La "Moschetta"

Letteratura e teatro

Dopo aver rappresentato la realtà contadina come un dato positivo, vicino ai valori della natura, nella seconda fase della sua produzione Angelo Beolco, il Ruzante, quella realtà viene raffigurata come completamente prosciugata dalla miseria e dalla carestia, che giungono al culmine nel territorio veneto e padovano alla fine degli anni Venti del Cinquecento. Costretti allo sradicamento e all’emarginazione, quanti hanno lavorato e vissuto nelle campagne si ritrovano tra i diseredati delle periferie urbane, sempre più soffocati dalla fame e dall’isolamento.

La vicenda della Moschetta si snoda attorno alle vicende amorose della bella Betìa, moglie di Ruzante e amante di Menato. Respinto dalla donna, questi medita un inganno per riconquistarla: farà ingelosire Ruzante raccontandogli immaginarie infedeltà della moglie, per farli litigare e insinuarsi così di nuovo tra loro. Per mettere alla prova la fedeltà di Betìa, Ruzante, travestito da “spagnolo” si presenta a Betia e la corteggia parlando in lingua “moscheta” (di qui il titolo della commedia), ossia in un linguaggio apparentemente colto, non dialettale. L’intreccio della commedia si snoda attraverso vicissitudini, inganni e tradimenti reciproci ma la vittima finale è Ruzante, annientato fisicamente e moralmente dalla forza disonesta di Menato.

 

Nel Prologo, l’attore si rivolge al pubblico per introdurlo alle vicende che stanno per essere rappresentate sulla scena e per presentare sommariamente i personaggi principali. Anche il Prologo della Moscheta assolve queste funzioni ma, in più, Ruzante coglie l’occasione per definire quell’elemento centrale del suo teatro che è lo “snaturale” (il naturale), cioè il sentimento primitivo che muove le azioni degli uomini e delle donne:

 

Mo’ chi cancaro non sa che con a un ghe tira el snaturale d’inamorarse, el s’inamora de fato? E sí el vuò ben essere desgraziò, che ’l no se cate qualcuna da inamorarse.
E in conclusion, sto snaturale è quelo che ne fa ficare in tal buso, ch’a’ no se ghe fichessàn mè, e sí ne fa fare an quelo ch’a’ no fassàn mè.
Disí-me un puoco, per la vostra cara fé, se ’l no foesse elo, mo’ chi serae mo’ quelú sí poltron e sí desgraziò, che s’inamorasse int’una so comare, e che çercasse de far beco un so compare; se ’l no foesse el snaturale? Mo’ qual è quela femena sí da poco, che fesse male con so compare e che çercasse da far i cuorni a so marío, se ’l no foesse la so natura de ela, che la ghe tira de far cossí?

 

[Ma chi canchero non sa che, quando a uno gli tira il naturale a innamorarsi, subito s’innamora? E può ben essere disgraziato, ma trova sempre qualcuna da innamorarsene.
E in conclusione questo naturale è quello che ci fa ficcare in un tal buco dove non ci ficcheremmo mai, e ci fa fare anche quello che non faremmo mai.
Ditemi un poco, per la vostra cara fede, se non ci fosse lui di mezzo, ma chi sarebbe mai così poltrone, così disgraziato da innamorarsi di una sua comare e da cercare di far becco un suo compare, se non ci fosse di mezzo il naturale? E qual è quella donna così miserabile che facesse male con suo compare e che cercasse di far le corna a suo marito, se non fosse la sua natura che la tira a far così?]1

 

Scrive il linguista Vittorio Coletti che l’uso del dialetto nella commedia del Cinquecento è il segno più esplicito dell’esistenza e dell’assestamento di una norma linguistica nella lingua italiana: «In un certo senso infatti è proprio il raggiungimento della grammatica della lingua ad avere favorito e richiesto l’evasione dialettale: il dialetto si presenta, cosi, come il luogo linguistico di quella realtà non rappresentabile nella lingua lontana dai “parlari del volgo”. Questo significa anche che il dialetto balza sulla scena in funzione di contrasto (sociologico prima che linguistico, comico prima che stilistico) con la lingua, della quale funge da antagonista ed eversore.»2.

 

1 Ruzante, Teatro, a cura e con traduzione di Ludovico Zorzi, Torino, Einaudi, 1967.

2 Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi, 1993, p. 156.

 

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