"Il Principe": la forza dell'immaginario

    Letteratura e teatro

    Per convincere e muover fortemente l’animo, Machiavelli fa ricorso all’immaginario. Il procedimento rigoroso e analitico è espresso con figure plastiche e fantasiose, di grande efficacia, che attraverso l’emotività guidano alla comprensione del concetto:

     

    La metafora arborea[1]

     

    I principati che si acquistano con le armi e le virtù proprie – scrive Machiavelli nel Cap. VII – sono difficili da conquistare ma si tengono con più facilità; accade il contrario per quelli ottenuti grazie alla sola fortuna come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe (le radici) e corrispondenzie loro (e le altre parti comunicanti fra loro); in modo che el primo tempo avverso le spenge … Dall'altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; nonostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si dovea fare, per mettere le barbe sua in quelli stati che l'arme e fortuna d'altri gli aveva concessi.

     

     

    La metafora del Centauro

     

    Sempre nel Cap. XVIII Machiavelli utilizza la figura mitica del Centauro Chirone, precettore di Achille per spiegare come deve essere il principe ideale: chi governa deve avere dentro di sé la bestia e l’uomo, la natura umana e la natura ferina. All’occorrenza, il Principe deve saper usare la bestia che è in lui. Il centauro diventa così un simbolo del potere d’insospettata pregnanza, in cui si riflette la logica di una antropologia antichissima, di una visione del modo anteriore e opposta a quella cristiana[2]:

     

    Dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché il primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l'uomo. Questa parte è suta insegnata a' principi copertamente dalli antiqui scrittori; li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura: e l'una sanza l'altra non è durabile.

     

     

    La Fortuna come donna o fiume in piena

     

    Nel Capitolo XXV, Machiavelli prende di nuovo in esame il rapporto fra virtù e la fortuna (che paragona a una donna) fra le circostanze avverse ( che paragona a fiumi rovinosi) e la capacità del principe di farvi fronte con tempestivi provvedimenti (canali e argini) e comportamenti adeguati (la fortuna è donna ed è necessario, volendola tener sotto, batterla e urtarla). Per governare la Fortuna è necessario che gli uomini si adattino agli eventi, senza rimanere legati alle proprie inclinazioni (ne' loro modi ostinati) e diventino temerari (impetuosi) anche se di natura sono prudenti (respettivi):

     

    Nondimanco perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s'adirano, allagano e piani, ruinano gli arberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla […] Concludo adunque che variando la fortuna e stando li uomini ne' loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e come discordano infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.

     

     

    L’esortazione a Lorenzo

     

    Il capito finale del Principe (XXVI)[3] contiene un appassionato invito al giovane Lorenzo de’ Medici perché divenga il redentore dell’Italia liberandola dagli stranieri (barbaro dominio). Il testo, ricco di figure retoriche ( come la similitudine fra Italia e Israele, la metafora della donna oltraggiata, l’anafora della parola quale), termina con i versi del Petrarca tratti dalla canzone Italia mia[4] .

     

    Machiavelli paragona la situazione dell’Italia alla schiavitù d’Israele, all’oppressione sofferta dai Persiani e dagli Ateniesi: la Casa dei Medici, liberando la penisola compirà un’impresa simile a quella di Mosè (Moisè), Ciro e Teseo:

     

    E se, come io dissi, era necessario volendo vedere la virtù di Moisè che il populo d'Isdrael fussi stiavo in Egitto, e a conoscere la grandezza dello animo di Ciro ch'e Persi fussino oppressati da' Medi, e la eccellenzia di Teseo che li Ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ella è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch'e Persi, più dispersa che li Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, e avesse sopportato d'ogni sorte ruina.

     

    L’Italia è descritta come una persona che sopporta da tempo ogni tipo di oltraggio e invoca Dio perché le mandi presto un salvatore: le sue piaghe sono ormai purulente e se non si interviene potrebbe non esserci più speranza di salvezza:

     

    In modo che rimasa come sanza vita (l’Italia) espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite e ponga fine a' sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenzie barbare.

     

    La ripetizione della parola quale (anafora) dà forza all’interrogativa retorica che, attraverso la negazione, intende affermare la ferma volontà degli italiani ad appoggiare l’impresa dei Medici, perché nessuno più sopporta (a ognuno puzza) il dominio straniero:

     

    Quali porte se li serrerebbano? quali populi li negherebbano la obedienza? quale invidia se li opporrebbe? quale Italiano li negherebbe l'ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre Casa Vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e sotto li sua auspizi si verifichi quel detto del Petrarca

     

    Virtù contro a furore

    prenderà l'arme; e fia el combatter corto,

    ché l'antico valore

    nell'italici cor non è ancor morto.

     



    [1] Fredi Chiappelli definisce “serie arborea” le descrizioni in cui Machiavelli paragona lo Stato a un organismo vivente che mette radici e si sviluppa come una pianta in: Studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze., Le Monnier, 1952

    [2] E. Raimondi, Il politico e il centauro, in Politica e commedia, Bologna, Il Mulino, 1972

    Ezio Raimondi insegna letteratura italiana pressi l’Università di Bologna.

    [3] Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam. Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de’ barbari (traduzione coeva in volgare).

    [4] Virtù contro a furore/prenderà l’arme; e fia el combatter corto,/ché l’antico valore/nell’italici cor non è ancor morto (vv 93-96). 

     

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