Il "Dialogo della Natura e di un Islandese"

Letteratura e teatro

Il Dialogo della Natura e di un Islandese, scritto nel maggio del 1824, è particolarmente significativo perché Leopardi, affrontando il problema del rapporto fra l’uomo e la natura, manifesta chiaramente la sua disincantata e tragica visione del mondo che è stata definita “pessimismo cosmico”.

 

Protagonista dell'Operetta è un Islandese[1] che dopo aver viaggiato a lungo per la maggior parte del mondo, giunto all’interno dell’Africa (l'interiore dell'Affrica) incontra una donna di forma smisurata, dal volto bello e terribile che gli domanda chi sia e che cosa stia cercando. Sono un povero Islandese che vo fuggendo la Natura, risponde l’uomo; la strana creatura, allora, fa un’affermazione sconcertante – Io sono la Natura, quella che tu fuggi – e gli chiede le ragioni della sua ostilità. L’Islandese inizia a raccontare: fin dalla prima gioventù aveva desiderato solo di vivere una vita oscura e tranquilla, senza alcuna ambizione e desiderio di potere o di gloria, perciò aveva scelto di starsene da solo, lontano dalla molestia degli uomini. Ad affliggerlo, però, rimaneva il clima ostile della sua isola: la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla.

 

Così si era messo in viaggio, sperando di trovare la tranquillità in altri paesi e ad altre latitudini. Ma ovunque aveva trovato disagi e pericoli dovuti al clima e all’ambiente: sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove; Molte bestie salvatiche mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Non sono mancate neppure le malattie, nonostante la sua vita morigerata. In nome della tranquillità infatti l’Islandese è riuscito a resistere a quella insaziabile avidità del piacere che, se assecondata, compromette le forze e la sanità del corpo, se respinta rende la vita imperfetta, perché la priva di un istinto naturale. Ormai ha perduto ogni speranza e vede avvicinarsi la vecchiaia e la morte, come impone la dura legge della Natura che assegna alla giovinezza (al fiorire) appena un terzo della vita degli uomini, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere.

 

Quando l’Islandese tace, la Natura, che lo ha ascoltato in silenzio, gli chiede: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? E, senza attendere risposta, spiega che le sue azioni non hanno come fine la felicità o l’infelicità degli uomini: Quando io vi offendo… io non me n’avveggo; come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

La Natura ha a cuore solo la vita dell’universo, che consiste in un perpetuo circuito di produzione e distruzione, ognuna delle quali serve continuamente all’altra: se una delle due venisse a mancare, il mondo andrebbe in dissoluzione.

 

È quello che tutti i filosofi affermano – risponde l’Islandese – ma ciò che nessun filosofo mi sa dire e che ora chiedo a te di spiegarmi è: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

 

A questa domanda la Natura non dà risposta. Il dialogo si interrompe perché all’improvviso il protagonista esce di scena. Leopardi propone ai suoi lettori un ironico doppio finale: l’Islandese viene divorato da due leoni affamati (rifiniti e maceri dall'inedia) che grazie a lui riescono a sopravvivere per quel giorno; oppure, sepolto dal vento sotto una montagna di sabbia, si trasforma in una bella mummia, ritrovata in seguito da alcuni viaggiatori e collocata nel museo di non so quale città d’Europa.



[1] Forse Leopardi è stato influenzato dalla lettura di Histoire de Jenny (1775) un’ opera del filosofo francese Voltaire dove si descrivono le difficili condizioni di vita in Islanda.

 

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