Emilia-Romagna: testi

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    Per un’ampia bibliografia su scrittori dell’Emilia-Romagna si segnala il sito http://www.bibliotecasalaborsa.it/bibliografie/8417

     

    da Francesco Guccini, Vacca d’un cane, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 21-22

    Micca subito, però. Eri straniero, guardato con sospetto. Avevi scarpe pesanti che tenevano sì la pioggia, ma su quel marciapiedi cittadini annunciavano la tua venuta ore prima in un festante ritmo naccherale di chiodi di ferro sul cemento. Bisognava però conquistare la strada, o una sua parte, e una certa prestanza fisica in scazotate memorabili da qui a qui (sopra e sotto non valeva, scorrettezza indicibile) aiutò non poco. Parlavano poi diverso, un tanto, o meglio, eri tu che parlavi buffo, non proprio le parole, che tranne qualcuna di gioco o rissa e codice differente per lo più ci si intendeva, e i nuovi vocaboli colti al volo e rapidamente usati, perché ostinarsi a chiamare balèstra la sfrómbola o piastre le bambane sarebbe stata sicuramente pervicace perversione. Era sulla pronuncia che un poco slittavi, tu dicevi tu e loro tè, e tè dicevi vènto e loro vénto, pósto e loro pòsto, perché e loro perché. Finché un giorno memorabile, anche senza starci sopra a studiar tanto, capisti che ormai eri scivolato nella parte giusta, eri diventato dei loro, quando tuo padre (babbo, però, non papà, come si fa a dire papà?!) si indignò per una esse strana che tu non ti accorgevi assolutamente di avere. Come si fa a dire scióno, scèi, sciassci, urlava, sono, sei, sassi, sassi, col bochino a culo di gallina e la lingua sibilante attraverso i denti e non mollata a caso a vagolare per la cavità orale. Il risultato fu probabilmente peggiore, finché, credo, ce la diede su, chiudendosi in un doloroso stupore per quel figlio che quasi improvvisamente, sotto gli occhi, gli era diventato straniero. Come straniero? Io lì c’ero nato, in quella casa lì, dove si abitava. Mi riappropriavo semplicemente del mio.

     

    E il lessico esatto e la pronuncia omologata favorirono la reintegrazione etnica, le strane scarpe dimenticate e diventate solo una simpatica nota di colore; poi l’arrivo di un nuovo bimbo, tale Renato, che veniva da Bari, località che sentiva di straniero ed extraneo al solo nominarla, ed in cui pare si dicesse pióve pióve viene il sole, la madónna cóglie vi-óle, piccola recita estemporanea che provocava immediati lazzi e feroci reazioni xenofobe, fecero il resto e completarono la mia assunzione ed assimilazione. La strada era diventata anche la mia.

     

    da Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, Questo sangue che impasta la terra, Milano, Mondadori, 2001, p. 120

    In quello strano movimento di carte Sansovito non si raccapezzava. Chiese sottovoce a uno dei giovani spettatori: «Ma che gioco è?».

    «Ottocento o carte lunghe. È il Tarocchino bolognese.»

    «Come funziona?»

    Il giovane diede un’occhiata al cartaio che ancora mescolava il mazzo: «Sai giocare a tressette? È una specie di tressette briscolato. Ci sono quaranta carte di mazzo e ventidue briscole».

    «Che sono quelle carte strane?»

    «Se le conosci non sono strane. C’è l’Angelo, il Mondo, il Sole…»

    «E quella carta… quella che ha fatto bestemmiare il giocatore quando… quando gliel’hanno mangiata?»

    «Quello è il Bégato. È la briscola più piccola, ma è importante perché serve ad aumentare il valore di certe combinazioni.» Il cartaio aveva cominciato a distribuire e il giovane abbassò il tono: «L’ho detto, è un gioco difficile, ci vuole già del tempo per imparare a contare i punti».

     

    da Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, Questo sangue che impasta la terra, Milano, Mondadori, 2001, p. 144

    Alle quattro del mattino rientrò ai Tre Gobbi e, vestito, si buttò sul letto e accese un sigaro. Nessuna voglia di dormire e nessun bisogno di farlo.

    Scese per la colazione e i clienti se n’erano andati da un pezzo. Stupai in persona gli servì cappuccino e brioche e si portò un caffè anche per sé.

    «Ãˆ stata una brutta notte per via Broccaindosso, vero maresciallo?»

    «Sono tempi brutti per tutte le vie.»

    Stupai cambiò discorso: «Si è divertito al Sanleonardo l’altra sera, signor maresciallo? E con una bella signora, a quanto mi dicono».

    Sansovito sospese la colazione: «Come lo sa?».

    «Eeeh, maresciâl, a san in t’un pajàis, siamo in un paese e la gente sa tutto di tutti». Sorrise con complicità. «Si sarà divertito di sicuro, con quella bella signora.»

    «Ne dobbiamo parlare, signor Stupai, ne dobbiamo parlare ora!»

    «A sua disposizione, signor maresciallo. Lo sa che quando posso… Ma brisa que, non qui che anche i muri hanno orecchie, come si dice» e si alzò per tornare dietro il banco a sfogliare il giornale. Quando Sansovito si alzò, chiamò: «Cataréina! Cataréina, lasa mo’ stèr al stanzi e vieni al banco, che devo uscire un dieci minuti!».

     

    da Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, Lo spirito e altri briganti, Milano, Mondadori, 2002, pp. 13-15

    Lo chiamavano passerino perché era esile e delicato come un passero, al contrario di suo padre, alto, forte e capace di sollevare un sacco di grano da un quintale come se niente fosse. Per questo lo chiamavano Quintale. Faceva il mugnaio al mulino del Turco, quello più a valle, e di sacchi di frumento ne sollevava più d’uno durante la sua giornata di lavoro.

    Quando la moglie glielo sfornò, Quintale se lo rigirò fra le mani enormi, lo guardò da ogni lato, lo depose sul letto, accanto alla madre, se ne tornò al mulino borbottando:

    «L’è mègher come un pasaréin. Csa m’i n fàghia d’un cinno acsé?» Quintale veniva dalla bassa, dalle parti di Vergato e parlava un dialetto montanaro molto vicino a quello bolognese. «L’è mègher come un pasaréin» ripeteva a chi gli chiedeva notizie, e da quel momento suo figlio, che non aveva ancora nome, fu Passerino per tutti.

     

    Nonostante fosse esile e delicato, Passerino di forza ne aveva e Quintale ebbe modo più volte di rimangiarsi la domanda che si era fatto alla sua nascita: «Cosa me ne faccio di un bimbo così?». Se la rimangiò la prima volta quando Passerino aveva sedici anni e successe un guaio al mulino. Avevano portato da macinare delle castagne essiccate soltanto superficialmente ma dentro erano ancora «vizze» e la macina mobile invece di frangere slittava come su una superficie di ghiaccio.

     

    Quintale controllò e bestemmiò rapido e intenso. Adesso bisognava alzare la macina mobile e, con le affilatissime martelline, staccare la patina scivolosa che si era formata (il cerone, lo chiamavano) e rifare il filo di pietra grezza al piano di lavoro. Il tutto avrebbe portato via un bel po’ di tempo, ma il problema era rimettere tutto in asse perfetto. Ci si poteva riuscire in un quarto d’ora o anche perdere un’intera giornata in tentativi.

    Bestemmiò di nuovo poi sospirò e disse al figlio: «Chiama Celso e fatti dare una mano a sistemare il paranco per tirare su l’andadora, in modo che io sistemo tutto e se Dio vuole…» e qui bestemmiò di nuovo «prima o poi torniamo a macinare, che siamo già indietro».

    «Me ne faccio ben un breve io di Celso!» borbottò Passerino e spostò il paranco sulla macina mobile, lo inchiavardò e, girando le due leve del manubrio, tirò su i sei quintali di macina come se non pesasse.

     

    Sul momento Quintale lo guardò a bocca aperta, non proferì parola e si dedicò alla sistemazione della macina, ma da quel preciso momento smise di chiamare il figlio Passerino e passò ad Anselmo, il nome che la madre gli aveva dato in chiesa e che era anche il nome del padre di Quintale, portato via dalla corrente del Vergatello mentre cercava di sistemare i sassi dello sbarramento, e mai più ritrovato. Dissero che era stata la Borda. Un’altra storia di mantanari.

    In osteria Quintale raccontò cos’era stato capace di sollevare, da solo, suo figlio che, a sedici anni, per lui era diventato finalmente Anselmo. Ma era troppo tardi e non servì: per gli altri del paese, il giovanotto continuò a essere il Passerino di prima.

     

     

    Da Loriano Macchiavelli, Sarti Antonio. Di nero si muore, Milano, Oscar Mondadori 2009 (I ed. 2008), pp. 131-132

    Se non vi è mai capitato di passeggiare in Centotrecento, fatevelo capitare. Di notte. È una stradina del centro storico, chiusa fra palazzi e soffocata da un portico basso che non vi permette di vedere altro che dinanzi a voi. C’è ancora l’atmosfera dei secoli passati. E anche l’umidità dei secoli passati, perché il sole ci entra sì e no due ore al giorno, quante gliene occorrono per saltare i tre metri di cielo sospeso sui tetti. Neppure il tempo di scaldare i ciottoli.

    Adesso c’è l’asfalto. I ciottoli ci stanno sotto, imbrattati, soffocati da un catrame merdoso, la poltiglia che sta soffocando il mondo. E finirà per ucciderlo.

     

    La strada è un accatastarsi di finestre, portoni, passaggi, cunicoli… che non si sa dove portino. C’è anche una quantità di buffe, aperture a livello del pavimento dei portici, che chissadio a cosa daranno mai luce e aria.

    Perché si chiami Centotrecento, nessuno lo sa con certezza, nemmeno il nobile e colto Giuseppe Guidicini, che di Cose notabili della città di Bologna ne sapeva più di tutti. Più di me di certo. Scrive il nobile Giuseppe: “Si racconta che Cento di Filippo Trecenti, morto per la peste del 1383, aveva casa in questa contrada, la quale toglieva la comunicazione col Borgo della Paglia. Tolto quetso impedimento, in progresso di tempo la strada prese il nome e cognome del proprietario della casa atterrata”. Ma la storiella è tanto poco credibile che, alla fine, lo stesso Guidicini avverte: “Chi ci ha tramandato il racconto dimenticò di dire in quale anno si aprì questa comunicazione, della quale se ne è data la storiella che deve ritenersi favolosa, non trovandosi che Cento sia stato un nome usato da alcun bolognese, e che il cognome Trecenti abbia mai esistito in alcune delle nostre famiglia”.

     

    Una spiegazione si potrebbe azzardare. Dovete sapere che a poca distanza da questa strada scorreva, e tuttora scorre, il torrente Aposa. Un tempo scoperto, ora è coperto per un buon tratto, e va ad aumentare i chilometri di canali sotterranei, gallerie, cunicoli e altro che corrono, ogni ignoti ai più, sotto la dotta città. Dall’Aposa partiva una ragnatela di canalette che portavano acqua ai tantissimi orti della via, orti dai quali la città traeva nutrimento sotto forma di radicchio, insalata, pomodori, patate…

     

    Naturalmente dopo che Colombo aveva scoperto l’America, perché prima c’era poco da stare allegri. Anche adesso che l’ha scoperta, se devo dire come la penso, c’è poco da stare allegri.

    Ogni canaletta era munita di una paratoia di legno, chiamata in antico “trasenda”, che regolava l’afflusso dell’acqua negli orti. C’erano, a detta degli abitanti d’allora, cento e più tresende e quindi era la strada delle cento tresende. Da cento tresende a Centotrecento, il passo è breve.

    Non so quanto questa storia vi abbia interessato, ma è solo per dare un sapore, un’atmosfera alla strada dove, secondo la telefonata di una sconosciuta, avrebbero “morto” un certo signor Ciang cin.

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