Il cielo in una stanza (G. Paoli), 1960

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Gino Paoli. Foto di Maurizio Neri. Fonte: Flickr. Licenza: CC-BY-NC-ND 2.0

«Ad esempio, io avevo la volontà di descrivere l’orgasmo: il fare l’amore e quell’attimo dopo tu sei proiettato nell’infinito, sei tutto e non sei niente. Quel momento, puoi provarci cento volte, ma non riuscirai mai a descriverlo. Però se tu descrivi come una spirale tutto quello che c’è intorno, è come se ricostruissi il centro [...]. Così ho scritto Il cielo in una stanza: le pareti, la finestra, la musica da fuori, ed ho cercato di ricostruire il momento» (Angiolani 2004).

 

Tra le canzoni più amate di tutti i tempi, portata al successo inizialmente da Mina (Paoli non figurava nei credits perché non ancora iscritto alla SIAE), tradotta in quattro lingue, sette milioni di copie vendute nel mondo, Il cielo in una stanza è un esempio significativo e precoce delle novità apportate ai testi dai cantautori genovesi: il brano si presenta completamente destrutturato, con quattro strofe di lunghezza differente, l’assenza di un vero e proprio ritornello e come chiusa, dopo un intermezzo strumentale, un congedo che riprende l’ultima strofa. Notevole anche la quasi totale mancanza di rime o ritorni fonetici.

Inoltre, anche se il tema dell’orgasmo non si presentava palesemente agli ascoltatori dell’epoca, è originale la descrizione surreale ma al tempo stesso figurativa, si direbbe pittorica, dell’incontro amoroso. Si è di fronte ad una reificazione dei sentimenti: dominano le forme (stanza, pareti, alberi, soffitto), i colori espliciti o evocati (il verde degli alberi, l’azzurro del cielo e, su tutti, il viola del soffitto, concreto riferimento alle stanze di una casa d’appuntamenti), fino ai suoni dell’ultima strofa (suona un’armonica/ mi sembra un organo/ che vibra per me e per te).

 

In assenza di rime e ritornelli i legami interni sono sostenuti soprattutto dalle riprese di vocaboli: le anadiplosi (alberi vv.2-3; no, non v. 7; niente v. 12) e le anafore (soprattutto cielo, me, te, vere parole chiave del testo). Le scelte lessicali (equilibrate per stile, registro e suono, si direbbe quasi stilnoviste) consolidano l’alchimia di questo piccolo capolavoro.
 

Quando sei qui con me
questa stanza non ha più pareti
ma alberi,
alberi infiniti.
Quando sei qui vicino a me
questo soffitto viola
no, non esiste più.
Io vedo il cielo sopra noi
che restiamo qui
abbandonati
come se non ci fosse più
niente, più niente al mondo.
Suona un’armonica
mi sembra un organo
che vibra per te, per me
su nell’immensità del ciel.



Marzio Angiolani
[Da: Italia linguistica: gli ultimi 150 anni, nuovi soggetti, nuove voci, un nuovo immaginario, a cura di Elisabetta Benucci e Raffaella Setti, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 82-83].

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