"La siepe"

    Letteratura e teatro

    La poesia prende spunto da un discorso elettorale – detto Discorso della siepe – tenuto da Gabriele D’Annunzio in Abruzzo il 22 agosto 1897. D’Annunzio, candidato nel collegio di Ortona a Mare, si rivolge ai proprietari terrieri abruzzesi esaltando il valore della proprietà individuale (rappresentata dalla siepe che cinge i loro campi) su cui poggia la dignità della persona, in contrapposizione al collettivismo socialista[1].

     

    Pascoli, entusiasta del Discorso, scrive un articolo di elogio sotto forma di lettera indirizzato a D’Annunzio, accompagnato dalla poesia La Siepe, che viene pubblicato su La Tribuna del 31 agosto 1827. La poesia è contenuta nell’Accestire[2] che entrerà a far parte dei Poemetti nella seconda edizione del 1900.

     

    La Siepe, come gli altri componimenti dell’Accessire (La canzone del bucato, La veglia, Grano e vino, L’oliveta e l’orto), ha per protagonista una famiglia di contadini di Barga composta dal padre, proprietario di un piccolo podere, dalla madre e da quattro figli. Durante la veglia intorno al focolare, il capofamiglia ringrazia ed elogia la siepe del suo campetto, la recinzione che difende la proprietà suo campo si configura come il segmento di una vicenda che ha inizio nella poesia precedente. L'usanza tipica delle campagne di passare insieme le sere d'inverno che fa da sfondo alle parole del padre, è descritta nella poesia precedente intitolata, appunto, La veglia. È inverno e tutti stanno vicino al fuoco: i genitori, il giovane Nando, il piccolo Dore, Viola e Rosa dalle bianche braccia, di cui è innamorato Rigo; mentre le donne filano e gli uomini bevono un po’ di vino, il padre si rivolge alla siepe e le parla come se fosse una persona, esprimendo la sua visione del mondo e della vita.

     

    La siepe difende la proprietà dai ladri abituati a dormire di giorno (dormi ’l-di[3]) per compiere di notte le loro malefiche imprese; per questo è utile, sacra e benedetta (pia) come l’anello nuziale messo al dito della moglie. Il buon padre ha cura della siepe (rinforzai, ripiantai) e lei, simile a una verde muraglia, lo difende mentre la famiglia prospera e cresce. Grazie alla siepe il contadino non ha padroni (libero e sovrano) nel suo campetto che per lui è grande come una città; per questo, anche se non diventa ricco (non pur ricco mai), vive comunque sereno (più lieto sempre):

     

    I

    Siepe del mio campetto, utile e pia,
    che al campo sei come l'anello al dito,
    che dice mia la donna che fu mia

    (ch'io pur ti sono florido marito,
    o bruna terra ubbidïente, che ami
    chi ti piagò col vomero brunito...);

    siepe che il passo chiudi co' tuoi rami
    irsuti al ladro dormi 'l-dì; ma dài
    ricetto ai nidi e pascolo a gli sciami;

    siepe che rinforzai, che ripiantai,
    quando crebbe famiglia, a mano a mano,
    più lieto sempre e non più ricco mai;

    d'albaspina, marruche e melograno,
    tra cui la madreselva odorerà
    io per te vivo libero e sovrano,

    verde muraglia della mia città.

     

    La siepe è buona: offre agli estranei le proprie bacche (Ha sete il passeggero;/e tu cedei i tuoi chicchi) ma li tiene lontani dalle proprietà del contadino (ma salvi il frutto pendulo del pero); non fornisce prodotti per la dispensa (anfore segrete/della massaia) ma, impedendo l’accesso ai campi, permette alla massaia di raccogliere molte ciliegie; non produce frutti, ma protegge la vite (la siepe è la madre che mi bada) e grazie a lei il contadino ha vino e olio, perciò tutti nel podere, uomini e animali, le sono grati (i galli plaudono dall’aia,/ e lieto il cane…/ abbaia):

     

    II

    Oh! tu sei buona! Ha sete il passeggero;
    e tu cedi i tuoi chicchi alla sua sete,
    ma salvi il frutto pendulo del pero.

    Nulla fornisci alle anfore segrete
    della massaia: ma per te, felice
    ella i ciliegi popolosi miete.

    Nulla tu rendi; ma la vite dice;
    quando la poto all'orlo della strada,
    che si sente il cucùlo alla pendice,

    dice: - Il padre tu sei che, se t'aggrada,
    sì mi correggi e guidi per il pioppo;
    ma la siepe è la madre che mi bada. -

    - Per lei vino ho nel tino, olio nel coppo -
    rispondo. I galli plaudono dall'aia;
    e lieto il cane, che non è di troppo,

    ch'è la tua voce, o muta siepe, abbaia.

     

    La siepe, a differenza del cane che abbaia, non usa la voce (o muta siepe) per difendere il campo, ma le spine. Con questo divieto acuto rivolto verso l’esterno avverte gli estranei (altrui) di non violare la proprietà, mentre con i fiori che sbocciano all’interno esprime amore (assenso) per la famiglia che protegge, un amore fedele e forte come quello del contadino per la sua sposa:

     

    III

    E tu pur, siepe, immobile al confine,
    tu parli; breve parli tu, ché, fuori,
    dici un divieto acuto come spine;

    dentro, un assenso bello come fiori;
    siepe forte ad altrui, siepe a me pia,
    come la fede che donai con gli ori,

    che dice mia la donna che fu mia

     


    [1] Per collettivismo si intende un sistema economico fondato sull’attribuzione alla collettività della proprietà e dell’amministrazione dei beni di produzione.

    [2] Accestire significa “far cesto” e si riferisce alle piante erbacee che mettono rami e foglie alla base del fusto.

    [3] È un’espressione presa da Esiodo (Le opere e i giorni v.603) e usata come apposizione

     

     

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