L'espressione mass media, che nel parlare comune diventa spesso semplicemente "i media", con pronuncia all'italiana, viene anche tradotta con mezzi di comunicazione di massa. Essa è arrivata in Italia alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso: dapprima nel linguaggio specialistico, per diventare corrente solo un decennio dopo. Indica una varietà di strumenti di comunicazione: i giornali e il cinema, la radio e la televisione, e perfino i dischi e i manifesti stradali. Se vogliamo dare una definizione che li ricomprenda tutti, possiamo dire che sono mezzi di comunicazione di massa, o mass media, quegli strumenti che inviano uno stesso messaggio a una pluralità di lettori o ascoltatori o spettatori.
La parola “massa” comunque è piuttosto ambigua. Prima di tutto, non sempre e non tutti i mass media raggiungono una “massa”, intesa come un pubblico costituito da un gran numero di persone. In generale, i giornali (anche i più diffusi) e a maggior ragione i libri raggiungono in Italia una minoranza della popolazione. Anche tra le trasmissioni radiofoniche, o anche televisive, molte sono seguite solo da un pubblico ristretto: da qualche anno si parla in questi casi di programmi “di nicchia”, un'espressione che nel gergo del marketing indica un settore relativamente appartato della cosiddetta audience: termine che indica il pubblico, in particolare televisivo, in quanto misurabile in termini quantitativi.
Inoltre, l'uso della parola “massa” spesso sottintende, magari inconsapevolmente, una sfumatura critica, o addirittura sprezzante. Se il pubblico è vasto e indifferenziato si può supporre che sia mediamente incolto e incapace di discriminare, per cui i mass media possono essere implicitamente accusati o di strumentalizzare la parte più manipolabile della popolazione, o comunque di lanciare messaggi poveri nella sostanza, sebbene “spettacolari” (aggettivo anche questo carico di implicazioni critiche) nella forma.
Si tratta di giudizi spesso impliciti più che dichiarati. Qui ci sforzeremo di parlare dei mass media in termini critici ma non giudicanti. Il lettore si formerà liberamente la sua opinione.
La comunicazione per mezzo di parole, e anche di segni grafici, più tardi di scrittura, è caratteristica dell'umanità ed è, insieme con la capacità di usare strumenti, il tratto che distingue la nostra specie dalle altre specie animali.
Da tempi molto antichi la parola viene usata non solo nello scambio in gruppi ristretti di persone ma anche per parlare a un uditorio numeroso, come avveniva ad esempio nelle piazze delle città greche e dell'impero romano. È solo con l'avvento delle tecnologie meccaniche però che si può parlare di “comunicazione di massa”: messaggi rivolti a un numero potenzialmente illimitato di persone. Fu la stampa il primo dei mass media, anche se il suo sviluppo venne frenato per diversi secoli dal limitato numero di coloro che sapevano leggere e scrivere. Tra il Settecento e l'Ottocento, lo sviluppo dell'alfabetizzazione che ha accompagnato lo sviluppo dello stato moderno favorì la crescita dei lettori, e quindi la diffusione del primo mass medium moderno, il giornale, miscela di informazione politica, fatti di cronaca, divagazione e commenti letterari.
È sempre sulla stampa che si basò il successo, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, della canzone, componimento musicale con parole, erede insieme delle tradizioni folkloriche e della romanza nata in ambiente musicale colto; nel secolo successivo nuove tecnologie di riproduzione e trasmissione del suono (il grammofono e la radio) avrebbero contribuito a farne la “colonna sonora” della vita delle società industrializzate. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo successivo le nuove tecnologie elettromeccaniche si applicarono allo spettacolo: nasceva il cinema, dapprima muto poi (dal 1927-28) sonoro, che s'impone rapidamente come la forma d'intrattenimento più amata da tutti i ceti.
Con la radio, negli anni tra le due guerre mondiali, si affermò una forma tecnicamente e culturalmente nuova di comunicazione di massa: che penetrava dentro le mura domestiche e raggiungeva simultaneamente milioni di persone con le canzoni, le informazioni, l'intrattenimento. Il modello della radio, arricchito dalle immagini, viene ripreso a metà del Novecento, con il mass medium di maggiore successo, in termini di diffusione nelle abitazioni e di ore di ascolto: la televisione. È con l'avvento della TV che l'espressione mass media si fece conoscere non solo dagli studiosi ma anche dal grande pubblico.
“Le parlate di due quartieri, anche contigui, di una città europea, si assomigliano meno di quelle di due parti, anche molto lontane, degli Stati Uniti”. È il 1829: l'osservazione dello scrittore americano James Fenimore Cooper, l'autore dell'Ultimo dei Moicani, riguarda Napoli come Londra, Milano come Parigi. È un'osservazione di grandissimo interesse: che cosa rendeva la parlata statunitense così omogenea a differenza di quella, ad esempio, italiana? Erano tre i fattori principali: la diffusa alfabetizzazione, la lettura dei giornali, e naturalmente il fatto che negli USA, paese nuovo, le parlate locali non avevano le radici antiche proprie dei dialetti europei.
La lingua scritta e soprattutto stampata ha l'effetto di standardizzare il linguaggio, per cui l'alfabetizzazione e la lettura di massa riducono molte differenze proprie della lingua parlata oralmente. La lettura dei giornali così come più tardi la radio e soprattutto la televisione fissano un vocabolario comune nazionale e rendono di uso corrente forme di espressione che prima erano tipiche della lingua colta. Del resto in Italia l'uso di dare forma scritta e stampata ai dialetti è rimasto fortemente minoritario nonostante gli straordinari risultati raggiunti nel primo Ottocento da due grandi poeti come il romano G. G. Belli e soprattutto il milanese Carlo Porta. I mass media, sia pure in forme diverse, hanno quindi contribuito a rendere la lingua italiana tendenzialmente più omogenea che in passato; in parte però la rendono anche più mutevole: anche nelle parole si è imposto il ritmo d'incessante trasformazione proprio della moda.
L'avvento dei mass media è stato un processo storico più rapido in alcune fasi più lento in altre. L'Italia, per esempio, ha conosciuto una lenta diffusione della stampa quotidiana, una molto più rapida del cinema e della televisione, mentre per quanto riguarda Internet si colloca un po' al di sotto della media dei paesi europei occidentali. L'influsso dei mass media sulla lingua parlata è stato anch'esso incostante: i giornali, anche per la bassa diffusione della lettura, hanno avuto un'influenza relativamente ridotta, molto maggiore il peso della televisione e anche (meno notata) quello di riviste illustrate e fotoromanzi. Nella seconda metà del Novecento l'omogeneizzazione della lingua è stata promossa, oltre che dai mass media, anche da altri fattori: l'istruzione di massa e il rimescolamento delle popolazioni a seguito delle migrazioni interne.
Nell'Europa settentrionale l'uso di leggere i quotidiani di notizie, commenti, cronaca risale all'inizio dell'Ottocento se non prima. Già nel 1813 il filosofo Hegel parlava della lettura mattutina del giornale come di una “laica orazione del mattino” che metteva in contatto con il mondo come la preghiera avvicinava a Dio. In Italia il fenomeno è stato più lento e tardivo, maturato solo con l'unificazione nazionale.
Dopo “La Nazione” di Firenze (1859) e “Il Giornale di Sicilia” di Palermo (1860), “Il Secolo” dell'editore Sonzogno di Milano, considerato il primo quotidiano moderno italiano, comparve nel 1866, seguito nel 1867 dalla “Gazzetta piemontese” che diverrà poi “La Stampa” e nel 1876 dal “Corriere della sera”. Più tardi la nascita dei partiti di massa favorì lo sviluppo di un altro tipo di giornalismo, il cui esempio più importante è il socialista “Avanti!” (titolo ripreso da quello dell'organo socialdemocratico tedesco, “Vorwärts!”), caratterizzato come altri organi socialisti da un ampio uso della grafica, da una forte titolazione, da un linguaggio spesso semplificato. La lettura della stampa cosiddetta “indipendente” restava ristretta alla borghesia urbana delle rispettive città: accanto ai quotidiani citati nascevano nel 1878 a Roma “Il Messaggero”, nel 1885 il bolognese “Il Resto del Carlino”, nel 1892 il napoletano “Il Mattino”, più innovativo, almeno inizialmente nello stile giornalistico. Inoltre l'indipendenza di tali testate era relativa, e lo è sempre rimasta: tutte erano direttamente o indirettamente sostenute da interessi economici, in particolare a partire da fine Ottocento dalle grandi banche.
Lo stile giornalistico dell'”Avanti!” sarebbe stato ripreso con segno politico invertito dal “Popolo d'Italia” di Benito Mussolini (che del giornale socialista, del resto, era stato direttore), e avrebbe condizionato nel periodo fascista un po' tutta la stampa italiana, ma anche la cinematografia a la radio. Dopo la guerra l'opposizione tra una stampa “borghese” il cui capofila era il “Corriere della sera” e una stampa di agitazione che trovava nell'”Unità” organo del Partito Comunista la sua maggiore e più professionale espressione sarebbe ripresa, frustrando almeno in parte i tentativi di rinnovamento come “Il Giorno” nato a Milano nel 1956 per volere di un grande manager pubblico come Enrico Mattei (ENI).
Dobbiamo ricordare lo sviluppo straordinario soprattutto dopo il 1945 dei quotidiani sportivi, matrice (insieme con le cronache radio-televisive del ciclismo e soprattutto del calcio) di un proprio linguaggio nazionale e gergale insieme, e delle riviste illustrate, dove il contenuto testuale era in genere sopraffatto dalle immagini fotografiche. E il genere tutto italiano del fotoromanzo, che integrava il racconto per immagini con testi brevi e di semplici lettura.
La situazione sarebbe cambiata ma solo in parte con gli anni Settanta, con un nuovo quotidiano, “La Repubblica”, che dal 1976 si collocò ai vertici della classifica di vendita in un continuo testa a testa con il “Corriere” nato un secolo prima, rivolgendosi a un pubblico in parte nuovo, figlio della scolarizzazione di massa. Ma l'Italia sarebbe sempre rimasta ed è tuttora un paese dove si legge assai meno della media europea.
Leggere il giornale come strumento essenziale per stare a contatto con i propri simili: è un'abitudine che cominciò a diffondersi nel Diciottesimo secolo, a partire dalle grandi città d'Europa. Le prime “gazzette” italiane (la parola, che farà il giro del mondo, è veneziana, indica una moneta da due soldi, il prezzo dei primi giornali) nacquero a Milano, a Firenze e Venezia, come i corrispondenti giornali di Londra, Parigi o Vienna: fogli dedicati, più che alle notizie, alla conversazione e al commento, di forte impronta letteraria e destinati a un pubblico limitato, quasi una cerchia di amici.
È negli anni della rivoluzione francese che s'impose il modello di giornale moderno, centrato sulle informazioni politiche e sui fatti economici. In queste trasformazioni l'Italia si trovò presto a perdere terreno: i quotidiani basati sulle notizie da un lato, sulla pubblicità dall'altro, si imposero in Inghilterra a fine Settecento, in Francia e in vari paesi del nord Europa negli anni Trenta dell'Ottocento. Allora come oggi: in termini di diffusione dei quotidiani l'Italia è rimasto decennio dopo decennio uno degli ultimi tra i paesi dell'Europa centro-occidentale. Situazione compensata solo in parte, in particolare nella seconda metà del Novecento, dall'ampia diffusione della stampa periodica e del fumetto.
Tra l'Unità e gli anni Cinquanta del Novecento si poteva attribuire la scarsa diffusione della lettura di giornali all'analfabetismo, totale o parziale: nel 1861 ben il 78% degli italiani non sapevano leggere, nel 1951 il 12,9%, ma la misurazione teneva conto solo di chi non sapeva scrivere la propria firma, non dei tanti che sapevano leggere solo in teoria. I livelli di lettura dei giornali sarebbero rimasti bassi anche nei decenni successivi, pur in un paese ormai quasi integralmente alfabetizzato. E dopo un'ascesa delle tra gli anni Ottanta e Novanta si assiste ora a un nuovo calo. La verità è che in Italia, con un caratteristico circolo vizioso, la limitatezza del pubblico favorisce la tendenza dei giornalisti a parlare a una piccola élite, e questo a sua volta impedisce l'apertura a nuovi lettori.
D'altra parte, nella seconda metà del Novecento, mentre i quotidiani sportivi diffondevano un linguaggio “tecnico” che i loro lettori accettavano spesso come prova di competenza, i fumetti e la stampa illustrata (seguiti più di recente da alcuni quotidiani “popolari”) avrebbero fatto ricorso a un italiano basico che si suppone comprensibile da tutti. Inseguendo il linguaggio della televisione.
Tra l'Ottocento e il Novecento, la canzone, in particolare la canzone napoletana, è insieme a poche opere letterarie tra cui il Pinocchio di Collodi uno dei primissimi prodotti da esportazione della cultura di massa italiana.
Si tratta di un componimento breve e facile da ricordare, per la melodia che ne costituisce l'anima musicale, e per la semplicità delle parole: per oltre un secolo la canzone è stata la parte “leggera” della musica, trattata in generale con disprezzo dai cultori della musica “classica”; ed è stata la poesia per chi non legge poesia, e anche per chi non legge affatto, con i suoi versi dedicati generalmente a un tema amoroso.
Ancor prima della nascita e della diffusione del grammofono e del disco, che in Italia arrivarono come beni relativamente di lusso negli anni tra le due guerre e divennero autenticamente “di massa” solo negli anni Cinquanta-Sessanta, la canzone aveva trovato il modo di circolare largamente. A diffondere le melodie provvedevano i suonatori ambulanti, accompagnati da fisarmonica, chitarra o violino, o gli organini mobili detti “di Barberia” che percorrevano incessantemente le vie dei quartieri popolari, e distribuivano per pochi centesimi fogli volanti, in napoletano “copielle”, con le parole delle canzoni delle quali diffondono le melodie. Dopo la grande guerra le parole delle canzoni sarebbero passate dalle “copielle” ai cosiddetti canzonieri, raccolte dei successi di una stagione, autentici best seller del tempo. E ci avrebbe pensato la radio a portare le canzoni, parole musica e voci dei cantanti più noti, nelle case. La durata della canzone, dai due ai quattro minuti, era standardizzata e lo sarebbe rimasta a lungo.
Negli anni Cinquanta la canzone italiana (e in lingua italiana), mentre cominciava la diffusione del disco prima di tutto a 45 giri, che conteneva una canzone per facciata, poi anche a 33 giri, trovò il suo punto di riferimento ufficiale, il Festival di Sanremo che univa dapprima attorno alla radio poi ben presto attorno alla televisione gran parte del Paese. Fu Sanremo, unitamente ai programmi d'intrattenimento della TV, a fare conoscere i grandi autori-cantanti, da Domenico Modugno a Lucio Battisti, fino a Vasco Rossi e oltre, che avrebbero animato le diverse fasi della storia della musica leggera italiana.
Fu Napoli, per diversi decenni, la capitale della canzone: non solo italiana, ma europea. La grande città di popolo, che era stata quasi ininterrottamente tra le più affollate del mondo, diede vita a una delle prime industrie culturali moderne: con la produzione regolare di novità, che diffuse in veri e propri festival (nella scadenza popolarissima di Piedigrotta), e diffuse da case editrici di dimensioni e ambizioni multinazionali. Napoli con i suoi attori e i suoi cantanti fu anche la prima capitale del teatro detto “di varietà”, col suo misto di brevi scenette, musica, esibizioni di giocolieri, imitatori e di tutto quel che poteva stupire il pubblico.
Le canzoni di maggior successo all'epoca non parlavano italiano, ma una parlata locale. In un'Italia dove la lingua nazionale era ancora parlata da una minoranza, fu il dialetto napoletano a fare da lingua popolare. Si trattava comunque di un dialetto scritto e pronunciato in modo da farsi capire facilmente: quello parlato nei vicoli era ed è un'altra cosa. Parallelamente si sviluppava per gradi una canzone in lingua; ma non è caso se alcuni tra i primi a cantare in italiano furono definiti “fini dicitori”, per sottolineare il preziosismo con cui enunciavano parole che dovevano essere di tutti ma che pochi usavano in modo corrente.
La canzone in italiano si sarebbe poi diffusa sempre più massicciamente con l'aiuto della radio e del cinema, ma sarebbe arrivata a scalzare quella napoletana, complice la televisione, solo negli anni del Miracolo Economico. Emblematica la parabola di Domenico Modugno, dalle canzoni in napoletano come Resta cu'mme (e anche in altri dialetti meridionali) al successo mondiale di Nel blu dipinto di blu (1958) forse la canzone italiana, e in italiano, più famosa nel mondo. Negli anni Sessanta-Settanta, d'altra parte, mentre in molti paesi nord-europei il trionfo globale del rock spingeva le giovani generazioni a imparare l'inglese, in Italia le canzoni straniere circolavano prevalentemente nella nostra lingua, riprese da cantanti italiani (o dagli stessi cantanti originali) in testi tradotti, le cosiddette cover.
Dopo la canzone, è il cinema il mezzo di comunicazione di massa di cui l'Italia diventò paese esportatore. Dapprima con il cinema muto, in particolare con le grandi produzioni che nacquero a Torino, come Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, lanciato negli Stati Uniti come “Gabriele d'Annunzio's Cabiria”, per la collaborazione del famoso poeta (divo tra i divi) alle didascalie, e alla scelta dei nomi di alcuni personaggi.
Il sonoro arrivò sul finire degli anni Venti; e il regime fascista, attento al mezzo fin dalle sue origini, puntò a farne strumento insieme di addottrinamento e di intrattenimento: nell'arco di pochi anni nacquero l'Istituto LUCE responsabile di cinegiornali e documentari, la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (1932), il Centro Sperimentale di Cinematografia (1935), Cinecittà (1937). A differenza di altri regimi totalitari, che concentravano gli sforzi produttivi sui film a maggior contenuto propagandistico, il fascismo scelse di affiancare alle pellicole a contenuto direttamente o indirettamente politico una vasta produzione a carattere popolare, che dava ampio spazio al connubio cinema-canzone. Prima della televisione e accanto alla radio il cinema fu uno dei veicoli di diffusione di massa della lingua italiana.
Nel dopoguerra nacque un cinema di ricerca che venne riconosciuto come uno dei più avanzati a livello mondiale, dal “neorealismo” agli anni Settanta; ma non va dimenticata la vasta produzione popolare vicina al fotoromanzo che ebbe larga diffusione anche in altri paesi dell'Europa meridionale.
Con lo sviluppo della televisione molti si attendevano un abbandono delle sale cinematografiche da parte della gran parte del pubblico: cosa che sarebbe accaduta però in modo molto limitato e graduale nei primi due decenni di TV, per diventare un fenomeno massiccio solo con la fine del monopolio radiotelevisivo. Successivamente le grandi emittenti, la RAI e la Fininvest, poi Mediaset, avrebbero assunto un ruolo dominante anche nel cinema “di sala”.
Nel cinema sonoro del tempo fascista l'impronta unificante era data, oltre che dal parlato enfatico e scandito del Duce, dalla perfetta pronuncia di tanti attori drammatici, e degli speaker dei cinegiornali. Ma nel cinema popolare, soprattutto in quello comico, non mancarono le inflessioni dialettali, dei napoletani fratelli De Filippo e del romano Aldo Fabrizi, della milanese Dina Galli e del torinese Macario: il nazionalismo linguistico fascista era abbastanza realistico da non ignorare la varietà degli accenti, e anche i dialetti purché controllati o edulcorati.
Nel dopoguerra il neorealismo prima, poi la grande fortuna del cinema popolare, vennero accompagnati dalla ricerca di un impasto sonoro il più vicino possibile all'esperienza concreta del pubblico. Se furono eccezionali i casi come La terra trema di Luchino Visconti in cui il dialetto venne proposto nella sua purezza, molto più diffuso fu l'uso di accenti locali, ma anche e soprattutto l'emergente parlato delle grandi città, a cominciare da Roma (capitale del cinema oltre che del paese), un parlato fatto oltre che delle inflessioni tradizionali dell'area laziale anche dei tanti apporti delle migrazioni interne. Fu il cinema del dopoguerra il primo laboratorio di quel nuovo italiano misto ma centrato sul romano più che sulla tradizione toscana, che la televisione avrebbe poi imposto come la koinè nazionale.
Anche nei decenni successivi, la grande sensibilità di autori come Pier Paolo Pasolini (a cominciare da Accattone e Mamma Roma) o Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli), ma anche di registi comici come Dino Risi o Mario Monicelli e di sceneggiatori come Age e Scarpelli (da I soliti ignoti a Romanzo popolare) seppe cogliere il suono e gli accenti di un paese che stava attraversando una rapidissima, per molti versi traumatica, modernizzazione anche culturale: dove il parlato radicato nei dialetti si mescolava incessantemente con quelli della burocrazia e della pubblicità e coi gerghi emergenti della cultura giovanile. Successivamente, la cinematografia di ricerca avrebbe continuato a esplorare il mutare della lingua (e il persistere delle differenze locali) col passare delle generazioni fino ai nuovi incroci con le lingue degli immigranti, mentre una parte del cinema commerciale, con le produzioni standardizzate dei film delle feste, avrebbe proposto un italiano standard più povero di quello televisivo.
Con la radio negli anni successivi alla Grande Guerra è arrivato un nuovo tipo di comunicazione di massa, basato non più sulla riproduzione di un originale in più esemplari come accadeva a libri e giornali, al disco e anche al cinema, ma sulla diffusione simultanea o trasmissione di un unico messaggio in un numero potenzialmente illimitato di apparecchi. È la diffusione circolare, in inglese broadcasting, che successivamente sarebbe stata la base anche della comunicazione televisiva.
In Italia le prime trasmissioni sperimentali cominciarono nel 1922, poi nel 1924 dopo l'unificazione voluta e controllata dal regime fascista nacque l'ente radiofonico nazionale, l'URI, e si è imposto il monopolio sulle radiodiffusioni. L'URI fu sostituita tre anni dopo dall'EIAR e, a partire dal 1944, dalla RAI. Il monopolio sarebbe durato fino al 1974-75, poi si sarebbe avuta fino al 1990, per la radio come per la televisione, una situazione di vuoto legislativo, con la nascita di un grandissimo numero di emittenti a livello locale e subito dopo di network a carattere inter-regionale e spesso nazionale. Cosa che avrebbe inciso in profondità anche sul linguaggio delle trasmissioni radiofoniche.
L'ascolto avveniva inizialmente quasi esclusivamente nelle case. Nel periodo fascista, nonostante la politica, a partire dai primi anni Trenta, di forte promozione del mezzo si andò poco oltre il milione di abbonamenti: il possesso di una radio era in generale privilegio dei ceti più benestanti, ma il regime favorì la diffusione pubblica delle principali trasmissioni tramite apparecchi ad ascolto collettivo posti nelle scuole e nelle occasioni più importanti tramite altoparlanti nelle piazze.
È nel periodo successivo al 1945 che la radio diventò un medium a larghissima diffusione, caratterizzato da un'offerta articolata di intrattenimento (non solo musicale), informazione, cultura. Con il diffondersi della televisione la radio non conobbe come molti temevano un declino, anche grazie alla mobilità: dalla fine degli anni Cinquanta la nuova tecnologia del transistor permise la riduzione della dimensione degli apparecchi, che divennero portatili e addirittura tascabili, mentre si diffondeva la presenza della radio nelle auto.
Con la fine del monopolio a metà anni Settanta nacque un gran numero di nuove emittenti, locali o specializzate, incluse alcune trasmissioni “di servizio”, e il linguaggio del mezzo si fece informale e dinamico. Oggi la radio è seconda sola alla televisione come medium più seguito dagli italiani.
A differenza del disco, riservato di fatto alla musica, la radio offre spazio oltre che alle note musicali anche alla voce nelle sue diverse possibilità espressive (dalla lettura di testi alla recitazione drammatica, dall'intrattenimento alla conversazione) e anche a una più vasta gamma di suoni, dall'urlo della folla che fu cruciale nella propaganda mussoliniana ai rumori del traffico, alle voci spesso dalla pesante inflessione regionale dei testimoni. In una prima fase però questa capacità della radio di farsi eco dell'intero universo acustico (di quel “paesaggio sonoro” definito da alcuni studiosi come il canadese R. Murray Schafer) rimase fortemente vincolata. Soprattutto in Europa, la radiofonia pubblica si è a lungo assunta un compito, in senso lato, “educativo”. Secondo l'esempio della BBC, che parlava a un pubblico di massa una lingua improntata agli accenti e al vocabolario delle grandi università, almeno fino agli anni Settanta l'oralità della radio si è attenuta in vari paesi tra cui il nostro a un parlato standard, regolare e regolato. Era, più che un parlato autentico, una lingua scritta tradotta in suono. Alla radio gli accenti regionali erano ospitati, sì, ma quasi solo in funzione di intrattenimento comico: secondo la norma non detta per cui le pronunce dialettali appartengono quasi per loro natura a un registro “basso”, divertente ma marginale.
L'italiano radiofonico degli speaker nazionali è rimasto a lungo lo stesso quale che fosse la città da cui si trasmetteva. La prima irruzione del parlato reale delle diverse parti d'Italia si è avuta in un anno quasi simbolico, il 1968, con l'avvento delle trasmissioni che introducevano, attraverso il telefono, le voci del pubblico, a cominciare dalla storica Chiamate Roma 3131. Poi con la fine del monopolio, nel 1975-76, è arrivato il parlato giovanilistico dei disc jockey, sono arrivate anche le “parolacce”, sono arrivate le voci delle tante realtà locali, nel dialogo sempre più fitto tra ascoltatori ed emittenti in tante emittenti cittadine o regionali. E hanno avuto spazio le lingue minoritarie ma che costituiscono una preziosa ricchezza: dal sardo al friulano.
Nata negli anni Venti e sperimentata nel decennio successivo (in Italia le prime trasmissioni ebbero inizio nel 1938) la televisione si impose con straordinaria rapidità dopo la guerra, dapprima negli USA poi in Europa. La RAI cominciò a trasmettere nel gennaio 1954 (subito prima il Papa aveva lanciato un preoccupato appello sulle potenzialità corruttrici del nuovo mezzo); meno di dieci anni dopo la televisione era presente nella maggioranza delle abitazioni. Dagli anni Settanta è seconda solo al frigorifero come elettrodomestico più diffuso nel Paese.
Si è spesso sostenuto che la popolarità del mezzo sia inscindibile da una sua funzione “educativa” specie nel campo linguistico, forse è vero nella sua apparente grossolanità il giudizio di un contadino meridionale che nel 1959 diceva “Pure Il musichiere [la notissima trasmissione di canzoni e quiz del sabato sera] è istruttivo”. Il nuovo mezzo si incontrò con un'Italia che stava vivendo una rapidissima modernizzazione e che accolse quel misto di notizie e canzoni, intrattenimento e divulgazione portato direttamente nelle case come una via di accesso a un mondo fatto di industrie, supermercati, autostrade.
Mentre una gran parte del mondo della cultura guardava al nuovo mezzo con diffidenza se non con aperto disprezzo (e la sinistra non esitava a parlarne almeno inizialmente come del “frigorifero del cervello”) il ceto politico in particolare dell'area dominante del centro ne intuì presto il potenziale per la comunicazione con l'elettorato. Cominciò ben presto il processo che avrebbe fatto del sistema televisivo un diretto prolungamento del sistema politico nazionale (e viceversa), cosa che non impedì alla televisione italiana di raggiungere in particolare negli anni Sessanta livelli qualitativi superiori a quelli di molte altre emittenti.
La fine del monopolio nel 1974-75, e il lungo vuoto legislativo che seguì, non portò con sé, contrariamente a quanto molti si aspettavano, né un'apertura verso le culture locali né uno svincolarsi del sistema televisivo dalla politica. Fin dal 1980-82 sorse anche nel campo della televisione privata un gigante paragonabile per dimensioni alla RAI, il gruppo Fininvest poi Mediaset, che avrebbe dapprima stabilito solide alleanze nel sistema dei partiti per poi dar vita a partire dal 1994 a una propria forza politica, a lungo egemone nella vita italiana.
È diventata ormai luogo comune la tesi secondo cui la vera “maestra d'italiano” nell'Italia del dopoguerra, sarebbe la televisione. Una tesi che riprende, semplificandole, alcune affermazioni di un grande linguista, Tullio De Mauro, nel suo libro del 1961 Storia linguistica dell'Italia unita e le intreccia con una diffusa convinzione, secondo la quale la televisione dei primi vent'anni (1954-74) si sarebbe assunta un compito soprattutto educativo. In realtà, quella espressa da De Mauro è un'interpretazione più sottile e articolata. Secondo il linguista, è nell'insieme dei media audio-visivi (televisione ma anche radio e cinema) che gli italiani hanno trovato le versioni parlate di una lingua che in precedenza era essenzialmente scritta: una lingua che rimaneva legata all'Italia centrale ma era, ora, più vicina al romano che al tradizionale fiorentino.
Inoltre non si deve esagerare la funzione “pedagogica” del mezzo. Nella gestione di Ettore Bernabei, direttore generale della RAI dal 1961 al 1974, il monopolio televisivo era volto più alla costruzione di un largo consenso, basato sull'intreccio di informazione e intrattenimento, che a una finalità propriamente educativa quale era stato in parte concepita da alcuni suoi predecessori. È l'omogeneità della presenza in tutto il paese che ha fatto della lingua televisiva un fattore di unificazione, unitamente a un altro fatto spesso sottovalutato: l'età dell'affermazione della TV nel nostro paese ha coinciso con l'altro fenomeno unificante, le migrazioni interne. Il parlato televisivo che si afferma a partire dagli anni Sessanta converge con la lingua dei rotocalchi e dei fumetti, è povero non tanto sul terreno del vocabolario quanto su quello della sintassi: frasi brevi e costruzioni in prevalenza paratattiche, che premiano la ripetizione e il tormentone.
Il cambiamento del sistema televisivo, nel 1976-80, è sembrato in un primo tempo favorire una maggiore varietà: l'intendimento delle sentenze della Corte Costituzionale che abolivano il monopolio era in effetti promuovere lo sviluppo di una pluralità non solo di punti di vista ma anche di voci locali. In realtà la televisione locale è rimasta un fenomeno assai più marginale di quanto sia accaduto per la radio. La televisione commerciale ha assunto subito carattere nazionale con un linguaggio semmai ulteriormente semplificato: la lingua della pubblicità, spesso inventiva nelle trovate e nelle connessioni, ma centrata su messaggi univoci e mirati.
La forma primaria di comunicazione tra due persone, o in un piccolo gruppo, è quello che viene chiamato generalmente “faccia a faccia”, il confronto diretto fatto di parole ma anche di gesti, di espressioni del volto, e anche di aspetti più difficili da valutare come le pause e i ritmi della parola, come il gioco delle distanze e degli avvicinamenti/allontanamenti del corpo. Un insieme di “linguaggi” che accompagna la lingua vera e propria e che ha anch'esso le sue specificità locali e nazionali, come dimostra il fatto che la lingua tutta gestuale dei sordomuti varia da paese a paese (si parla infatti di LIS, lingua italiana dei sordi).
Fin dalla nascita della scrittura la comunicazione tra le singole persone non è riducibile al solo “faccia a faccia”; e nel corso degli ultimi due secoli ha conosciuto grandi trasformazioni: organizzative e tecnologiche. Prima di tutto la lettera, che a cominciare dalla nascita dei sistemi postali moderni, promossi dagli stati nazionali a partire dalla prima metà dell'Ottocento è diventata una forma di comunicazione diffusa. Nonostante il peso e il perdurare dell'analfabetismo, la corrispondenza ha avuto nella storia d'Italia una straordinaria rilevanza in occasione delle grandi migrazioni, o delle guerre. Lungo i canali della posta, oltre alle lettere scritte magari a fatica o con l'aiuto di chi era più istruito, circolavano anche fotografie e oggetti, a dare spessore anche visivo e tattile ai messaggi.
Poi è arrivato a metà Ottocento il telegrafo (l'Italia è tuttora uno dei paesi al mondo che mandano più telegrammi, per enfatizzare i momenti rituali legati alle nascite, ai matrimoni, alle condoglianze), e una trentina di anni dopo il telefono. Inventato con il contributo di un italiano, Antonio Meucci, il telefono è rimasto fino agli anni Cinquanta un mezzo relativamente poco diffuso nelle case. Poi ha conosciuto una rapidissima diffusione, trainato dal nuovo fenomeno delle migrazioni interne e dall'esigenza di chi si era spostato al Nord di restare in contatto con le famiglie, e anche da una politica di tariffe più contenute per incoraggiare gli abbonamenti.
Risale agli anni Novanta l'avvento del telefono mobile detto “cellulare” per il tipo di rete che consente la connessione, ma definibile come una forma di radiotelefonia: considerato dapprima in Italia un lusso riservato a ristretti gruppi sociali, si è poi diffuso a livelli da primato, tanto che nel nuovo secolo il numero di “telefonini” presenti ha superato quello degli abitanti.
Il telefono, strumento di comunicazione orale e paritario, non impone a differenza della stampa l'uso di una lingua standardizzata, ma sul lungo periodo ha contribuito all'omogeneizzazione del linguaggio. Il cellulare poi ha dato vita anche a una forma peculiare di scrittura, gli sms (letteralmente “messaggi corti”, short message service), una forma di radiotelegrafia che ha promosso la nascita in particolare nel mondo giovanile di un linguaggio abbreviato e graficizzato.
A partire dalla metà degli anni Settanta molte novità contribuirono a trasformare non solo i mass media ma tutto il quadro dei mezzi di comunicazione: lo sviluppo della videoregistrazione permise da un lato di portare “il cinema in casa” dall'altro di usare la televisione per fini diversi dal puro ascolto delle trasmissioni; la fine del monopolio radiotelevisivo d'altra parte moltiplicò l'offerta nei due mezzi più seguiti dagli italiani; il fenomeno dei videogiochi, domestici e di sala, avvicinò il mondo dei media moderni a quell'universo ludico che per molto tempo ne era rimasto distinto; la telefonia cominciò a diventare mobile per poi imporsi nell'arco di un ventennio come una forma di comunicazione onnipresente. In quella prima fase lo sviluppo dell'“informatica personale”, relativamente graduale e confinato inizialmente a piccole cerchie di appassionati, venne meno notato. Ma sarebbe stato il computer, tanto più dopo l'avvento della telematica, a definire i caratteri portanti del nuovo sistema dei media.
Un nuovo linguaggio comune, fatto primariamente di impulsi elettrici e su quella base di testi e dati ma sempre più di immagini e di suoni, stabiliva modi di comunicare di tipo reticolare e insieme sembrava assorbire e fondere insieme i media in precedenza distinti, in un continuum dove la comunicazione da punto a punto e quella rivolta a milioni di persone più o meno simultaneamente risultano opzioni possibili per uno stesso insieme di macchine, dove il quotidiano e il libro, la canzone e il telefono, possono occupare l'uno dopo l'altro l'attenzione delle persone.
Si sarebbe tentati di sostenere che questo sistema non ha più molto di “italiano”, né sul piano culturale e neppure sul piano strettamente linguistico. Ma sarebbe una semplificazione, non solo perché gran parte delle comunicazioni continuano ad aver luogo in italiano, ma anche perché la fluidità e la versatilità delle nuove forme di comunicazione consentono scambi più diversificati e articolati che in passato, e permettono di valorizzare la pluralità linguistica come ricchezza e di rispondere a una molteplicità di curiosità e interessi scientifici sulla varietà delle espressioni culturali esistenti. Del resto, senza questo nuovo universo tecnologico e comunicativo non esisterebbe Vivit.
Le trasformazioni tecniche non avvengono mai da sole; si intrecciano di continuo con cambiamenti sociali e innovazioni culturali. A maggior ragione nel campo della comunicazione, e quanto è avvenuto negli ultimi venticinque-trent'anni ne è una dimostrazione. Alla base c'è l'informatica: che mette alla prova barriere un tempo insormontabili come quelle che separano lo scritto dal parlato, la comunicazione interpersonale da quella di massa.
L'universo delle ICT (Information and Communication Technologies) include un telefono che oltre a parlare scrive, con i messaggi detti SMS (Short Message Service); una posta che viaggia alla velocità della rete cioè quasi in tempo reale, l'e-mail; servizi come Skype che possono intrecciare tra loro messaggi scritti simultanei, le chat, conversazioni telefoniche, e quella conquista che era stata sognata per più di un secolo, la videotelefonia; e le onnipresenti “faccine” (emoticons) che si sforzano di integrare la scrittura con qualcosa che quanto meno ricorda il parlato, anzi il faccia a faccia. Il tutto in un continuo gioco di scambi con forme di comunicazione almeno potenzialmente “di massa”, a cominciare dal World Wide Web, e con le cosiddette “reti sociali” (social network).
La lingua che circola su questi canali è varia, da mezzo a mezzo ma anche da persona a persona. Tutti abbiamo corrispondenti che scrivono i loro messaggi mail come delle classiche lettere e altri che non curano neppure l'ortografia. Tutti conosciamo persone che usano Facebook per scrivere piccoli saggi e altre (o magari le stesse in altri momenti) che depositano messaggi fatti di un'immagine, poche parole, segnali d'intesa.
In particolare sono gli SMS ad avere prodotto le maggiori perplessità fra i difensori della lingua. Scritti spesso nelle condizioni più precarie, vincolati a un numero ridotto di segni (nell'alfabeto latino 160 caratteri) e quindi abbreviati e spesso contratti nelle formule, influenzati da programmi di scrittura semi-automatica che finiscono spesso con il condizionare l'atto dello scrivere, danno luogo spesso a testi insieme standardizzati e frammentari, legati a formule ripetitive come accade spesso là dove l'oralità e la scrittura debbono convivere.
Ancora più contratta è la scrittura in quegli scambi che vengono chiamati chat cioè chiacchiere, nei quali gli interlocutori dialogano (spesso con una simultaneità così stringente che ricorda le conversazioni in cui più persone parlano contemporaneamente) per mezzo di brevi frasi che mirano all'informalità e soprattutto alla fluidità del parlato. Ma le diverse forme di comunicazione a base informatica tendono di fatto a sovrapporsi, scambiandosi formule e abbreviazioni, in un linguaggio dove le lingue nazionali a loro volta si scambiano con la lingua franca della rete, l'inglese, espressioni anche idiomatiche e forme sintattiche. Aiutandosi con immagini, grafica, musica. Linguaggi insieme tendenzialmente transnazionali e fortemente personali, quasi privati.