Giornata VI, novella 4: Chichibio e la gru

Nella novella raccontata da Neifile, il cuoco Chichibio[1], uno strano fanfarone (nuovo bergolo), sotto la spinta della paura riesce a tirarsi fuori dai guai con una risposta geniale.

Chichibio è il cuoco veneziano di Corrado Gianfigliazzi[2], un notabile cittadino, liberale e magnifico che si diletta nella caccia con cani, falconi e sparvieri. Un giorno, a Peretola, vicino Firenze, Corrado uccide una bella e grassa gru e la fa portare al suo cuoco perché l’arrostisca e gliela serva per cena.  Ma il grandissimo odor dell’arrosto attira Brunetta, una feminetta della contrada di cui il Chichibio è forte innamorato.

La ragazza chiede al cuoco di dargli da mangiare una coscia della gru e dopo molte insistenze lo convince. A sera, quando Corrado, seduto in mezzo ai suoi ospiti, vede la gru così malridotta, manda a chiamare Chichibio e gli chiede spiegazioni.  Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba, risponde il cuoco. Corrado si arrabbia ma, per rispetto agli ospiti, non insiste, ma minaccia Chichibio: se l’indomani non riuscirà a dimostrare che le gru hanno una sola gamba, la pagherà veramente cara! Il giorno dopo Corrado, ancora gonfio d’ira (tutto ancor gonfiato) ordina a Chichibio di salire su un ronzino e lo conduce al fiume dove al mattino spesso si potevano trovare delle gru. Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io, gli dice minaccioso. Chichibio è in preda al terrore: tutto quello che vede gli sembra che gru fossero che stessero in due piè



[1] Chichibio è un soprannome che deriva da cicibio, in lingua veneta fringuello; ne riproduce il canto e sottolinea il carattere frivolo del personaggio.

[2] Vittore Branca, nella edizione del Decameron da lui curata (Einaudi, 1992), identifica Currado Gianfigliazzi con Vanni di Cafaggio Gianfigliazzi, vissuto tra la fine del 1200 e la prima metà del 1300, appartenente alla celebre famiglia di banchieri fiorentini. Dante li ricorda nella Commedia, dove colloca uno dei suoi membri fra gli usurai (Inferno, XVII, vv. 58-60).

 

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