelle leggende del tardo medioevo sono due giganti nipoti dell'imperatore Diocleziano che vivono in Britannia.

 

La storia di Gog e Magog si intreccia anche con una delle tante leggende nate intorno alle imprese di Alessandro Magno, un altro personaggio raccontato nei Poemi: per sbarrare il passo alle feroci popolazioni di Gog e Magog che si nutrivano di carne umana, il re macedone avrebbe fatto costruire una porta di bronzo destinata a rimanere in piedi fino alla fine del mondo. Secondo un'altra versione, Alessandro aveva chiuso fra le montagne di Gog e Magog (dette monti di Belgen) una tribù ebraica molto violenta e aveva trovato il modo di far uscire dalla terra un suono che riproduceva le trombe dell'esercito: la tribù, credendo che i soldati di Alessandro fossero nelle vicinanze, non avevano mai tentato la fuga. Nel XII secolo, all'epoca delle invasioni dei Mongoli, questi popoli dell'Asia vengono identificati (anche per una certa assonanza nel nome) con le orde sanguinarie di Gog e Magog, sfuggite alle barriere poste da Alessandro e venute a distruggere l'intera umanità.

 

Pascoli attinge da tutte queste leggende e compone un poemetto dalle tinte fosche e apocalittiche, nel quale, fra le steppe che il sole al tramonto tinge di rosso, echeggiano grida di uomini, ululati del vento, scalpitare di zoccoli, lugubri canti di uccelli. Gog e Magog hanno scoperto l'inganno: è il vento a far suonare le trombe, l'esercito macedone non esiste! Così, senza più barriere, un'orda selvaggia si lancia alla conquista di nuove e fertili terre; i nomi dei popoli che la compongono sono sinistri e inquietanti come formule di una nefasta magia. I barbari stanno arrivando, la fine del nostro mondo è vicina:

 

 [...] Prese due penne il vecchio nano, e stette

 sopra una roccia ed agitò le penne,

e chiamò l'Orda, che attendeva: « A me,

 

Gog e Magog! A me, Tartari! O gente

di Mong, Mosach, Thubal, Aneg, Ageg,

Assam, Pothim, Cephar, Alan, a me! »

 A Rum fuggì Zul-Karnein, le ferree

trombe lasciando qui su le Mammelle

tonde del Nord. Gog e Magog, a me! »

 

Gianfranco Contini nel saggio Il linguaggio di Pascoli cita questo poemetto come esempio dell'uso dei nomi propri per creare una lingua nuova, sonora, evocativa e preziosa.

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