L'italiano regionale

Varietà dell'italiano
Anteprima: 
Le varietà che presentano tratti di provenienza dialettale

Gli italiani regionali, nell’ambito della lingua parlata, rappresentano senza dubbio le varietà maggiormente diffuse e rappresentate in Italia. Con italiani regionali si intendono infatti le diverse realizzazioni dell’italiano che dipendono dalle tradizioni linguistiche della regione di provenienza del parlante. La presenza forte del regionalismo linguistico è una specificità della realtà italiana, senz’altro più che per altri Paesi, e si deve alla lunga storia di separazione politica della comunità italiana e dal relativamente recente processo di unificazione.

 

In questa sezione, per maggiore schematicità e immediatezza nella consultazione, abbiamo scelto la suddivisione delle varietà linguistiche in base alle regioni amministrative, ma è opportuno chiarire che le regioni linguistiche non corrispondono esattamente a quelle amministrative, avendo, in realtà, confini più sfumati. Proprio per questo nella descrizione capita di illustrare fenomeni che si riscontrano in più regioni, anche molto distanti tra loro. L'italiano regionale si distacca notevolmente dai veri e propri dialetti, mentre la sua distanza dall'italiano, specialmente dall'italiano dell'uso medio, è a volte poco rilevabile.

 

All’interno di ogni regione sono indicati i principali tratti fonetici, morfosintattici e lessicali che distinguono ciascun italiano regionale rispetto all’italiano; per l’intonazione più difficile da descrivere, ma molto rilevante per il riconoscimento dei diversi italiani regionali, sono stati scelti alcuni spezzoni di materiali audiovisivi che possono restituire in maniera molto più immediata fatti intonativi e caratteristiche dell’emissione fonica. Per esemplificare le possibili realizzazioni scritte e completare il quadro di ciascun italiano regionale è stata inserita una piccola, ma significativa, antologia di brani letterari (e non) che presentano tratti e interferenze regionali.

 

(A cura di Raffaella Setti)

Abruzzo e Molise

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Ancora non sono del tutto sparite, nella denominazione di questa regione, alcune oscillazioni che restano il segno di una similarità e di una sovrapposizione tra zone geograficamente e storicamente molto unite: Abruzzi-Molise (come si trova nella Costituzione del 1948), oppure Abruzzi, con un plurale che ben rappresenta anche le varietà linguistiche presenti in questo territorio. Non si può trattare l'italiano regionale abruzzese (e molisano) prescindendo dalle diverse aree dialettali di questo territorio che, nel processo di formazione delle varietà regionali, ne hanno determinato il carattere misto. La regione è stata profondamente interessata, negli anni Cinquanta-Sessanta da migrazioni sia interne, dalle zone montane verso la costa, sia verso Roma e le regioni italiane settentrionali, ma anche molto consistenti verso il Canada e l'Australia. Negli stessi anni si è formato il tipo linguistico regionale con tratti fonetici comuni alle varietà dell'italiano meridionale e una certa resistenza ad assimilare elementi lessicali italiani in sostituzione a quelli dialettali corrispondenti.

 

A un'analisi più dettagliata, si distinguono due zone: quella aquilana o sabina, con prevalenza di tratti di tipo centrale; quella abruzzese, nella parte orientale, con un italiano regionale unitario di tipo alto meridionale nelle strutture di base, ma in cui si distinguono due varietà, quella presente nelle zone montuose della fascia appenninica e quella parlata lungo la zona costiera.

 

La posizione dell'Abruzzo (e del Molise), di passaggio tra nord e sud, ha favorito influenze toscane e anche settentrionali (in particolare lombarde), nonostante il lungo dominio esercitato dal Regno di Napoli su queste regioni. Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i collegamenti soprattutto verso il Lazio e Roma che è diventata meta migratoria, anche come semplice pendolarismo, per molti abruzzesi. In questo processo di attrazione esercitato dalla capitale si sono ulteriormente evidenziati i tratti sabino-laziali (quelli in particolare della provincia di Rieti) dell'italiano parlato nell'area occidentale dell'Abruzzo.

Basilicata

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Per questa regione non è possibile individuare e descrivere un unico italiano regionale; regione meridionale, nell’italiano regionale conserva però alcuni tratti di tipo galloitalici (settentrionali) dovuti a fenomeni migratori di epoca angioina. Inoltre, Potenza, città capoluogo, non ha svolto quel ruolo di punto di riferimento tipico dei centri principali e non si è di conseguenza realizzato quel processo di uniformazione e amalgama della lingua regionale. L’italiano regionale della Basilicata si compone quindi di tratti meridionali (napoletani, ma non solo), dovuti alla forte immigrazione dalla provincia verso Potenza, e dalla tipica parlata potentina che conserva forme di tipo settentrionale.

 

Approfondimenti

L’arbëreshë è la lingua parlata in alcuni comuni dell’Italia meridionale e della Sicilia; si tratta di una varietà antica di albanese, diverso quindi dall’albanese attualmente parlato in Albania, portato in Italia nel XIII secolo da colonie albanesi che hanno dato vita anche a una lunga tradizione letteraria. I parlanti (circa 120.000 persone) dei comuni in cui ancora si mantiene la tradizione dell’arbëreshë sono oggi, nella maggior parte dei casi, bilingui (con alternanza italiano/albanese); alcuni mantengono anche la varietà dialettale con quindi una gamma a tre varietà. La Calabria è la regione che vede la maggiore presenza di comunità arbëreshë, contando ancora circa 58.000 persone che parlano la lingua originaria su un totale di circa 88.000 appartenenti alla comunità italo-albanese. Importanti comunità arbëreshë abitano in almeno 30 Comuni della Regione, in particolare in provincia di Cosenza.

Nell’analisi dei tratti linguistici si prendono in esame le caratteristiche dell’italiano parlato a Potenza con la distinzione degli esiti propri del dialetto del luogo rispetto alle forme che trovano una loro giustificazione nei caratteri dei dialetti galloitalici. La pronuncia dell’italiano nelle altre aree della regione risente dei tratti dialettali locali, per cui, ad esempio, a Muro Lucano, Bella e altri centri vicini si riscontra l’inserimento di una -g- prima di una vocale iniziale di una parole preceduta da un’altra vocale; nella provincia di Matera i tratti fonetici relativi all’articolazione aperta o chiusa delle vocali sono più vicini a quelli del pugliese.

 

In Basilicata è presente la numerosa minoranza etnica e linguistica albanese d'Italia (detta Arbëreshë).

 

 

Le comunità sono tutte in provincia di Potenza, e sono cinque paesi: Barile (Barilli), Ginestra (Zhura), Maschito (Mashqiti), San Costantino Albanese (Shën Kostandini), San Paolo Albanese (Shën Pali). La comunità albanese ha nei secoli preservato, seppur in maniera diversa fra loro, i connotati etnici, linguistici, religiosi e culturali specifici degli Arbëreshë, e ancora oggi mantengono e difendono le proprie tipicità etniche che li diversificano dalla cultura circostante. Un tratto molto importante è la lingua albanese (Arbëreshë), parlata dalla comunità intera. I cartelli, le insegne e gli scritti ufficiali comunali in questi paesi sono bilingui, sia in italiano che in albanese, per quest'ultima vige il riconoscimento dello stato e la condizione di co-ufficialità con l'italiano.

Calabria

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Dall’unità d’Italia a oggi molti sono stati i fattori che hanno favorito in questa regione il passaggio da una competenza quasi esclusivamente dialettofona (con percentuali altissime di analfabetismo) all’uso dell’italiano: la scuola, anche serale per adulti, promossa attraverso campagne di sensibilizzazione che, soprattutto tra gli anni Venti e Quaranta, furono molto diffuse ed efficaci; inchieste e ricerche dedicate al problema con il coinvolgimento anche di intellettuali di rilievo come, ad esempio, quella di Corrado Alvaro che nel 1952 pubblicò un saggio proprio dal titolo Analfabeti (contenuto nella raccolta Il nostro tempo e la speranza. Saggi di vita contemporanea, Milano, Bompiani, 1952) che resta a testimoniare l’impegno e la buona accoglienza da parte della popolazione di iniziative volte a innalzare il livello di alfabetizzazione e quindi di partecipazione alla vita sociale.

 

Approfondimenti

L’arbëreshë è la lingua parlata in alcuni comuni dell’Italia meridionale e della Sicilia; si tratta di una varietà antica di albanese, diverso quindi dall’albanese attualmente parlato in Albania, portato in Italia nel XIII secolo da colonie albanesi che hanno dato vita anche a una lunga tradizione letteraria. I parlanti (circa 120.000 persone) dei comuni in cui ancora si mantiene la tradizione dell’arbëreshë sono oggi, nella maggior parte dei casi, bilingui (con alternanza italiano/albanese); alcuni mantengono anche la varietà dialettale con quindi una gamma a tre varietà. La Calabria è la regione che vede la maggiore presenza di comunità arbëreshë, contando ancora circa 58.000 persone che parlano la lingua originaria su un totale di circa 88.000 appartenenti alla comunità italo-albanese. Importanti comunità arbëreshë abitano in almeno 30 Comuni della Regione, in particolare in provincia di Cosenza.

Anche il fenomeno dell’emigrazione, decisamente forte negli anni successivi alla seconda guerra mondiale dalla Calabria verso soprattutto il nord Europa (Germania in particolare), ha rappresentato una spinta indiretta alla conquista dell’italiano: l’urgenza di comunicare con i familiari, ma soprattutto la presa di coscienza della necessità di istruzione come presupposto per migliorare le condizioni di vita, proprie e delle generazioni successive, sono state motivazioni forti che hanno decisamente favorito l’apprendimento e la diffusione dell’italiano.Oggi, nonostante la Calabria sia una tra le regioni in cui il dialetto in ambito familiare è ancora molto parlato (i dati ISTAT del 2006 riportano che in Calabria il 31,3% dei parlanti dichiara di usare in famiglia solo o quasi solo il dialetto), l’italiano è posseduto dalla maggior parte dei parlanti, anche qui, naturalmente, in larga misura nella sua varietà regionale. Numerosi i comuni calabresi, soprattutto nella provincia di Cosenza, in cui si parla ancora l’albanese antico, l’arbëreshë, delle colonie ottomane, stabilitesi in alcune località dell’Italia meridionale fin dal XIII secolo.

 

Il dato più interessante per l’analisi dell’italiano regionale calabrese è la posizione linguistica della regione, attraversata dai confini che distinguono i dialetti meridionali dai dialetti meridionali estremi (che comprendono il siciliano, i dialetti della parte meridionale della Calabria e del Salento. I tratti dialettali segnano il passaggio da un’area linguistica a un’altra e si riflettono nell’italiano regionale che si presenta, nella zona settentrionale, con caratteristiche analoghe a quelle dell’italiano regionale delle regioni confinanti (Campania e Basilicata), mentre nella parte meridionale, con i tratti delle parlate siciliane.

Campania

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Come nel caso del Lazio in cui la capitale ha svolto il ruolo di catalizzatore anche linguistico, anche nella Campania è presente una varietà dialettale che determina un sostrato unitario dovuto all'egemonia culturale e linguistica della città di Napoli.

 

Proprio Napoli infatti, già dal Cinquecento, ha rappresentato il centro di cultura di una vasta regione in cui letterati, scrittori, intellettuali hanno operato nella ricerca di una lingua letteraria sovraregionale; sarà poi dall'Ottocento che l'italiano vedrà una vera e propria diffusione in Campania grazie a un'ampia circolazione di cultura e lingua dalla città alle province. Bisogna considerare poi anche i moltissimi apporti stranieri (soprattutto spagnoli e francesi) dovuti al controllo della regione da parte di regnanti di altre nazioni. Con l'Unità d'Italia e l'istituzione dell'obbligo scolastico e, in particolare per questa regione, grazie anche all'opera di diffusione dell'italiano da parte del marchese Basilio Puoti, l'italiano inizia a diffondersi e a sovrapporsi alla generale e diffusa dialettofonia. Puoti inaugurò un metodo che sarebbe diventato fondamentale nell'insegnamento dell'italiano alle popolazioni dialettofone: soprattutto per quel che riguarda il lessico, propose il continuo confronto tra parole dialettali e corrispondenti italiane (o meglio toscane, es. “bambola quella che i fanciulli chiamano pupata e che dicesi anche fantoccio in toscano” – PUOTI 1833 p. 45).

 

Come anche in altre regioni italiane, un ruolo determinante ha svolto la lettura scolastica e quindi costante e diffusa di opere come i Promessi sposi, e poi Cuore, Pinocchio. In Campania però ha una grande tradizione letteraria anche il dialetto (si pensi alla poesia di Salvatore di Giacomo o al teatro di Eduardo De Filippo) e, ancora oggi, quindi a italianizzazione avvenuta, i legami con la cultura dialettale sono molto forti: l'italiano regionale quindi risente di questo radicamento alle origini, di questo attaccamento a cose e parole.

Emilia-Romagna

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Il processo di acquisizione e diffusione dell’italiano nella regione dall’Unità d’Italia a oggi è stato inizialmente molto lento e frammentario. La penetrazione dell’italiano è avvenuta, almeno in una prima fase, nella cultura popolare: nei canti di lavoro e sociali, ma anche in quelli rituali, e nelle ballate diffuse dai cantori ambulanti. Spesso italiano e dialetto si sono alternati, anche in forma di dialogo (magari tra padrone e contadino), riproponendo uno stereotipo che affonda le sue origini nella commedia dell’arte, ma che progressivamente è stato esteso anche nella rappresentazione di fatti di attualità e in spettacoli di generi vari (dai burattini alle esibizioni di cantastorie e poeti di piazza).

 

Nei centri maggiori, in particolare a Bologna dove c’è l’Università, la lingua del dibattito culturale è sempre stato l’italiano anche se nella regione, nel corso del Novecento, non sono sorti periodici culturali analoghi a quelli fiorentini e quindi la circolazione delle idee e della lingua che le ha veicolate ha avuto confini più locali. Ha assunto invece sempre più importanza «Il Resto del Carlino» che, da foglio regionale, è diventato uno dei quotidiani nazionali più prestigiosi e ha contribuito in maniera determinante alla diffusione di un italiano variegato caratterizzato da molti registri e sottocodici.

 

Come nella maggior parte delle regioni settentrionali, anche in Emilia-Romagna, oggi l’italiano si estende sempre di più con una conseguente regressione del dialetto che resta nel parlato delle fasce più anziane o più svantaggiate dal punto di vista socio-culturale. L’italiano regionale si è formato su una base dialettale ripartita internamente in due aree principali: quella orientale con bolognese, romagnolo e ferrarese (con una certa autonomia di quest’ultimo) e quella occidentale con piacentino, parmense, reggiano e modenese.

 

Questa frammentazione spiega, a livello regionale, nell’uso parlato, la mancanza di un italiano uniforme, con la presenza invece di tante varietà locali seppure segnate anche da tratti comuni: le differenze sono legate anche a fattori sociolinguistici come la fascia socio-culturale, l’età e il sesso dei parlanti. La situazione linguistica è rappresentabile pertanto in un continuum che vede, a un estremo, una varietà di italiano modellata sulla lingua comune e, dall’altro, una varietà ancora interessata da tratti tipicamente dialettali che si riscontrano maggiormente nella fonetica (la famosa “esse salata” emiliana e romagnola), ma anche in forme lessicali provinciali o sub-regionali. Tratti che sono stati accolti, a fini espressivi e realistici, anche nella lingua della narrativa, in particolare da parte di autori attenti a riprodurre le radici del territorio e della cultura popolare.

Friuli Venezia Giulia

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Nel territorio del Friuli Venezia Giulia, regione autonoma istituita nel 1964, convivono due realtà storico-culturali diverse anche sul piano linguistico: la parte con popolazione che parla dialetti di ceppo friulano (circa 430.000 persone) e la parte che comprende la città di Trieste e le frange dell’area giuliana e istriana comprese nel territorio italiano (gran parte di quest’area è stata integrata nel territorio sloveno e croato).

 

I dialetti di ceppo friulano (che si dividono in carnico, occidentale e centro-orientale) sono concentrati nelle province di Udine, Pordenone e Gorizia anche se nel goriziano coesistono con lo sloveno. La cultura regionale friulana è decisamente molto viva e la consapevolezza di una identità linguistica ben precisa è sostenuta da iniziative associazionistiche, ma anche editoriali ed accademiche, per la valorizzazione e diffusione delle parlate friulane: negli ultimi decenni il problema principale della rivitalizzazione dell’idioma e della cultura tradizionali è stato quello dell’elaborazione di una varietà sopralocale che tenesse conto della precedente koinè letteraria alla luce però delle istanze della nuova generazione di scrittori e letterati, primi fra tutti Pier Paolo Pasolini. Il processo di promozione del friulano a lingua ufficiale affiancata all’italiano non è stato interessato però, almeno fino ad anni recenti, da spinte anti-unitarie; anzi, nei territori della regione rimasti all’Austria fino al 1918 la rivendicazione della specificità locale, alimentata anche dalla riflessione scientifica del glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli e dai suoi Saggi Ladini (1873), ha sostenuto i movimenti irredentisti filo-italiani.

 

A Trieste e nei principali centri urbani della regione si parla una varietà di italiano interessata da tratti veneti che trova le sue radici nel veneto tecnico delle attività mercantili e marinare che, fin dal XIV secolo, si diffuse sulla costa adriatica e nelle grandi città di mare in stretti rapporti con la Serenissima. Questa varietà nel corso dell’Ottocento ha sostituito progressivamente il tergestino, il dialetto friulano tradizionale di questa zona, tramandato e conservato tenacemente dai nobili locali. Le vicende storiche della città di Trieste hanno determinato il persistente conflitto, anche linguistico, tra l’elemento slavo (rappresentato almeno dal 10% della popolazione triestina) e quello italiano: negli ultimi decenni si è accentuato il sentimento di localismo triestino che è largamente confluito nel sostegno e partiti che si sono presentati come difensori dell’italianità.

La minoranza slovena (circa 60-80.000 persone) si concentra nella zona di confine tra la regione e la Repubblica di Slovenia, chiamata Slavia Veneta, e nelle zone rurali intorno a Gorizia, oltre che nella città di Trieste. Altra isola linguistica presente nella regione è quella delle comunità germanofone della Carnia e del Tarvisiano che parlano un dialetto di probabile origine tirolese. Una zona particolarmente interessante, per il plurilinguismo che vi è rappresentato, è quella della val Canale tra Pontebba e Tarvisio dove si alternano e si sovrappongono la parlata germanica carinziana, lo sloveno e il friulano affiancate dall’italiano, dal tedesco e dallo sloveno standard.

Lazio

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L'italiano regionale del Lazio è stato riconosciuto come una varietà a sé stante nel quadro complessivo degli italiani regionali. Questo è dovuto principalmente alla precocità con cui è avvenuto il processo di italianizzazione in questa regione, in particolare a Roma e nella vasta area gravitante intorno alla capitale.

 

Roma capitale ha infatti favorito due processi: da un lato la tendenza a “ripulire” la lingua parlata dei tratti maggiormente connotati come dialettali o comunque popolari e ad adottare una varietà più vicina possibile a quella standard (di stampo fiorentino, ma senza i tratti maggiormente connotati della pronuncia); dall’altra, grazie al ruolo assunto appunto da Roma di luogo di irradiazione della lingua nazionale, la diffusione di una nuova varietà della lingua nazionale, denominata anche “varietà romana”. Infatti la presenza degli organi amministrativi e burocratici dello Stato, delle agenzia di stampa nazionali, dei principali studi cinematografici e televisivi ha fatto sì che si concentrassero in un unico luogo le principali fonti di uniformazione e diffusione di un modello linguistico che ha retto almeno fino agli anni ’80 del Novecento, quando, Milano, con l’affermazione del nuovo polo delle telecomunicazioni, ha in parte ereditato il ruolo di centro modellizzante.

 

Pur in questo quadro di grande accentramento intorno alla capitale, nel Lazio si sono conservate varietà linguistiche fortemente connesse alla cultura tradizionale di centri come Viterbo, Rieti, Frosinone. Roma continua comunque a svolgere il suo ruolo di mediatrice di italianizzazione anche per i molti immigrati che specialmente dal sud, ma anche dal nord, vi si sono trasferiti nel corso di tutto il Novecento. Anche se il dato saliente è l’italianizzazione delle parlate che sono entrate in contatto nella capitale, questi movimenti migratori hanno prodotto anche flussi nella direzione opposta e il romanesco ha acquisito tratti dialettali delle zone vicine.

 

Il modello romano ha avuto senza dubbio un’affermazione estesa con però differenze di accoglimento e di esiti. In una descrizione dei fenomeni più caratteristici della varietà romana dell’italiano sarà opportuno distinguere quelli generali da quelli connotati da interferenze dialettali “altre” o da varietà popolari e gergali (quindi diastraticamente basse).

 

Liguria

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Il territorio della Liguria ha avuto una precoce formazione in Stato regionale, con una definizione territoriale e una notevole autonomia rispetto all’Italia settentrionale già a partire dal VI-VII secolo. Fin dall’inizio, Genova ha svolto il ruolo di centro egemone della regione e, grazie all’importanza assunta dal suo porto, ha intessuto rapporti con i più importanti centri commerciali marittimi del bacino del Mediterraneo. Anche se, dal punto di vista linguistico, le parlate liguri rientrano nel gruppo dei dialetti italiani che comprende il piemontese, il lombardo e l’emiliano romagnolo, le tradizioni della regione hanno mantenuto una certa autonomia rispetto all’Italia settentrionale e molti sono stati gli apporti provenienti dai diversi idiomi dell’area mediterranea.

 

Come in tutte le regioni italiane fino al Novecento le lingue parlate sono state prevalentemente i dialetti, ma in Liguria il naturale processo di erosione dei dialetti, avvenuto nel corso dell’ultimo secolo, è stato decisamente più veloce e ha investito fasce di popolazione più ampie. Se è vero che all’inizio del Novecento si nota ancora una certa resistenza all’adozione dell’italiano - sono famose le pagine dell’Idioma gentile in cui Edmondo De Amicis (ligure, nativo di Oneglia) offre un ampio repertorio di regionalismi caricaturali – è però testimoniato dalle inchieste che si sono susseguite dagli anni Cinquanta in poi, che la Liguria sia diventata una delle regioni più italofone. L’italiano infatti entra come lingua familiare anche per la borghesia e la classe operaia: si parla italiano con i figli per dar loro lo strumento necessario ad avanzare socialmente.

 

L’italiano regionale attuale si caratterizza in particolare per alcuni tratti lessicali, localismi ed espressioni idiomatiche, spesso oggetto di ironia a caricature da parte non solo di scrittori, ma anche attori di teatro e di cinema, da Gilberto Govi a Paolo Villaggio, e tra i comici Beppe Grillo e Antonio Ricci (con il personaggio del Gabibbo). Un ruolo decisivo nella diffusione di voci dell’italiano regionale ligure l’hanno avuto senza dubbio grandi scrittori da Montale (vedi la sezione dei testi) a Calvino, ma anche i più recenti Nico Orengo e Francesco Biamonti e poi musicisti e cantautori, in particolare la famosa “scuola genovese” con Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e Luigi Tenco (anche se nativo di Alessandria) che hanno inaugurato lo stile “parlato” nella canzone italiana che giunge fino a Ivano Fossati e Francesco Baccini. Il genovese arcaico è stato ripreso nel lavoro di recupero storico-filologico di Fabrizio De André nei suoi Creuza de mâ (1984) e Le nuvole (1990), mentre Paolo Conte, benché astigiano, ha rappresentato perfettamente il carattere genovese nella sua Genova per noi (1976).

Lombardia

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L'italiano regionale della Lombardia non è riconducibile a un'unica varietà: la regione infatti è caratterizzata dalla presenza di più italiani regionali con fenomeni - soprattutto fonetici – distinti da quelli del parlato di Milano. Milano infatti ha svolto il ruolo di mediazione e di riferimento soprattutto per le parlate della parte occidentale della Lombardia, mentre l’area orientale risente dell’influsso dei modelli delle provincie di Bergamo e Brescia.

 

Sono comunque individuabili alcuni tratti comuni alle parlate di tutta l'area lombarda che, in alcuni casi, si sovrappongono a quelli tipici dell'italiano regionale di tipo settentrionale.

Marche

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Per questa regione non è possibile parlare di italiano regionale unitario; infatti la storia linguistica della regione ha prodotto una tripartizione linguistica con una fascia settentrionale (province di Pesaro e Urbino) influenzata dalle parlate romagnole, una fascia centrale (province di Ancona e Macerata) con tratti misti e di transizione influenzati dalle parlate umbre, laziali e aquilane; una fascia meridionale (provincia di Ascoli) in cui si riconoscono tratti abruzzesi. Nessun centro cittadino marchigiano è riuscito infatti a imporre la sua parlata e, nel passaggio dai dialetti agli italiani regionali, si sono formate delle varietà sub regionali che condividono solo alcuni tratti. L’identità locale si è quindi sviluppata più nella direzione dell’appartenenza a una città o a una provincia che nel riconoscimento in una realtà regionale unitaria: questa situazione ha senza dubbio favorito il persistere di una circolazione culturale e linguistica con le regioni confinanti.

Piemonte

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Alla formazione della varietà regionale piemontese hanno contribuito vari fattori che trovano le loro radici dall'Unità nazionale del nostro paese. Fin dal periodo risorgimentale infatti in Piemonte, territorio storicamente bilingue, in cui francese e dialetto piemontese convivevano da secoli, il movimento patriottico fu caratterizzato da una particolare attenzione alla lingua italiana: fu fortemente affermato il ruolo fondamentale dell'italiano come fattore di unità; il francese fu progressivamente limitato ai territori della Savoia (che tornarono alla Francia) e alla Val d'Aosta dove non mancarono proposte di italianizzazione contrastate da intense azioni di difesa delle tradizioni linguistiche locali; il dialetto, lingua parlata anche dalle persone colte e in contesti molto formali (è risaputo che Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia, parlava in dialetto ai suoi ministri) perse terreno a favore dell'italiano sulla spinta di quei fattori di unificazione linguistica che operarono su tutto il territorio italiano.

 

La particolarità del Piemonte fu la concentrazione e la velocità con cui agirono l'industrializzazione, l'obbligo scolastico, l'urbanizzazione. La nascita della Fiat nel 1899 portò a un fortissimo aumento della popolazione e alla formazione di un movimento operaio (formato da lavoratori provenienti da ogni parte d'Italia, in particolare dalle regioni del sud) che favorì il contatto con la lingua italiana da parte delle masse attraverso la circolazione di italiano parlato (propaganda, comizi, assemblee) e scritto (in volantini, opuscoli, giornali, libri).

 

Naturalmente anche nel caso del Piemonte, il capoluogo Torino ha rappresentato il centro di attrazione diventando il punto di riferimento economico e culturale e quindi esercitando, anche sul piano linguistico, un'egemonia riconoscibile. Da Torino infatti si è irradiata la diffusione dell'uso dell'italiano, mentre il dialetto resta ancora oggi molto presente nella provincia, specialmente nelle zone che hanno conservato un'econmia prevalentemente agricola.

 

Per quel che riguarda l'italiano regionale, in Piemonte sono individuabili alcuni tratti comuni alle parlate di tutto il nord-ovest che, in alcuni casi, si sovrappongono a quelli tipici dell'italiano regionale settentrionale.

Puglia

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Nel quadro dei dialetti italiani la Puglia appartiene all'area dei dialetti meridionali, ad eccezione del Salento, la parte dell'estremo sud della regione (corrispondente indicativamente alla provincia di Lecce più parte del territorio delle province di Taranto e Brinidisi), che rientra nel gruppo dei dialetti meridionali estremi insieme alla Sicilia e alla parte più meridionale della Calabria.

 

Per quanto riguarda il processo di italianizzazione, al momento dell'Unità italiana, la Puglia era la regione più arretrata con un tasso di scolarizzazione inferiore all'8% della popolazione. Molto lentamente questo forte divario è stato in parte colmato e nel 1951 il tasso di analfabetismo era al 24%. Come nelle altre regioni, anche qui ha sicuramente influito l'obbligo scolastico, ma la Puglia è stata anche una delle regioni con il maggior numero di emigranti verso le regioni del nord Italia, oltre che verso paesi stranieri. Questo fenomeno ha prodotto, al rientro di coloro che avevano trascorso molti anni fuori, un dinamismo linguistico che ha senza dubbio favorito il processo di italianizzazione.

 

Il quadro attuale è quindi decisamente cambiato con un'italofonia diffusa che, come nel resto d'Italia, risente di tratti locali e dà quindi luogo a una varietà regionale caratterizzata da pronunce e usi riconoscibili che vanno considerate separatamente per la Puglia centro-settentrionale (province di Bari e Foggia e una parte del territorio tarantino e brindisino) e la Puglia meridionale salentina (provincia di Lecce più parte del territorio delle province di Taranto e Brinidisi).

Sardegna

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La realtà linguistica sarda è contraddistinta da una significativa frammentazione dialettale in cui sono riconoscibili alcune aree principali, prima di tutto quella logudorese (nella parte centro-settentrionale) e quella campidanese (nella parte meridionale), a loro volta con forti differenziazioni interne. Si tratta quindi di una situazione in cui il cosiddetto “sardo” è in realtà l’insieme di parlate che non rientrano nel numero dei dialetti italiani, e che non si riferiscono neanche a un’unica lingua-tetto di carattere regionale diversa dall’italiano letterario. Anche il logudorese, che anticamente ha svolto, più delle altre varietà, la funzione di volgare illustre e ha circolato in forme letterarie anche fuori dall’isola, oggi non è più avvertito come rappresentante unico della dialettofonia della Sardegna.

 

Anche in Sardegna, in un quadro interessante di plurilinguismo in cui persistono i dialetti sardo-corsi, l’algherese e il tabarchino, l’italiano si è sempre più diffuso a scapito delle lingue locali tradizionali, soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione. Resta difficile definire il rapporto che intercorre tra italiano e sardo che continuano a coprire funzioni diverse: i parlanti, pur sentendo l’italiano come lingua estranea rispetto alle altre lingue locali, le attribuiscono ormai il prestigio di lingua “ufficiale” e la varietà sarda viene sempre più limitata alla comunicazione quotidiana. Com’e avvenuto in tutta Italia nel corso del Novecento, ma qui in modo particolare, l’italiano è stato riconosciuto come la lingua dell’avanzamento sociale, la lingua che dava opportunità di miglioramento delle condizioni di vita e, nello spirito pratico e utilitaristico tipico dei sardi, ha potuto estendere aree e contesti d’uso.

Sicilia

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Dal secondo dopoguerra la Sicilia è stata pienamente coinvolta nel percorso di unificazione e consolidamento sociale e linguistico dell'Italia repubblicana. Il dialetto, fortemente diffuso in tutti gli strati sociali, ha cominciato a essere limitato alla comunicazione informale mentre, progressivamente, si è strutturata sempre più nettamente la varietà dell'italiano regionale. L'istituzione dell'autonomia regionale (la Sicilia diventa regione a statuto speciale nel 1946), dal punto di vista linguistico, produce due effetti apparentemente contrari: da un lato il processo di italianizzazione si accelera soprattutto negli ambiti di comunicazione ufficiale, dall'altro si assiste a una rivalutazione e valorizzazione del dialetto come elemento di identità.

 

Dagli anni '60 del Novecento, grazie alla mobilità delle persone e all'avvento dei grandi mezzi di comunicazione di massa, in Sicilia come nel resto d'Italia, il sistema geolinguistico, in cui si potevano riconoscere varietà linguistiche in relazione ad aree geografiche, si è sempre più trasformato in un sistema sociolinguistico, in cui risultano più evidenti e determinanti le variabili sociali (strato sociale, genere, età, ecc.).

Toscana

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La storia linguistica della Toscana si differenzia rispetto a quella di tutte le altre regioni italiane per la continuità storica che si è mantenuta tra l’uso quotidiano generalizzato e i testi di lingua che hanno formato la nostra tradizione letteraria. Non c’è stato quindi quel totale scollamento tra lingua parlata e scritta, tra dialetto e lingua, ma un intreccio complesso e molto vario di forme e modi che si ritrova in quella varietà che è, in molte circostanze al tempo stesso, dialetto e lingua.

 

Anche in Toscana, pur in una coincidenza di massima tra confini amministrativi e confini linguistici, bisogna distinguere alcune aree particolari: la Lunigiana con la presenza di dialetti di tipo settentrionale e la zona appenninica confinante con la Romagna in cui dominano le parlate romagnole.

 

Tra le varietà toscane, il fiorentino, che in passato ha esercitato una netta egemonia, oggi non rappresenta l’unico punto di riferimento per l’individuazione dell’italiano regionale; anzi, è forse la parlata con maggiori tendenze dialettizzanti. Proprio questa sua specificità ha indotto studi e analisi dirette che stanno portando alla realizzazione di un Dizionario del fiorentino contemporaneo. Il lessico, soprattutto quello concreto della comunicazione quotidiana, è infatti senza dubbio il settore in cui la tradizione locale resiste di più e dove i tratti regionali possono emergere con maggiore evidenza.

 

Intonazione e pronuncia, pur muovendosi nella direzione della “norma” nazionale (ormai diversa dal toscano), hanno mantenuto e, per certi aspetti rafforzato, le loro caratteristiche: in particolare la spirantizzazione (la tipica pronuncia “aspirata”) di [k], [t], [p] intervocaliche e il passaggio di s postconsonantica a z. Il settore maggiormente censurato resta la morfologia i cui tratti regionalmente connotati tendono a sparire in contesti più formali e sorvegliati.

 

In un sistema in cui italiano e toscano sono largamente coincidenti si avvertono le poche incongruenze: alcune peculiarità, superficialmente lessicali ma che spesso investono anche altri ambiti, riguardano termini che assumono particolari significati in alcune aree specifiche, come ad esempio sempre che a Lucca è usato con il valore di ‘ancora’, o via che nell’aretino ha il significato di ‘via di città’; l’aggettivo/pronome codesto, che investe anche il sistema morfologico della lingua, rimane del tutto “naturale” nell’uso toscano, a fronte della connotazione decisamente letteraria che assume al di fuori della regione.

 

Per quello che riguarda le nuove generazioni, alcune indagini degli ultimi anni, hanno evidenziato il deciso indebolimento dell’uso di voci locali e tradizionali (come desinare per ‘pranzo’, tocco per ‘l’una’, cencio per ‘straccio’), pur persistendo, anche nei più giovani e nei più scolarizzati, una competenza passiva, una disponibilità di queste parole nello strato più profondo della memoria linguistica che riemerge ad ogni nuovo occasionale ascolto.

Trentino e Alto Adige

Varietà dell'italiano

Per tracciare un quadro delle parlate di questo territorio è necessario ripercorrerne, almeno per sommi capi, la storia linguistico-culturale. Se attualmente infatti non si può prescindere dalla unificazione in Regione a Statuto speciale del Trentino-Alto Adige, resta però opportuno descrivere la situazione linguistica tenendo, per quanto possibile, distinte le due aree principali: il Trentino, annesso all’Italia dopo la Prima Guerra mondiale, e l’Alto Adige (Südtirol), con centro principale Bolzano, in cui la lingua indigena è il tedesco che, come tale, si è sviluppato e articolato su più livelli, dallo standard letterario, alla lingua colloquiale, al dialetto. In alcune valli dolomitiche si parla poi il ladino, una lingua romanza, riconosciuta dalla nostra Costituzione tra le lingue di minoranza e custode di una cultura molto forte e compatta dal punto di vista identitario.

 

La differenza fondamentale tra le due aree è rappresentata dalla presenza in Trentino di una base dialettale riconducibile ad altri dialetti italiani settentrionali che ha lasciato tracce nell’italiano regionale attuale; l’Alto Adige costituisce invece un’area a maggioranza alloglotta, per secoli parte del mondo germanico e quindi storicamente germanofona. Con la fine della Prima Guerra mondiale e l’annessione dell’Alto Adige al territorio italiano è iniziata una sorta di reitalianizzazione: un processo che non ha previsto passaggi intermedi e che, per questo, ha portato alla diffusione di una varietà di italiano che molti studiosi hanno riconosciuto come più vicina allo standard italiano, proprio per la minor presenza di influenze dialettali sottostanti. La situazione linguistica attuale prevede due lingue ufficiali, italiano e tedesco affiancate da una terza entità, il ladino, linguisticamente neolatina, ma con un forte radicamento culturale tedesco, parlata in alcune valli dolomitiche.

 

La diversa storia delle due aree che oggi costituiscono la regione (in cui peraltro Bolzano resta Provincia autonoma) ha effetti negli usi linguistici attuali. In Trentino l’italiano regionale trentino, da alcuni studiosi non riconosciuto fino a qualche decennio fa, ma oggi effettivamente presente, è la lingua della comunicazione, con influssi dialettali più o meno marcati al variare del contesto: in situazioni pubbliche i tratti riconducibili al dialetto si limitano al livello fonetico, mentre in situazioni informali, private e familiari, investono anche i livelli morfosintattico e lessicale. Recentemente è stata riaffermata da più voci la specificità della varietà bolzanina, ricondotta, per molti aspetti, a una varietà regionale analoga a quelle di molti altri capoluoghi italiani.

 

L’Alto Adige è un esempio di attuazione del plurilinguismo: sono riconosciute due lingue ufficiali, l’italiano e il tedesco, che godono di un prestigio sostanzialmente paritario, ma la situazione di diglossia riguarda tutte e due le lingue nel rapporto con le rispettive varietà (dal livello standard ai dialetti) che si intrecciano tra loro. Dal 1972 per i cittadini della regione è obbligatorio il patentino di bilinguismo per poter accedere a posti pubblici nella Provincia: nonostante questo, la parte della popolazione di madrelingua italiana oppone ancora notevoli resistenze all’apprendimento del tedesco per timore di perdere i legami più profondi con la cultura tradizionale. La popolazione altoatesina di lingua tedesca appare invece molto più consapevole del valore del bilinguismo: favorita anche dalla persistenza dell’insegnamento scolastico dell’italiano mostra un’ottima padronanza grammaticale dell’italiano, pur mantenendo un ricorso “naturale” e più sicuro al lessico tedesco.

 

Per l’italiano altoatesino la varietà regionale sembra avere forti tendenze di standardizzazione: su un fondamento di matrice settentrionale, le nuove generazioni bilingui usano una varietà di italiano regionale più vicina alla varietà standard dell’italiano. Le prime migrazioni furono infatti venete e trentine, mentre solo dopo la Seconda Guerra mondiale si sono avuti apporti dal centro-sud: questo ha prodotto una varietà regionale di stampo settentrionale a cui anche gli immigrati provenienti da altre regioni si sono largamente uniformati.

Umbria

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Prima dell’unificazione nazionale anche questa regione era caratterizzata da un diffuso analfabetismo che, nella comunicazione orale, ha coinciso con una persistente dialettofonia. Con l’unificazione nazionale, anche in Umbria hanno agito i molti fattori di diffusione dell’italiano, la centralizzazione amministrativa e burocratica, la scuola, i grandi mezzi di comunicazione di massa. Pur in un contesto di progressiva espansione dell’italiano, i dialetti hanno continuato a essere utilizzati e hanno influenzato le varietà di italiano che restano tutt’oggi presenti nella regione. Come è avvenuto nelle Marche, si è mantenuto, anche in Umbria, un diffuso policentrismo linguistico: nessun centro urbano è diventato polo di attrazione e irradiazione culturale e linguistico capace di rendere unitario e omogeneo l’italiano regionale umbro. I linguisti hanno individuato almeno tre grandi aree in base alle rispettive varietà locali di italiano parlato:

  1. la varietà perugina che si parla in un raggio di circa 45 km intorno alla città di Perugia e che presenta tratti affini alle varietà parlate nelle provincie toscane di Arezzo e Siena;

  2. la varietà altotiberina presente nei comuni a nord di Perugia con elementi di continuità con le parlate dell’area marchigiana settentrionale;

  3. la varietà sud-orientale (spoletina) delimitata a nord dal fiume Chiascio e a destra da Tevere con tratti vocalici perugini, ma anche caratteristiche fonologiche di stampo toscano.

Valle d'Aosta

Varietà dell'italiano

La Valle d'Aosta rappresenta un caso a sé per quel che riguarda la presenza e la descrizione di una varietà di italiano regionale. L'istituzione della regione autonoma della Valle d'Aosta risale alla Costituzione del 1948, ma il suo territorio era già parte del Regno d'Italia fin dalla sua unificazione e rappresentava uno dei più antichi stati sabaudi di lingua francese. Con l’unità d’Italia, ma ancor di più nel periodo fascista, la Valle d’Aosta ha visto un lento processo di italianizzazione che ha investito soprattutto la toponomastica (i nomi delle località erano tutti francesi e il regime tentò un sistematico adattamento all’italiano); la regione resta comunque, per la sua storia e la particolare conformazione del suo territorio, un vero e proprio laboratorio linguistico naturale. Le valli strette e profonde, la posizione di confine tra Europa mediterranea e Europa del Nord, secoli di scambi commerciali e culturali hanno creato una ricchissima varietà di lingue e dialetti in uso anche oggi.

 

La lingua italiana, la lingua francese, i dialetti francoprovenzali e di radice tedesca si intrecciano e si fondono in un mosaico straordinario che si realizza e si trasforma ogni giorno nelle attività quotidiane e nelle ricorrenze tradizionali.

La lingua parlata quotidiana più diffusa è il patois valdôtain, anche se in realtà si distinguono due aree: la Valle alta (parte occidentale della regione), che ha risentito maggiormente dell’influsso dei patois savoiardi e che comprende anche Aosta dove maggiore è l’influenza del francese (lingua ufficiale); la Valle bassa (parte orientale della regione) in cui coesistono tratti arcaici e maggiormente conservativi del francoprovenzale insieme a tratti più chiaramente piemontesi. E, in effetti, la varietà dell’italiano regionale presenta tratti fonetici, morfosintattici e lessicali analoghi a quelli del Piemonte. Un esempio che illustra in modo chiaro questa “separazione” (che non è ovviamente rappresentata da un taglio netto, ma piuttosto da una fascia mediana di transizione) è rappresentato dal modo di designare la volpe. Il francese antico utilizzava la parola goupil, dal latino popolare vulpiculus, ma dal XIII° secolo, grazie al successo del Roman de Renart (Renart era un nome di persona attribuito a una volpe molto astuta), renard ha soppiantato l'antico goupil per diventare il nome corrente usato per indicare questo animale. L'alta Valle ha seguito il modello del francese e ha adottato il termine renard, mentre la bassa Valle ha conservato la variante più arcaica, gorpeui.

 

Questa suddivisione di massima rientra in un quadro di grande varietà e variabilità: i patois valdostani, pur presentando un’unità di fondo che li fa convergere all’interno del sistema delle parlate francoprovenzali, sono estremamente numerosi e diversificati.

Veneto

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Il Veneto, in epoca postunitaria, è stata tra le regioni in cui i fattori di italianizzazione dei dialetti, come l’istruzione, le migrazioni e anche la prima guerra mondiale, hanno agito in modo costante e relativamente veloce. Già dalla fine dell’Ottocento ci sono testimonianze di studiosi e scrittori (in primo luogo E. De Amicis nel suo Idioma gentile che descrivono la formazione della varietà veneta dell’italiano. Nel corso del Novecento quindi l’italianizzazione ha fatto grandi progressi anche se, sul fronte dell’uso del dialetto in famiglia, il Veneto è ancora ai primi posti delle statistiche nazionali.

 

L’italiano regionale del Veneto non è del tutto uniforme: ben caratterizzate risultano le varietà veneziana e quella delle zone montane; inoltre Verona città presenta una varietà molto più influenzata dal dialetto sottostante rispetto alle altre province della regione.

Bibliografia

Varietà dell'italiano