6.1. Moda nel XIX secolo

Moda e design

Pochi periodi sono tanto ricchi di novità e fermenti come il XIX secolo, foriero di continui stimoli di analisi che chiariscono anche molti episodi del presente.

Impossibile fare una breve panoramica anche solo dei cambiamenti formali dell’abbigliamento, che di per sé non ci racconterebbero molto: la moda, ormai abbastanza matura nel suo senso di immagine, continua a modulare e diffondere le sue fogge in modo sempre più connesso alla struttura economica e sociale di appartenenza. Applicando alcuni fondamentali criteri ne possiamo tuttavia seguire la logica interna, convinti che nemmeno il più irrazionale ghiribizzo modaiolo ne è realmente estraneo.

“Niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma”, notava lo scienziato-economista-filosofo Lavoisier alla vigilia della Rivoluzione che doveva seppellire l’ancienne regime. Ed ecco che la purezza neoclassica, nemica dell’ostentazione, si trasforma attraverso il Direttorio nel fasto Napoleonico e poi ancora nella Restaurazione, un termine che lascia poche speranze alle istanze progressiste. Ma verso la fine del secolo un mai lenito classicismo tornerà, cangiato, a liberare il corpo della donna “nuova” dalle gabbie di una bellezza innaturale. Così alle velate tuniche che vestivano le attitudes di Lady Hamilton, risposero un secolo più tardi quelle che avvolgevano le danze libere di Isadora Duncan, lasciando ai Fortuny e ai Poiret il compito di diffonderne infinite varianti nei guardaroba delle signore più emancipate degli inizi del XX secolo.

 

Che sia una nazione o l’altra a portare il vessillo della novità è una questione squisitamente politica. Anche assegnare la palma della propositività all’una o l’altra arte, oppure alla scienza, il cammino dell’innovazione nel XVIII secolo sarà inarrestabile. Dovendo accordare già agli anni maturi del Settecento il merito della grande rivalutazione delle arti applicate (che si celebri il ruolo dell’Illuminismo e dell’Encyclopédie o si invochino le notturne riunioni degli sperimentatori della Lunar Society di Birmingham), è indubbio che il confronto, compreso lo scontro, con l’innovazione tecnologica, sarà sempre più ravvicinato e inevitabile. E si potrà cominciare davvero a parlare di Design nelle sue varie ramificazioni, compreso quello della Moda.

6.1.1. L’abito maschile: imprenditori vs Dandy

Moda e design

La maggiore attiguità dell’uomo con la pratica del lavoro aveva già provveduto a riformare la struttura dell’abito maschile durante il secolo precedente, stabilizzandosi attorno alle varianti del “tre pezzi” costituito da pantalone, gilet e giacca (un’evoluzione della marsina, declinata in due fogge-base, frac e redingote) e del soprabito, affermando una virile sobrietà: banditi i ricami, riservati solo alle diplomatiche (marsine di gala per eventi ufficiali) sete e tessuti lucidi e operati rimarranno solo per qualche “tocco” riservato a sciarpe o gilet. Lo stile dell’eleganza sarà connotato allora attraverso un’estrema cura dei dettagli e dell’impostazione, della struttura dell’abito, in una parola del “taglio”. Di questa particolare sezione dell’arte sartoriale erano storicamente maestri i sarti napoletani (e per attiguità politica i palermitani), da cui si indirizzavano all’occorrenza quei giovanotti cosmopoliti ed eleganti impegnati nel Grand Tour della classicità italiana. Il taglio dell’abito è proprio quel plus che, nell’armoniosa unità di proporzioni, praticità e vestibilità, conferisce quel tocco di “carattere” inconfondibile ad un capo di vestiario. Lo sapeva bene Lord Beau Brummell, caposcuola del dandysmo: frac blu doppiopetto con bottoni dorati, attillati pantaloni beige infilati nei lucidissimi stivali, gilet, spesso doppio ma comunque bianco, come la camicia dal colletto alto inamidato su cui avvolgere l’immacolata cravatta; un’“uniforme” inflessibile che doveva far risaltare la cura ossessiva dei dettagli, come il nodo della cravatta, complesso ma perfetto che variava stile con l’occasione, i guanti, il bastone da passeggio; i capelli pettinati ad arte completavano la maniacale toilette all’insegna dell’igiene e poi … la cultura, il linguaggio scelto ma arguto, le belle maniere e il senso di cavalleria, a decretare una volta per tutte che nella Moda non conta solo il "cosa", ma il "come". Certo lo stile minimalista di Brummel era una eloquente risposta a quegli Incroyables post-rivoluzionari del Direttorio, che spingevano a ogni possibile eccesso l’aria di libertà che di nuovo respiravano “i ricchi”: vestiti che combinavano tre o quattro colori squillanti, il collo irrigidito da cravatte “ortopediche”, i capelli a "orecchie di cane" (corti ovunque ma lunghissimi sulle tempie e sulla fronte), e poi grandi orecchini, bizzarri dettagli e grandi feluche sgangherate per andare a passeggio in pendant con le loro dame Merveilleuses.

 

Con il passaggio da eccentrico a dandy, l’abito dell’uomo elegante si va sempre più modellando con lo stile di vita e di pensiero. Lasciando il pragmatismo alla categoria imprenditrice, il vento “romantico” dal motto “arte come vita” smuoverà le vesti della Restaurazione traendo ispirazione dai romanzi “gotici” e “storici” alla Walter Scott, dalle liriche di Byron, fino agli italici Foscolo e D’Azeglio. Un romanticismo che si tingerà dei colori del patriottismo fino e oltre l’Unità d’Italia. Nel 1861, ormai il realismo positivista avvia a riformare anche l’inaccessibile donna silfide, iniziando a “sgonfiare” persino la crinolina dell’imperatrice Eugenia e delle sue cortigiane.

 

Oltre che dall’andamento ondivago con cui si sottolinea la struttura del corpo (grazie all’arte sartoriale che attraverso i tagli della veste può modellare a piacimento): più alto, più basso, più stretto più largo, rispetto a spalle, gambe e punto vita, il passaggio di stili nell’abbigliamento maschile nel corso di tutto il XIX secolo, sarà scandito soprattutto dall’arte del parrucchiere, in un andirivieni di baffi, barbe, basette o “favoriti” che arrivano a scendere sotto le orecchie fin quasi ad unirsi al mento), onde e riccioletti più o meno “scapigliati” nei capelli corti. E poi l’immancabile cappello (il cilindro, in tutte le sue inflessioni, la farà da padrone), guanti e “gingilli” tipo bastone, occhialini, monocoli, tabacchiere, orologi da taschino … Altro rivelatore del passaggio modaiolo è il collo della camicia: alto, basso, duro, morbido, con o senza pistagna, staccabile, ma rigorosamente bianco.

 

Coerentemente con l’abbigliamento femminile, sempre più le collezioni scandiranno non solo le stagioni, ma i ritmi della giornata: mattina, pomeriggio, sera, lavoro, svago … Imponendo sul mercato la nuova moda per lo sport di cui diverranno naturalmente maestre America e Inghilterra.

6.1.2. L’abito femminile fra Artificio e Natura

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Il XIX è un secolo di grande cambiamenti dell’idea stessa di donna e del rapporto con il corpo. Agli estremi di questo complesso percorso incontriamo due icone femminili: la Ebe della mitologia greca effigiata da Canova (simbolo egli stesso del Neoclassicismo) e l’americana Loïe Fuller, donna, artista, manager di se stessa. Pur non rappresentando abiti quotidiani, queste immagini sintetizzano al meglio lo spirito della moda del tempo. Marmo l’una, carne l’altra, unite nella sfida di vincere la staticità della materia e liberarla nello spazio attraverso il movimento; è questo il tema cruciale di tutto un secolo che ha ri-creato la luce, come ha re-inventato l’arte della danza: “tecnica” e “sentimento”, base di ogni grande arte, come della Moda stessa, mai come nell’Ottocento marciarono a fianco.

 

La linea dell’abito femminile imposta dal gusto Neoclassico è ispirato alla giovinezza danzante di Ebe, con la leggerezza delle vesti che scoprono braccia e spalle: anche d’inverno l’uso dei soprabiti sarà allora inviso, iniziando una moda degli scialli lunga tutto il secolo, grazie anche ai cachemire importati dalla Compagnia delle Indie. Anche la linearità e la predilezione per il bianco riportano in territorio inglese, con le “rivoluzionarie” ceramiche disegnate da Flaxman per la fabbrica di Wedgwood dal motto: Artes Etruriae Renascuntur, che richiude il cerchio sul mito del Grand Tour Italico.

 

Il gusto neoclassico ha avuto largo seguito anche in Italia, e comprensibilmente, dato che dalle sue arti era nato e grazie anche alla fortuna del Canova, artista prediletto da quell’entourage napoleonico che si era insediato in buona parte d’Italia unificandone il gusto. Anche le abitazioni delle classi “moderne” erano improntate alla stessa sobrietà delle vesti: “ambienti nudi e spogli nella lucida freddezza delle pareti di stucco e dei pavimenti di marmo che il rigore rettilineo dei mobili laccati abitualmente in bianco con qualche sobrio ornamento in oro non disturba né anima” (Rosita Levi Pisetzky), che sottolinea la coerenza stilistica del periodo. Fin dal regno di Etruria (1801-1807) ad esempio, con Luisa di Borbone Parma, fu promosso un rinnovato interesse per la promozione delle arti, ma fu soprattutto Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, principessa di Lucca e Piombino (1805-1809) e poi granduchessa di Toscana (1809-1814), che richiamò a sé scultori, pittori, musicisti e sostenne le industrie artigiane toscane, incentivando la lavorazione della seta, della mobilia e della porcellana, come le Ceramiche Ginori di Doccia.

 

Con il degenerarsi dell’Impero napoleonico e la conseguente Restaurazione il soffio di fresca naturalezza che annunciava la liberazione del corpo femminile cominciò a fermarsi e irrigidirsi sotto gli abiti. Le bianche tuniche che scendevano dritte da sotto il petto, ondeggianti leggere intorno ai piedi sfiorando le gambe, presero a gonfiarsi ad ogni lustro di tempo. Stecche di balena costruirono un intreccio che raddrizzava e allungava il busto, gravato da una quantità di tessuto sempre più abbondante nella gonna. La tendenza puritana di un cattolicesimo contro-illuminista che copriva e castigava la donna, era bilanciata dai fasti mondani delle corti come quella francese dell’influente imperatrice Eugenia o quella asburgica della romantica Sissi e di cui Franz Xaver Winterhalter ci ha lasciato una straordinaria galleria di ritratti: vaporose toilettes dove gli abiti, specie quelli da ballo, si scollavano sempre più e si arricchivano di decorazioni, pizzi e vezzosità, come ventagli e mantiglie. Ma in questo tripudio neorococò si era già innestata la “primavera dei popoli” (come furono chiamati i moti rivoluzionari del 1848) e le istanze realiste che la interpretavano, determinando l’inizio di una nuova inversione di rotta.

 

6.1.3. L’era della Crinolina

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Nella moda, mai niente viene abolito una volta per tutte: tutto si ripresenta, con varianti. Ciò è tanto più vero nell’Ottocento quando, al definitivo tramonto del Neoclassico e del suo epigono, lo stile Impero, si avvicendarono un revival dietro l’altro. Siamo intorno al 1830, che vede fronteggiarsi i vari spiriti della Restaurazione. Il revival medievale, portato dalla grande ondata romantica, indusse ad adottare lunghe gonne con strascico e corsetti dalle maniche a sbuffo, fodere di pelliccia e berretti di velluto ornati di piume: ornamenti in verità partoriti da un’idea, da quella “fantasia” sul medioevo come testimoniano la grande “pittura di storia” come quella di Francesco Hayez o i movimenti come il Preraffaellismo, dove si mischiavano età e territori. Sta di fatto che la moda del revival medievale interessò in Italia molta parte della produzione culturale e del vivere sociale. Nella moda il fenomeno, meno diffuso ed evidente rispetto all’architettura, si manifestò dapprima nella forma delle maniche, grandi e imbottite dette à gigot (eredi più del tardo-rinascimento che del medioevo), poi con le gonne, sempre più ampie, fino al ripristino di una sottostruttura rigida, mutuata da verdugale e guardinfante: tant’è che l’immaginario collettivo, quando pensa alla donna ottocentesca, la vede in crinolina.

 

In uso all’incirca dal 1840, la crinolina era una sottogonna fatta di crini di cavallo intessuti con lino o seta, ammorbiditi ed impermeabili all’acqua che non si sgualciva o deformava: il favore che subito incontrò rese ricco M. Oudinot, il suo inventore! A metà Ottocento si conoscevano molti modelli di crinoline, che di fatto dal 1856 erano diventate vere gabbie (ottenute con cerchi di filo metallico), tesi a creare un effetto architettonico sempre più voluminoso che raggiunse la massima ampiezza nel 1866. La donna, collocata al centro di pagoda diveniva sempre più “irraggiungibile”, quanto facile preda dei tanti disegnatori satirici. Nonostante, il successo riscosso, in contesti aristocratici quanto in ambienti borghesi, fu incontenibile.

 

“La parte inferiore del vestito spesso era costituita da un insieme di nove o dieci strati fra gonna e sottogonne realizzate in diversi materiali. Le varie sottogonne non erano vendute singolarmente ma a fasci, anche di dodici l’uno. Era pure molto apprezzato il fruscio determinato dal contatto fra le sottogonne e per aumentarne l’effetto sonoro in qualche caso non si esitava a inserire fra una gonna e l’altra qualche foglio del «Daily News», o meglio ancora del «Times», come si legge in uno dei libri di memorie di Molly Hughes” (M.G.Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia).

 

Per abbellire una tale superficie di tessuto si faceva ricorso alle più svariate guarnizioni di nastri, trine, gale, rouches, persino frange e pon-pon, senza limiti alla fantasia, tanto che nei casi più maldestri di “arrampicamento sociale” si poteva essere confusi con il sofà! Quanto più la crinolina era ampia ed elaborata, tanto più i movimenti erano impacciati e inadatti ai lavori manuali, facendo la spia all’effettivo livello di privilegio sociale della dama: anche se le evoluzioni produttive l’avevano resa, oltre che leggera e maneggevole, anche a basso prezzo, con la crinolina indosso non ci si poteva muovere nelle case modeste senza provocare danni.

 

Se la storia della moda vede impalmare l’inglese/francese Worth come demiurgo della crinolina; la leggenda popolare vede invece fronteggiarsi Italia e Francia attraverso due forti caratteri di donne, l’imperatrice Eugenia, simbolo stesso dell’eleganza e la “cortigiana” contessa di Castiglione, antesignana della femme fatale. Si narra che fu proprio Eugenia, prima fautrice dell’”attrezzo”, a volersene liberare nel momento culminante della gara a rialzo con la rivale, in cui la contessa si presentò con una crinolina esageratamente larga: ritrovandosi con una quantità di tessuto fra i piedi, l’imperatrice se la raccolse sul dietro a modo di fiocco, determinando l’avvento della tournure e quella tipica forma a coulinson che ha segnato la linea femminile dagli anni ’70 del XIX secolo fino alla “riforma” del Novecento.

6.1.4. W l’Italia

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“Da allora tutto mutò rapidamente nelle abitudini domestiche, nella vita cittadina, nelle usanze, nelle menti, quasi come se fosse passato un secolo” (Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù).

 

I moti del ’48 sono una data capitale anche nel calendario della storia della moda italiana: succube per tutto l’Ottocento delle mode francesi, riuscì dal sentimento irredentista a prendere lo slancio verso un ruolo più creativo, elaborando nuove tendenze molto particolari e molto seguite. I fermenti politici e gli aneliti di indipendenza, effettivamente, diedero vita al tentativo di una nuova moda autoctona, anche al di là dell’evento simbolico costituito del vestito nazionale, cioè all’italiana.

 

Già negli anni precedenti comparvero barbe e pizzetti come simboli carbonari; dal ’47, a seguito dei moti in Calabria, venne adottato il cappello alla calabrese, come simbolo di liberalismo, quello alla puritana (da I Puritani del Bellini) o anche quello piumato all’Ernani (il bandito protagonista dell’omonima opera verdiana).

 

Il «Corriere delle Dame», che già dal suo inizio ai primi dell’Ottocento, promuoveva la cultura nazionale, non aveva dubbi "Che la moda sia collegata cogli avvenimenti sociali e politici” come “…è provato anche dai recenti avvenimenti in Italia. Abbiamo visto lo scorso carnevale le signore presentarsi al teatro colle cuffie guarnite di nastri di tre colori, presenti i dominatori della casa d’Austria; abbiamo visto la moda dei vestiti di velluto proposta per danneggiare le case commerciali della Germania; poi i cappelli acuminati, simbolo della rivoluzione napoletana, calpestati al loro apparire dal bastone della polizia; ma risorti più tardi a nuova e gloriosa vita, accompagnarsi con le fogge svelte e marziali dei popoli della Calabria”.

 

L’utilizzo del velluto diede poi vita al costume all’italiana, detto anche alla lombarda era divenuto in via informale quasi l’uniforme dei combattenti delle Cinque Giornate: “…un camiciotto o blouse di velluto nero, di fabbrica nazionale, stretta alla vita da una cintura di pelle da cui pendeva una daga o spada: colletto bianco grande rovesciato sulle spalle: calzoni corti di velluto nero, stivali che arrivavano al ginocchio, cappello alla calabrese con pennacchio e una collana che scendeva sul petto e da cui pendeva un medaglione, ch’era di solito il ritratto di Pio IX”, come ricorda Giovanni Visconti Venosta. Questa moda d’impegno civile fu adottata anche dalle donne: il vestito, sempre di velluto, era portavano “aperto su una sottana bianca di raso o di lana, rifinito da fusciacche tricolori, cappelli alla calabrese, pistole e persino spade e sciabole usate dalla cavalleria. Il capo veniva coperto non dai frivoli cappellini alla francese, ma da grandi veli neri o da mantiglie di pizzo, che scendevano a coprire spalle e vita.” (Cristina Cenedella, Tra moda e rivoluzione: la Lombardia nel 1848, Rivista la ca' granda, XLVII, 1, 2006).