Grazie al preziosissimo apporto di Mauro Pagani (autore di tutte le musiche), Fabrizio De André dà nel 1984 alle stampe un disco per certi versi rivoluzionario e memorabile, Crêuza de mä. Un lavoro etnico dedicato al bacino del Mediterraneo, fatto di suoni e strumenti lontani dalla tradizionale canzone d’autore.
Quello che lascia esterrefatti critica e pubblico è anche la scelta linguistica adottata da De André: il genovese. In qualche modo “depistati” dallo stesso cantautore, molti critici – tra cui i suoi biografi Cesare G. Romana (1991) e Luigi Viva (1999) – hanno parlato di una lingua arcaica, ottocentesca. A ben analizzare, però, l’intero disco, si scopre che le cose non stanno esattamente in questi termini. I termini di derivazione ottocentesca (la presenza delle geminate in cutellu, mandillä, per esempio) si amalgamano con quelli più recenti (lo scempiamento delle geminate in bacan), giungendo persino a scelte non riscontrabili nei principali vocabolari genovesi (l’occlusiva dentale sorda intensa di frittûa). Non vi è, insomma, nessun intento di recuperare filologicamente una lingua arcaica, piuttosto la grande intuizione di creare una lingua mentale, della memoria (della sua memoria), una lingua mai esistita veramente, una lingua poetica.
Da confutare anche un’altra interpretazione troppo spesso accettata acriticamente (e ancora una volta alimentata dallo stesso De André). Quella, cioè, che il dialetto di Crêuza de mä sia una lingua con forti influenze arabe. Come ampiamente dimostrato da uno dei massimi studiosi italiani di arabismi, Giovan Battista Pellegrini, il genovese non presenta maggiori termini di origine araba di altri dialetti. Inoltre, gli arabismi presenti nel disco Crêuza de mä si contano sulla punta delle dita e sono addirittura assenti nella canzone eponima. Non vi è dubbio che il dialetto permetta a De André una maggiore libertà espressiva (oltre che tenutistica). Lo dimostrano la presenza di ossitoni a fine verso che caratterizzano tutto il brano (e molto contenuti nella sua produzione in italiano) o della vocale turbata (anteriore arrotondata) u che ha un grosso impatto allitterativo e onomatopeico (si veda la prima strofa) (Podestà 2003; Angiolani-Podestà 2008).
Da un punto di vista metrico il brano si divide in quattro strofe composte di sei versi endecasillabi tronchi con rima baciata. Crêuza ha fatto epoca sia nella produzione di Faber, da quel momento sempre più orientata al plurilinguismo (come si vede negli album successivi, Nuvole e Anime salve), sia come prototipo di una canzone “neodialettale” i cui semi danno frutti ancor oggi (con uso prevalentemente lirico del dialetto nei cantautori, oppositivo e polemico nei gruppi) (Coveri 2007).