De Nittis, "Taccuino. 1870-1884"

A Napoli

 

Volevo diventare un pittore. Di qui la grande collera di Vincenzo [Vincenzo De Nittis, fratello più grande di Giuseppe  e capo famiglia].

A Napoli e più ancora nei nostri paesi di provincia, essere artisti vuol dire “bohême”. Per lo meno allora i borghese la pensavano così.

Se avessi detto che volevo fare il muratore o il tagliapietre, l’indignazione di Vincenzo non sarebbe stata maggiore. Avrei disonorato la mia famiglia.

Ostinato, io intanto ripetevo:

-Sarò pittore!

E me ne andavo vagabondando per le strade, procurandomi tele e colori come potevo mentre la mia educazione artistica si veniva formando da sola.

Non contano i risultati, solo l’ideale conta. E se io sono riuscito a infondere nella mia pittura un po’ di quella mia ardente passione per la natura, di quel mio profondo amore per lei, ebbene soltanto questo conta […].

Così, ogni mattina, prima dell’alba, uscivo di casa e correvo a cercare i miei compagni pittori, molto più grandi di me, Rossano e Marco de Gregorio. […] Che bei tempi! Con tanta libertà, tanta aria libera, tante corse senza fine! E il mare, il gran cielo e i vasti orizzonti!

Lontano, le isole di Ischia e Procida; Sorrento e Castellammare in una nebbia rosea che, a poco a poco, veniva dissolta dal sole.

E, da per tutto, un profumo di menta selvatica e di aranceti, che io adoro. Chiacchieravamo fraternamente con i marinai, i contadini, le donne e le belle ragazze.

A volte, felice, restavo sotto gli improvvisi acquazzoni. Perché, credetemi, l’atmosfera io la conosco bene; e l’ho dipinta tante volte. Conosco tutti i colori, tutti i segreti dell’aria e del cielo nella loro intima natura. Oh, il cielo! Ne ho dipinti di quadri! Cieli, cieli soltanto, e belle nubi.

La natura, io le sono così vicino! L’amo! Quante gioie mi ha dato! Mi ha insegnato tutto: amore e generosità. […] È con il loro cielo che io mi raffiguro i paesi ove sono vissuto: Napoli, Parigi, Londra.

Li ho amati tutti. Amo la vita, amo la natura.

Amo tutto ciò che ho dipinto.

 

Napoli 1874

Vincenzino [Il nipote del poeta] ci aspetta alla stazione […]. – Ah! Peppino [Diminutivo di Giuseppe]! Quanti cambiamenti troverai qui! Da quando Roma è diventata capitale d’Italia, ogni giorno è una metamorfosi. Hanno allargato le strade, costruito comodi palazzi moderni e perfino un magnifico mercato. Se non siete troppo stanchi andiamo a piedi, il cocchiere [Colui che guida la carrozza] è fidato, lo conosco, porterà lui i bagagli.

In quanto ai miglioramenti e ai cambiamenti, ehm! Troppi ne avevo visti dopo il 1870 e non mi avevano affatto incantato. La Napoli che io amavo era quella ingenua e pittoresca, dall’incomparabile animo poetico e io adoravo tutto di lei, le sue passioni, le sue violenze e perfino le sue selvagge esplosioni di collera. Io non amo la lingua italiana, trovo che manca di virilità ed è troppo solenne, preferisco il mio caro dialetto, facile e colorito e soltanto in quello riesco a esprimermi con spirito!

Della Napoli d’altri tempi, quella della mia giovinezza, tutto mi incantava, dalle grida dei venditori, degli acquaioli [Antico venditore ambulante di acqua fresca e bibite], dei pescatori, dei verdurai [Venditori di ortaggi] e degli innumerevoli rivendigliuoli [Piccoli venditori ambulanti] che traggono dalla strada il loro sostentamento, fino a quell’immenso mormorìo ininterrotto che sale come un soffio rivoltoso sin alle altezze di San Martino [Convento dei monaci certosini sulla collina del Vomero che sovrasta la città] in quell’aria che è di una tale sonorità da far talvolta distinguere con chiarezza le parole che provengono dal basso.

 

(G. De Nittis, Taccuino 1870/1884, Bari, Leonardo da Vinci, 1964, pp. 25-26, 28-29 e 91-92)