12. Il made in Italy fra creatività e strategie industriali

Moda e design

Nel 1978 Beppe Modenese, public relation man con grande esperienza organizzativa, fu determinante nella creazione del Modit, rassegna di prêt à porter che proiettò Milano come polo di moda internazionale: Walter Albini, Laura Biagiotti, Mario Valentino, Ken Scott, c’erano … e poi arrivarono Armani, Krizia, Missoni, Fendi, Ferré e Versace; e poi ancora Moschino, Romeo Gigli e Dolce & Gabbana…

 

Sancita la nascita del Made in Italy, il 4 agosto 1983 il “Women’s Wear Daily” consacrò Modenese “Italy’s Prime Minister of Fashion”. Curioso! Lo stesso appellativo era toccato due secoli prima alla marchande de mode di Maria Antonietta, Marie Rose Bertin, considerata remota anticipatrice degli stilisti, o dei fashion designer, per concludere il passaggio del vocabolario della moda dal francese all’inglese. A Londra d’altra parte, già verso il 1965 “Quel casino […] testimoniava un rapporto nuovo, libero con il problema del vestire, […] la moda non scendeva più dall’alto, come lo Spirito Santo, ma dal basso. Ho soltanto un merito. Averlo capito” (cit. Gnoli, 2012, p.214), come testimonia quel “fenomeno” che fu allora Elio Fiorucci, che commentando poi il successo del made in Italy, concluderà:

In Italia, finalmente, si sono accorti che la moda è anche disegno industriale, mezzo di comunicazione e che l’arredamento, l’architettura e la creazione di un capo o di un accessorio di moda hanno lo stesso valore, lo stesso contenuto, subiscono le stesse influenze. Non vedo più nessuna differenza tra un disegno industriale di un mobile, di un’auto, di un vestito” (cit. Gnoli, 2012, p.236), che suona come un inno al total look propugnato da quel geniaccio di Walter Albini, primo vero “stilista” propriamente detto: stilista inteso come professionista indipendente, che lavora per diversi produttori, che propone alle aziende con le quali collabora linee non solo di abiti, oggetti, ma di stili di vita legati ad ambienti e filosofie, che siano conformi alla produzione aziendale stessa.

 

Se il Made in Italy ha potuto affermarsi è grazie ad una organizzazione economica della produzione basata sulla fusione dell’industria dell’abbigliamento e tessile con la creatività degli stilisti, il cui ruolo ha permesso di mirare ad una fascia di mercato “alta”, anche qualitativamente d’élite. Tuttavia, maestria esecutiva ed elevata sensibilità estetica non bastano a dare conto di un exploit così deciso, che deve tenere conto anzitutto del radicamento sul territorio, al quale hanno contribuito in modo determinante la diffusione del lavoro domestico legato all’abbigliamento e alle conoscenze di tutta una rete di pratiche artigianali, dal «taglio e cucito», al ricamo, alla maglieria (e potremo aggiungere tutte le competenze legate al settore del mobile e dell’arredo), valorizzate al massimo dalla creazione dei “distretti” legati alle comunità locali, in un tessuto di filiere finemente specializzate. Questo fenomeno, peculiare dell’Italia degli anni ’60-70, vede appunto la concentrazione in un’area delimitata di diverse capacità ruotanti intorno a determinati prodotti e lavorazioni, diverse dall’impresa di grandi dimensioni e dalle microimprese artigianali. Più imprese fra loro coordinate realizzano l’intera filiera produttiva, dando vita nello stesso territorio a una proficua sinergia e insieme a un’utile competizione. Ogni distretto è dotato di specificità connesse anche alla localizzazione di tradizioni artigianali risalenti nel tempo: il distretto di Prato vanta ad esempio una secolare tradizione in campo tessile, in altre si eccelle nella maglieria (significativo l’esempio di Carpi) o nella produzione calzaturiera, come nella Riviera del Brenta o nell’area del Rubicone, oppure della seta, come nel Comasco…

 

La maglieria fra gli anni ’60 e ’70 ha puntato molto sul sistema produttivo dei distretti. Settore dinamico, è rimasto propositivo lungo tutto il Novecento, dalla fortuna delle attività sportive e della balneazione, a Elsa Schiaparelli, che iniziò la sua folgorante carriera con gli originali maglioni-tatuaggio, al successo Luisa Spagnoli che nel 1928 inondò l’Italia, e non solo, del filato in morbida angora per la produzione di capi d’abbigliamento, la produzione di maglieria sarà caratterizzante della «moda boutique», entrando nella sua massima fioritura negli anni ’70, con i grandi nomi come Missoni, Krizia, Albertina, Pierluigi Tricò ecc. Ottavio e Rosita Missoni, presenti nel 1966 a Milano con una collezione innovativa di capi in maglia e l’anno successivo a palazzo Pitti, hanno imposto la melangiatura di colori e motivi, divenuto loro segno distintivo. Anche l’azienda fondata da Luciano Benetton nel 1965 si è basata sul colore, ma pieno, assoluto e rivolto ad una generazione più giovane e meno abbiente: i suoi United colors of Benetton sono divenuti un “caso” e un brand inossidabile: caratterizzato da un’attenta innovazione distributiva, oltre che produttiva, si è imposto anche grazie a una straordinaria campagna d’immagine all’avanguardia (curata da 1982 dal fotografo Oliviero Toscani), che ha occupato spesso anche la cronaca per i suoi contenuti provocatori, ma sempre attenti alle problematiche d’attualità della società globalizzata.

 

La globalizzazione è stata il fenomeno preminente sul quale si apre il nuovo millennio. I vecchi equilibri sono stati scardinati in ogni settore e la moda costretta a riorganizzarsi: stilisticamente e produttivamente. Nell’ultimo biennio una crisi economica di tali dimensioni da essere paragonata alla Grande depressione del 1929, sta producendo effetti non ancora ben valutabili, ma è indubbio che le imprese della moda italiane hanno vissuto un decennio estremamente critico, segnato da clamorosi dissesti finanziari, acquisizioni da parte dei due grandi poli del lusso francesi, da gravi ristrutturazioni aziendali. Fra le poche imprese in buona salute spicca ancora l’impero fondato da Giorgio Armani, che ha optato per l’acquisizione di imprese manifatturiere licenziatarie del marchio: una strategia “in attacco” che può indicare una prospettiva nuovamente competitiva al sistema moda italiano, nella riscoperta e nella valorizzazione delle origini manifatturiere (Cfr: Muzzarelli, cap. XV).

12.1. Moda e contro moda

Moda e design

Le figlie del boom economico anni ‘60, le cosiddette babyboomers, indossavano la minigonna, portavano catene e bracciali di plastica colorata, grandi occhiali da sole e ostentavano una nuova libertà.

Accessori in plastica colorata molto vistosi e di forme originali erano in vendita nelle boutique, come le milanesi Cose (nata nel 1963 in via della Spiga), Fiorucci o Gulp, nuove come concezione e stile di esposizione (tutto era esposto e alla portata di tutti), che modificarono il modo di vestire dei giovani e anche l’aspetto delle vie cittadine. La moda dei capelli corti resisteva per le ragazze, mentre le chiome dei maschi si allungavano (i tanto chiacchierati «capelloni»). Negli anni ’70 le donne più emancipate affermeranno la libertà di prendere distanza dalla moda, portando anche nell’abbigliamento la loro contestazione sia al perbenismo delle madri, che al nuovo stile consumistico delle ragazze “alla moda”: comparvero ampie e lunghe gonne, zoccoli e abolizione di quei segni di femminilità contrita da obblighi fisici e morali, fino ai “roghi” del reggiseno dei movimenti  femministi, come a richiamare quelli delle streghe e segno che le correnti innescate dalle Bloomers un secolo prima alzavano costantemente la posta verso una liberazione del corpo mentale oltre che fisico.

 

Il rifiuto della moda esibito dai contestatori di ambo i sessi dagli ultimi anni Sessanta, si trasformò per molti in una nuova moda, cioè, il disprezzato “mercato” se ne appropriò rivendendo poi a caro prezzo quello scarno stile fatto di eskimi (giacche impermeabili con chiusura lampo e ampie tasche) e sciarpe rosse, pantaloni di velluto a coste e Clarks (scarponcini in pelle scamosciata e suola di gomma) divenuta la divisa dei giovani intellettuali che, “maturando”, arricchivano il repertorio con una giacca in tweed un po’ sformata secondo una “moda-non moda” destinata a durare: fu il trionfo del cosiddetto “casual”. Come i jeans (già in auge negli Stati Uniti dagli anni ’50), entrati nella moda Italiana negli anni ‘70 e divenuti sempre più protagonisti dei guardaroba di ogni sesso ed età, declinati in infinite rielaborazioni: ricamati, sfrangiati, tagliati, stinti, bucati … accompagnati dalle irrinunciabili T-shirt, magliette in cotone di forma essenziale (a T appunto), un capo fra i più indossati nel mondo. Le prime furono quelle proposte da Fiorucci con stampe e colori vivaci e da allora sulle T-shirt sono spesso comparse frasi celebri o volti illustri, mentre le polo, anch’esse spesso abbinate ai jeans, sono salite in auge (e con loro i relativi produttori, cavallini o coccodrilli che fossero!) soprattutto attraverso il logo, miglior veicolo di pubblicità gratuita. Oggi le T-shirt compaiono regolarmente, di giorno o di sera, incrostate di pietre, ricamate, rielaborate in mille maniere, con scritte che ricordano i tefilin ebraici o l’abito-poema dadaista, operando una vera rivoluzione nella moda novecentesca.

L’accostamento della T-shirt, indossata sotto la giacca (ovviamente destrutturata) è divenuta la personale, copiatissima, uniforme dello stilista Giorgio Armani, leader indiscusso e inossidabile del made in Italy, sempre all’insegna dello stile e dell’eleganza moderna senza barriere, fisiche o geografiche.