9.3. Gli equilibri della moda

Moda e design

Evocando lo stile Liberty sorge un’immagine di donna flessuosa e conturbante nelle fluide vesti, che si “avvita” sul vitino di vespa a disegnare la celebre “linea a S” con la mimica di un serpente incantato: dal breve strascico fino alla fiera testa dritta sul collo fasciato, a incoronarsi nel grande cappello piumato. Donne sensuali e sfuggenti come le dinamiche pennellate di Boldini, loro sommo interprete; donne dai nomi indelebili nella memoria collettiva: Lina Cavalieri, Marguerite Rejan, Loïe Fuller, Bella Otero, Sarah Bernhardt, donna Francesca Florio, marchesa Casati … Dame dell’aristocrazia e dive dello spettacolo sono i simboli di seduzione e di eleganza Belle Epoque, fra matinées e soirées, all’ippodromo o a teatro, seguite da signori compiacenti nei relativi tight e frac o smoking (unica “novità” nell’armadio maschile).

 

Seguendo la forte marca simbolista dell’epoca, si può evocare in quell’avvitamento l’elica dei nuovi motori che domavano le leggi della statica: l’automobile, l’aereo, fino alla pellicola del neonato cinema, che si srotolava davanti a platee cittadine sempre più ampie e popolari… Tutto accelerava e si disarticolava, come ben intuivano gli artisti più acuti: così gli occhi, languidi o alteri dei ritratti “conformi” delle dame, ora fissano immoti dai volti sgangherati delle “Demoiselle” di Picasso, con la crudezza di un rito voodoo: è il 1907, la linea a “S” è divenuta una “Z” che perfora l’opprimente busto: e Poiret ne afferra subito il concetto proponendo una linea che ricorda lo stile impero, un modo di vestire più semplice e pratico, con la vita alta e la gonna stretta e lunga, con quel tanto di orientalismo che alla fine conquista il gusto delle donne, surclassando definitivamente le Maisons Worth e Doucet, suoi passati maestri.

 

Il bon ton ovviamente comportava una veste per ogni occasione, adeguata al ruolo mondano da interpretare: abiti da casa, da passeggio, da carrozza, da visita, da ballo, da lutto, da mezzo lutto e, in grande auge, abiti da viaggio e per lo sport. È chiaro che a stabilire le regole era sempre il bel mondo à la mode, di elevata appartenenza sociale; regole poi diffuse alle donne della media borghesia attraverso le proliferanti riviste femminili (e non) “calmierate” dagli eccessi, rivedute e corrette verso la stabilizzazione di un tipo di donna più “addomesticata”, ma più realistica, quella che decreterà il trionfo del tailleur.

Al di là di tutte le avanguardie (tali anche le “suffragette”), erano presenti sul territorio una quantità di iniziative e personaggi, molte delle quali donne appunto, che operavano al dissodamento e alla semina di un nuovo parterre di operatori e acquirenti preparati, consapevoli delle istanze della modernità, in costante equilibrio fra tradizione artistico-artigianale e diffusione industriale, che costruiranno le solide basi di una rinascita nazionale, fuori dal clamore mondano, che porterà qualche decennio e qualche “guerra” dopo, al “miracolo” del Made in Italy. Professionisti impegnati nella didattica, nel giornalismo di settore, nell’associazionismo, come Rosa Genoni, Rosa Menni Giolli e tutti quei professionisti impegnati nelle scuole per l’apprendimento delle “arti applicate”: a Milano, Torino, Firenze, Venezia, Napoli, Monza … alcune già attive da decenni, altre in formazione.

 

È in questa tornata di anni che si formano i nuclei di molte future aziende leader del settore: ora di impianto più artistico- artigianale, da Maria Monaci Gallenga a Vittorio Zecchin, o dalla vocazione più industriale come Luigi Bianchi che nel 1907 costituì il nucleo originario dell’attuale Lubiam, o imprenditori come Senatore Borletti, i Marzotto, Ermenegildo Zegna, Nazareno Gabrielli nella lavorazione del cuoio, firma tra le più prestigiose nell’industrial design applicato alla moda e, prima ancora, Giuseppe Borsalino (dal 1834), che portò la sua collaudata fabbrica di cappelli ad essere, al volgere del secolo, all’avanguardia industriale e nella politica assistenziale. Molti furono anche gli enti promotori e i comitati: fra i più importanti quello lombardo per “Una moda di pura arte italiana” (1909), o le iniziative nell’ambito dell’Esposizione Universale di Torino del 1911, con la realizzazione del Palazzo della Moda. Gli intenti erano chiari: “D’ora innanzi non sarà più una necessità spostarsi dal nostro centro solito di lavoro o di affari, né intavolare lunghe noiose corrispondenze con le case estere per vestire con solida eleganza” (La Donna, 1911. Periodico. Numero speciale per l’Esposizione torinese).

9.3.1. La moda “pratica”, tailleur, paletot e abiti per lo sport

Moda e design

Spensieratezza, ottimismo e divertimenti, feste, concerti, balli e ricevimenti: tale è la prima impressione lasciata ai posteri dalla Belle époque, con la sua moda vaporosa e spumeggiante. Ma l’aspetto più incisivo, quello per cui “niente sarà più come prima” è il fenomeno dell’inurbamento che, in crescendo dall’Unità d’Italia, inizia a colpire anche il bel paese, soprattutto l’industrioso nord.

 

Nelle città la vita si fa frenetica, cambia il modo di vivere, di abitare, di muoversi e di divertirsi. Gli spazi sono più ristretti, più “costruiti” e al contempo dispersi nel tessuto cittadino: da casa al lavoro, dal lavoro al cinema, al museo, al teatro, al parco … e poi di nuovo a casa, fino alla domenica: a passeggio sul “corso”, sul fiume, a pattinare o in campagna, magari a cavalcare, al tennis, al golf, o ancora meglio in gita, a sciare, nuotare … in villeggiatura. Insomma, un su e giù da carrozza a cavalli, tram e omnibus, automobili per i più fortunati e tante biciclette.

 

Così, mentre a Parigi le maisons de l’haute couture divenivano sempre più raffinate interpreti dei desideri delle gran dame di salotti e palcoscenici, altrove si brigava per rendere la vita quotidiana più agevole. In prima linea vi erano gli angloamericani, basti citare le Bloomers, a metà Ottocento, la Rational Dress Society o il chimico scozzese Mackintosh, per entrare nel vitale campo delle innovazioni tessili.

Ma il vero simbolo della donna nuova fu il tailleur. Composto da giacca e gonna (per il pantalone dovremo attendere ancora qualche decennio), il primo tailleur deriva dalla tenuta da equitazione ed è mutuato dal guardaroba maschile, tanto che, per la particolarità del suo taglio rigoroso, occorreva un sarto da uomo, in francese, appunto, “tailleur”. Le signore dell’alta società riconobbero la praticità di questo capo e iniziarono a indossarlo anche per passeggiare o per eventi pubblici. La paternità del capo va a John Redfern, specializzato in abiti sportivi e da cavallo, il preferito dalla regina Alessandra, moglie di Edoardo VII e icona di stile negli eleganti tailleur da viaggio. Fu appunto il sarto inglese a dare nel 1885 una linea precisa al nuovo “capo”, da indossare solo nelle ore del mattino e accentuato da accessori mascolini come il gilet e la cravatta. Le donne che dovevano misurarsi nelle diverse professioni, adottarono con gioia il tailleur, per la sua praticità e duttilità a varie situazioni: comparvero camicette lavorate con passamanerie, merletti e bottoni; corsetti molto meno attillati e gonne lunghe, tessuti leggeri e meno severi, in linea con il gusto del momento.

 

La diffusione degli sport richiese indumenti appropriati per ambo i sessi anche se quello femminile, per ovvi motivi di decenza, comportava maggiori compromessi: il costume da bagno doveva permettere il movimento in acqua, ma scoprire meno epidermide possibile; il completo da amazzone per l'equitazione comportava una lunga gonna a strascico, per coprire le gambe quando la donna cavalcava, scomodamente seduta di fianco sulla sella. Per i nuovi sport, come il golf, il tennis, lo sci e la bicicletta (dopo il 1890 comparirono gli abiti per le cicliste e i primi tentativi di ripudio della sottana con larghi calzoni alla zuava, chiusi sotto il ginocchio e una corta tunica a nascondere i fianchi), si avranno comode giacche di maglia e golf più sportivi,con la relativa ascesa dell’industria della maglieria e della maglia-stoffa, il jersey, che nel primo dopoguerra sarà il cavallo di battaglia di Chanel.

 

Dall’inizio del nuovo secolo si diffusero i paletots, soprattutto per l'inverno, tipici soprabiti maschili con chiusura a doppio petto e lunghezza fino al ginocchio che assunsero una linea sempre più diritta e larga con l’abolizione del taglio in vita e ampliando i revers del collo. Si preferì per il paletot un colore più chiaro rispetto a quello dell'abito e vennero proposti anche modelli più sportivi accanto a quelli più eleganti. Inarrestabile la nuova moda del “trench-coat” (soprabito da trincea): doppio sprone alle spalle, spalline, cinturini ai polsi e al collo, grande bavero e cintura con fibbia rettangolare foderata in pelle. Già nel 1824, a Glasgow, Charles Mackintosh impiantò la prima fabbrica di soprabiti in tessuto impermeabile di lana di suo brevetto, seguito da Burberry, che dal 1856 produsse il primo modello di impermeabile in gabardina. Lo trasformò in un capo da uomo e da donna, curandone anche l’eleganza A partire dal 1920, il Burberry in versione classica di soprabito impermeabile, doppio petto, beige, con fodera tartan beige, a righe nera e rossa, maniche a raglan e cintura, è proposto con successo fuori dall’ambito militare e diviene un classico dell’abbigliamento maschile. Da non scordare il Barbour, giaccone impermeabilizzato in cotone oleato, oilskin, venduto, a partire dal 1894, da John Barbour nel suo negozio della città marittima inglese South Shields, rappresenta un caso esemplare di identificazione di un marchio con un prodotto.

Questi capi, di taglio più semplice e essenziale permisero una rapida produzione industriale anche per la minore specializzazione richiesta alla mano d’opera. Inoltre parte del lavoro poteva essere gestita all’esterno, soprattutto per la maglieria, aspetto che ne permise una grande espansione anche in Italia In Toscana, Empoli ne divenne un centro di produzione, dalla Barbus in poi (1907); al nord sorse la English Fashion Waterproof (1912, poi Valstar).

 

BIBLIOGRAFIA

Ivan Paris, Oggetti cuciti. L'abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli anni Settanta, Franco angeli Ed., 2006

9.3.2. Donne, artiste e vecchi merletti

Moda e design

Ad alimentare la schiera di donne industriose (senza distinzione di classe sociale) negli anni “belle epoque”, concorrono molte attività legate al settore della moda. Giornaliste, sarte, decoratrici, artiste come Maria Rigotti Calvi, che studiano e insegnano, come Rosa Genoni, sarta, pubblicista, socialista anti interventista, che cercò sempre di applicare nelle sue collezioni, nei costumi teatrali, nella didattica (dal 1905 è alla Società Umanitaria di Milano, direttrice e insegnante della Sezione sartoria della Scuola professionale femminile e docente di Storia del costume), le nozioni apprese nell’apprendistato parigino, adattandole al tessuto sociale italiano, battendosi per la formazione di un’associazione di lavoratrici nel campo della moda e sostenendo la produzione di abbigliamento su scala industriale, come strumento di democratizzazione della società. Tuttavia restò sempre convinta che lo studio del passato artistico avrebbe ispirato il rinnovamento: ciò che infatti più si ricorda di lei sono gli abiti ispirati al Rinascimento italiano, come il manto di corte alla Pisanello o l’abito in raso rosa pallido con la preziosa sopravveste di tulle color avorio a ricami floreali come la Primavera di Botticelli, tutti realizzati con tessuti autoctoni a ulteriore difesa del patrimonio nazionale.

 

Sulla stessa linea Rosa Menni Giolli (tra le fondatrici dell’UDI, Unione Donne Italiane nel 1945), attiva soprattutto nel settore tessile, di cui riprende la tradizione nazionale innovandola tramite tecniche e stilemi orientali, come il batik giavanese (particolare pittura su cotone, diffusa dall'Esposizione universale di Parigi del 1900). Anche la Liberty &co. richiese a Rosa alcuni disegni e lo stesso d’Annunzio, versione di dandy italico, le ordinò cuscini, tappeti e anche pigiami e vestaglie per il Vittoriale. A ornare la dimora del poeta concorrerà anche Vittorio Zecchin, artista di Murano, a contatto con artisti della Secessione viennese, autore del ciclo pittorico-decorativo Le Mille e una notte (1914) all’Hotel Terminus, “capolavoro della pittura liberty a Venezia”. Considerato il primo vero designer del vetro, avvierà la rinascita della tradizione muranese: interprete dell’unione delle arti, progettò anche arazzi e ricami (reinventando gli antichi merletti delle anziane donne nel “punto mio”, che imita con fili di lana e seta la consistenza della pennellata dei suoi quadri) in stretta collaborazione con il laboratorio di ricamo della contessa Pia di Valmarana e destinata ad estendersi anche a Maria Monaci Gallenga, come dimostrano le più importanti mostre di arte decorativa fino agli anni ‘30.

 

Oltre al recupero delle tradizioni locali, alcune società (ispirandosi alle esperienze inglesi dei vari Morris, Mackmurdo, o alla produzione Wiener Werkstätte), vollero realizzare tessuti, ricami e merletti con motivi creati da artisti contemporanei; molte erano promosse da nobildonne, come le contesse Lina Bianconcini Cavazza e Carmelita Zucchini, che intendevano offrire alle lavoratrici precarie una "industria sussidiaria, senza distoglierle dalla famiglia". Nel 1901 si unirono alla Aemilia Ars di Bologna, la società cooperativa creata nel 1898 dall'architetto Rubbiani e dal conte Cavazza, che forniva modelli tratti dal repertorio antico alle industrie e ai laboratori artigiani di gioielli, sculture, arredi in ferro battuto e mobili, riletti in gusto decisamente Liberty. Ma fu proprio la “nuova” sezione, l’unica a sopravvivere alla liquidazione del 1904 e continuare una prospera attività fino al 1936.

 

BIBLIOGRAFIA:

A. Antoniutti, Il tessuto Liberty: dalla tradizione al “nuovo stile”, in Il Liberty in Italia

Barbara Cantelli, L'Aemilia Ars di Antonilla Cantelli, Nuova S1