"Canto notturno di un pastore errante dell'Asia"

    È l'ultimo dei canti pisano-recanatesi (Grandi Idilli), scritto a Recanati nel 1830. Nelle note ai Canti, Leopardi afferma di essersi ispirato al libro di memorie di viaggio del barone Meyendorff, in cui veniva descritta la vita dei pastori turchi, i Kirghisi, che “passano la notte seduti su un sasso a contemplare la luna, e a improvvisare parole molto tristi su arie che non lo sono meno”[1]. Nella poesia di Leopardi il pastore si rivolge alla luna e le pone domande sul senso della vita (a che vale / al pastor la sua vita?) a cui lui non sa rispondere: forse la silenziosa luna, che da sempre viaggia solitaria nel cielo (eterna peregrina) e conosce le cose del mondo riesce comprende (intendi) il mistero dell'esistenza umana, il perché di questo viver terreno, fatto di dolore e sofferenza (il patir nostro, il sospirar, che sia) che ha come destino la morte (questo supremo / scolorar del sembiante) e la perdita delle persone care (amante compagnia). Ma le domande del pastore sono destinate a rimanere senza risposta.



    [1]Traduzione della nota di Leopardi, in francese, in cui cita quanto scrive il barone Meyendorff nel “Journal des savants”, uscito a Parigi nel 1826

     

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