"Gerusalemme liberata": Erminia e Tancredi

Letteratura e teatro

Erminia, figlia di Cassano re di Antiochia, ha perduto il padre durante la conquista della città da parte dei crociati ed è stata consegnata a Tancredi come preda di guerra. Tancredi, cavaliere di bell’aspetto (leggiadri sembianti) e d’animo nobile (umano,cavaliere egregio), rispetta la prigioniera, la protegge e infine le dona la libertà. Ma Erminia si è ormai innamorata perdutamente di lui (restò presa d’Amor, che mai non strinse/laccio di quel piú fermo onde lei cinse) e a malincuore lascia il campo nemico insieme alla madre per recarsi a Gerusalemme. Di lì a poco la madre muore ed Erminia continua a struggersi d’amore per Tancredi, finché un giorno i crociati giungono a Gerusalemme e la assediano.

 

Tutta la popolazione è sconvolta (sbigottir), solo Erminia, lieta, vede i nemici avvicinarsi e con avidi sguardi cerca fra di loro il suo amato Tancredi. Finalmente lo riconosce ("Eccolo" disse) e da quel momento passa le sue giornate sull’antica torre di Gerusalemme, seguendo gli scontri e sospirando in segreto per la sorte del suo amato (Talor secrete lagrime e talora/ sono occulti da lei gemiti sparsi). Un giorno assiste allo scontro fra Argante e Tancredi; quando il cavaliere cristiano viene ferito, Erminia sente il sangue suo di ghiaccio farsi. Di notte ha un incubo: vede l’amato cavaliero lacero e sanguinoso, che le chiede aiuto. Erminia ha imparato dalla madre la virtù de l’erbe e si tormenta: vorrebbe curare il suo caro signor, mentre invece deve aiutare chi l’ha ferito; pensa di avvelenare Argante ma la sua coscienza glielo impedisce (ma schiva poi  la man vergine e pia /trattar l’arti maligne, e se n’astiene); vorrebbe fuggire dalla città e recarsi nel campo nemico, ma la sua dignità di principessa pagana e di donna glielo vieta. Così fan dubbia contesa entro al suo core/duo potenti nemici, Onore e Amore.

 

Alla fine vince l’Amore, e la speranza di una futura, somma felicitate come sposa onorata di Tancredi là ne la bella Italia, ov’è la sede/ del valor vero e de la vera fede. Ma come può convincere le guardie a lasciarla uscire dalla città? Alla fine Amor le suggerisce un inganno innocente (innocenti frodi): indossare le armi di Clorinda, sua cara amica, e così travestita presentarsi ai custodi delle porte, che di certo non le impediranno di uscire. Così Erminia si toglie la pomposa vesta di principessa e indossa l’armatura di Clorinda: con il durissimo acciar preme ed offende/il delicato collo e l’aurea chioma, e la tenera man lo scudo prende,/ pur troppo grave e insopportabil soma./ Così tutta di ferro intorno splende,/ Poi, insieme al fedel scudiero e a una leal diletta ancella, giunge alle porte; le guardie cadono nell’inganno e li lasciano passare.

 

Di lì a poco Erminia è nel campo cristiano: ai suoi occhi innamorati le tende nemiche appaiono un porto sicuro e accogliente (O belle a gli occhi miei tende latine!). Ma mentre impaziente aspetta che lo scudiero scopra dov’è Tancredi e la conduca da lui, un raggio di luna colpisce (dritto fiede) l’armatura con la gran tigre ne l’argento impressa, segno distintivo di Clorinda. Il giovane Poliferno, a cui Clorinda ha ucciso il padre, vede brillare l’insegna e si lancia contro Erminia, credendo che sia la guerriera pagana. La fanciulla balza a cavallo e fugge, inseguita da Poliferno e anche da Tancredi, che spera così di incontrare finalmente l’amata Clorinda. (Canto VI)

 

Erminia, in fuga dal campo cristiano, vaga per tutta la notte e per tutto il giorno senza consiglio e senza guida, piangendo disperatamente, finché al tramonto (ne l’ora che ’l sol dal carro adorno/scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida) giunge sulle rive del bel Giordano. Sfinita si stende sull’erba senza bere né mangiare, e alla fine la coglie il sonno, rimedio e quiete alle fatiche de’ miseri mortali. Ma questo non vale per le pene d’amore di Erminia: né però cessa Amor con varie forme/ la sua pace turbar mentre ella dorme.

 

Quando il canto degli uccellini la risveglia, si mette a piangere pensando a quello che è accaduto e mentre piange giungono al suo orecchio le voci dei pastori, (pastorali accenti) mescolate al suono di rustiche zampogne (boschereccie inculte avene). Così scorge un vecchio (un uom canuto) che intreccia canestri (tesser fiscelle) vicino al suo gregge, ascoltando tre bambini cantare. Erminia indossa ancora l’armatura e il pastore, quando lei gli compare davanti all’improvviso, resta sbigottito. Ma la fanciulla dolcemente lo rassicura e si toglie l’elmo, mostrando il volto e i bei crin d’oro. Il pastore non è ancora convinto che si tratti di una donna (Figlio, ei rispose) tuttavia l’accoglie con gentilezza e le descrive la bellezza della sua vita semplice e a contatto con la natura (saltar veggendo i capri snelli e i cervi,/ ed i pesci guizzar di questo fiume/ e spiegar gli augelletti al ciel le piume), lontana da l’inique corti che aveva frequentato in gioventù.

 

Erminia, sperando di trovare sollievo alle sue pene d’amore, decide di rimanere fra i pastori. Così  la fanciulla regal di rozze spoglie/s’ammanta, e cinge al crin ruvido velo; ma, nonostante gli abiti, il modo di guardare e di muoversi rivelano che non è una pastorella (ma nel moto de gli occhi e de le membra/non già di boschi abitatrice sembra). Dopo qualche tempo Erminia viene rapita da alcuni soldati egiziani che la conducono al campo dell’esercito musulmano (Canto VII).


Nel frattempo Goffredo di Buglione è riuscito a introdurre una spia nel campo nemico: Vafrino. Erminia lo vede e lo riconosce: è lo scudiero astuto che l’aveva accudita quando era prigioniera di Tancredi. Vafrino nega ma Erminia gli ricorda i due lieti mesi passati in dolce prigionia, e in cambio del suo silenzio gli chiede di portarla di nuovo al campo cristiano (a la prigion mia cara) perché la libertà in cui vive adesso è amara, fatta di torbide notti e tenebrosi giorni. Vafrino accetta. Lungo la strada del ritorno incontrano due guerrieri coperti di sangue. Il primo, che le vie tutte ingombra, ha il viso minaccioso rivolto verso il cielo: le armi e il portamento pagàn mostràrlo e Vafrino passa oltre; l’altro invece è chiaramente cristiano e lo scudiero lo riconosce subito: si tratta di Tancredi, gravemente ferito nello scontro con Argante.

 

Sentendo il nome dell’amato, Erminia si precipita vicino a lui, lo abbraccia, vuol rubare freddi baci da quelle pallide labra. Ma Vafrino la scuote: Curisi adunque prima, e poi si piagna, dice, ed Erminia obbedisce: mira e tratta le piaghe, le asciuga e le fascia con i suoi capelli. Tancredi si riprende: il mortifero sonno ei da sé scote,/già può le luci alzar mobili e vaghe. Guarda Erminia e le chiede: E tu chi sei, medica mia pietosa? Ma la fanciulla preferisce non rispondere e lo invita a riposare col capo sul suo grembo. Di lì a poco sopraggiunge un drappello di soldati cristiani. Tancredi viene condotto al campo e curato. Di Erminia si perdono le tracce per sempre. 

 

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