11. La nuova geografia della moda nel 2° dopoguerra e la costruzione del Made in Italy

Moda e design

Con la Seconda guerra mondiale molti atelier parigini, fra ristrettezze di mezzi e leggi razziali, dovettero chiudere. Ma già nel 1947 Parigi tornò ad essere la copertina dell’haute couture con l’astro nascente Christian Dior. Abili servizi fotografici (senza dimenticare René Gruau, suo grande illustratore) diffusi sulle riviste incantavano l’immaginario femminile e il mercato promuovendo il suo New Look: nuovo nell’attualizzare la linea-clessidra di memoria ottocentesca e nella recuperata ricchezza di tessuti elargiti con una signorile eleganza non dimentica delle conquiste della donna moderna.

L’Italia, imparata la lezione della stretta autarchica del regime, si concentrò sulla valorizzazione del proprio capitale, forte anche del canale privilegiato avviato con gli Stati Uniti e in cui la sudditanza economica era bilanciata dal secolare elogio del nostro primato artistico e manifatturiero. Alla promozione dello stile italiano contribuiva fortemente la crescente popolarità del cinema e quel filo rosso fra Hollywood e Cinecittà acceso sull’onda degli anni ’20 e del mitico Rodolfo Valentino.

Fra le maestranze fu un pioniere Salvatore Ferragamo, emigrante ragazzino nel 1914: rimpatriato già famoso nel ’27, stimolò la sua clientela di divi e magnati a “seguirlo” in Italia, a Firenze, sogno turistico del Nuovo Mondo, dove le sue invenzioni esclusive (350 brevetti a fine anni ’50, con le sperimentazioni di forma e materia) entravano in sinergia con il passato d’arte e bellezza. Primo italiano e primo calzolaio che vedrà premiato il valore artistico del proprio lavoro, Ferragamo ricevé, per il “sandalo invisibile” il Neiman Marcus, l'Oscar della Moda, insieme a Christian Dior. Era il 1947. Nello stesso anno le Sorelle Fontana, salirono alla ribalta internazionale creando l’abito nuziale di Lynda Christian, sposa del “bellissimo” Tyron Power: l’illusione della “dolce vita” rese il binomio cinema e moda indissolubile. 

 

Arricchire il “marchio di fabbrica” con un plus di colore locale si rivelò una strategia commerciale vincente. Ne erano coscienti le Case di moda che accolsero lo storico invito di Giovanni “Bista” Giorgini: il 12 febbraio 1951 il "First Italian High Fashion Show" entusiasmò oltremisura giornalisti e buyers, aprendo alla neonata Alta Moda Italiana le porte della Sala Bianca di Palazzo Pitti, per trent'anni illustre scenario delle sfilate che proiettarono Firenze fra le capitali della moda.

Certo, non solo la poesia attrasse i compratori americani, pragmatici per natura. La moda italiana esaudiva appieno le richieste del loro mercato: la bella linea associata alla praticità, la garanzia della lunga tradizione artigianale, della qualità e solidità di materiali e confezione e, certo non ultima, la forza lavoro a basso costo. A incentivare la validità di queste motivazioni provvide Emilio Pucci con una collezione dal tema loro congeniale: il tempo libero, che si apriva a un settore autonomo: la moda per lo sport o la “moda boutique”, fatta di prodotti meno costosi, più fantasiosi e facilmente portabili. Famose le collezioni come “Palio di Siena” e gli inconfondibili stampati ispirati ai colori del mare e del paesaggio italiano, coerenti alla linea “arte-vacanze-moda”, dove Pucci appose la sua firma ben in evidenza all’esterno dei capi. Alla «firma» dello stilista come sponsor della moda avevano già pensato Worth e Poiret a fine Ottocento, ma col boom economico degli anni ’60 il fenomeno manifestò la voglia di promozione sociale e il culto dell’immagine. Centro del desiderio dell’utente e dell’attenzione dei mass media, il “logo” surclassò l’oggetto stesso: profumi, rossetti, oggettistica di ogni tipo, mattonelle per il bagno e via dicendo, ne veicolavano il successo con etichette, slogan e … contraffazioni, aprendo un mercato di inquietante fecondità e attualità.

 

Il decennio 1950 che aprì con la storica sfilata (genitrice del Made in Italy e della fortuna di alcuni grandi sarti ormai promossi a stilisti), confermò la conquista dei mercati internazionali e si concluse affermando la centralità della capitale: a Roma nel 1958 fu fondata la Camera sindacale della Moda italiana e, nel 1959 Valentino vi aprì la propria casa di moda.

11.1. Moda e cinema: la dolce vita

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La moda è stata strettamente legata al cinema fin dal suo nascere, ingigantendosi con il fenomeno dello star system hollywoodiano. La Hollywood italiana è stata la Cinecittà degli anni ‘50, quando il cinema italiano ha cominciato ad affermarsi attraverso alcuni autentici capolavori (ed un’accorta politica di sostegno statale). Fra le prime protagoniste della moda legate al fenomeno “cinema” è Fernanda Gattinoni, creatrice, dal 1946, dell’omonima griffe (tuttora all’attivo) e protagonista della moda per la “dolce vita” dell’aristocrazia romana. Formatasi a Londra da Molyneux ed ex direttrice della premiata casa di moda Ventura, il suo primo abito “famoso” fu un paltò di velluto verde per Clara Calamai. Vestì poi Ingrid Bergman, nella vita e nei film di Roberto Rossellini e, su richiesta della costumista Maria de’ Matteis, Audrey Hepburn in Guerra e Pace (1956) di King Vidor (cfr. Gnoli, 2012, pp.156-162).

 

Cinecittà ha anche “prodotto” importanti e indimenticati divi italiani, come Silvana Mangano, lanciata nel 1949 da Riso amaro di Giuseppe De Santis: ex indossatrice e già Miss Roma, mise in luce la sua avvenenza “selvaggia e naturale” con un look fatto di calze nere, golfini attillati, sottovesti e cappelli di paglia. Nel 1953 furoreggiò Gina Lollobrigida con Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini: quella “vestaglietta” sdrucita e aderente fu un capo simbolo di una moda lanciata negli anni ‘50. E poi Sophia Loren de La donna del fiume (1954), diretta da Mario Soldati nella celebre scena in cui balla il mambo, con la vita stretta dalla cintura altissima…

 

La stretta relazione fra moda e cinema è sancita anche nella sfilata all’hotel Excelsior, durante la Mostra del cinema di Venezia, nel 1949: per l’haute couture italiana presentarono i loro modelli Biki, Carosa e le sorelle Fontana. L’alta moda era pronta a fare il suo ingresso nel cinema dando il suo apporto alla costruzione di una tipologia divistica femminile. Negli anni ‘60 tale ingresso era già un fatto compiuto ed il rapporto del cinema italiano con la moda si caratterizzava per l’opera del grande sarto che vestiva il personaggio o i personaggi facendone delle icone di stile, come Irene Galitzine con Claudia Cardinale in Vaghe stelle dell’Orsa.

Cinecittà, che oltre a produrre films “in proprio”, ospitava fior fiori di mega-produzioni hollywoodiane attratte, oltre che da rigurgiti da Grand Tour, dalle impareggiabili maestranze, tanto dotate quanto a basso costo. In più, la rinata voga del periodo per il kolossal storico (da La caduta dell’Impero romano, a Quo Vadis?, da Ben Hur a Anna Karenina e Guerra e pace), unì la storia della moda a quella delle sartorie del costume, come la SAFAS, Umberto Tirelli, la Casa d’Arte Peruzzi, d’origine fiorentina come la Casa d’arte Cerratelli.

Oltre ad essere interpellate per gli abiti di scena, le case di moda venivano in contatto con gli attori, i produttori, i giornalisti… tutti potenziali acquirenti di nuovi modelli più o meno esclusivi: un indotto economico e di immagine di tutto rispetto, come hanno dimostrato le Sorelle Fontana e Schubert per primi.

 

La strada alla “dolce vita era aperta e si poteva tentare “il sorpasso”. I due omonimi film, il primo di Fellini del 1960, il secondo del 1962 di Dino Risi, ci mettono in guardia sulle contraddizioni generate dal miracolo economico nostrale: la moda si costruisce sulle imprese del lusso, che basano il mercato sui sogni del pubblico di un’immagine migliore o comunque diversa della realtà e il cinema aiuta all’illusione, o alla riflessione. Nel 1968 Pasolini chiede a Roberto Capucci di vestire Terence Stamp e Silvana Mangano per il suo Teorema. A quel momento il sarto artista aveva già deciso di porsi fuori dal meccanismo tritatutto commercial-mondano della moda (alla Dior per intenderci), rifiutando il nascente regime del prêt à porter e optando per la sperimentazione di materiali inconsueti e la ricerca artistica. Due anni prima Mary Quant, nell’Inghilterra della Rational Dress Society, era stata nominata Cavaliere della Corona (giusto un anno dopo i Beatles). Nessuno fino ad allora aveva tanto considerato le nuove generazioni come potenziali acquirenti. Sarà questa in fondo la più grande rivoluzione della moda, in ogni sua sfaccettatura: dall’entrata in scena delle top model-teen agers (con la mitica Twiggy), alla querelle di Courrège sul copyright della minigonna (nel ’64 aveva presentato abito corti e linee a trapezio) e a cui la stilista inglese aveva indirettamente risposto: ”Le vere creatrici della mini sono le ragazze, le stesse che si vedono per la strada”. E con loro, da qui in poi, anche l’alta moda dovrà fare i conti.

11.2. TorinoFirenzeRomaMilano: la capitale della moda

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 “A ribadire il parallelismo fra vita urbana e moda che si era consolidato fra Medioevo e Rinascimento, luoghi quali Genova, Lucca, Venezia o Bologna hanno legato i loro nomi ai processi produttivi relativi alla seta. Con le nuove rotte commerciali, la seta, ma anche damaschi, perle ed altre merci esotiche si resero infatti disponibili, contribuendo alla nascita della moda. Come vi è una storia della moda, così esiste una geografia della moda che rimanda ad alcuni centri per la produzione e ad altri per l’importazione e per lo smercio ora della seta, ora della lana. Alcuni di questi luoghi hanno mantenuto nel tempo un forte legame con l’uno o con l’altro aspetto della moda, altri invece lo hanno perduto mentre ne sono sorti di nuovi”. (Muzzarelli)

 

Quello che ha fatto della moda uno dei settori trainanti del made in Italy è stata la sinergia di una stratificazione di competenze, da quelle più umili di “lavorazioni domestiche”, come merletti, ricami, maglierie e decorazioni, sparse anche nei piccoli centri; altre con maestranze sartoriali più “tecniche”, diciamo da atelier, che convogliava sarti, modellisti e coupiers, di cui erano ricche le città, da Palermo a Torino; poi divennero sempre più importanti le qualità imprenditoriali e organizzative che tendevano a convogliarsi verso le grandi aree cittadine del nord come Torino (già considerata capitale della moda a fine ‘800) e Milano, che con la richiesta sempre maggiore di mano d’opera accoglievano maestranze anche venute dal meno sviluppato sud, città che pur godendo di una solida storia artistica, hanno maggiormente sviluppato una tendenza industriale ed hanno potuto godere il loro massimo splendore con il dominio del prêt a porter.

Sintomatica è la storia di Milano, l’ultima (in ordine temporale) capitale Italiana della moda internazionalmente accreditata, pur vantando premiate imprese dall’800 (qui fu concepito il vestito nazionale nel 1848). Negli anni ‘40 vi nacque il Centro italiano della moda, con l’idea di creare un legame fra industria tessile e moda attraverso una serie di iniziative che avvennero a Como, a Legnano e a Venezia, dove nel 1948 fu invitato anche “il dittatore” Dior, fresco del clamore del suo New Look. A Milano operavano importanti sartorie quali Marucelli, Noberasco, Vanna e Jole Veneziani (“milanese” nata a Taranto, grande stilista e pellicciaia internazionalmente nota per i suoi capi in astrakan, cincillà, lontra e visone) e, intorno agli anni ’50-’60 importanti protagoniste della moda furono Biki (Elvira Leonardi, nipote di Giacomo Puccini) e Gigliola Curiel. Anche per la comunicazione, Milano è stata il centro della stampa specializzata e delle riviste di moda.

 

Ma nel filo rosso che collegava l’America con la moda italiana e con il mito del “bel paese” d’arte, vacanze e mandolini, Firenze e Roma godettero di un plus d’immagine, grazie anche a personaggi colti quanto intraprendenti, come lo fu Giovan Battista Giorgini che riuscì a far convergere nella città di Caterina de’ Medici il fior fiore dei sarti dell’epoca, salvo poi capitolare al primato di Roma, città d’arte non meno invidiabile, capitale d’Italia e del cinema, dove erano ubicati buona parte di quegli atelier che decretarono il successo delle sfilate fiorentine di palazzo Pitti. Così Fabiani, Simonetta, Sorelle Fontana, Giovanelli Sciarra, Schuberth, Mingolini-Guggenheim, Ferdinandi, Garnet e Fausto Sarli, formarono il SIAM (Sindacato italiano di alta moda), emancipandosi dal loro “creatore” per organizzare sfilate in proprio: si iniziò di fatto la “guerra fredda” fra le due città.

 

“Se gli stilisti italiani unissero le loro forze probabilmente potrebbero battere i francesi e diventare i dominatori della moda mondiale” tuonava nel 1960 il Newsweek, “Invece le controversie interne hanno fatto scorrere sangue […] Firenze, città della moda italiana dal 1951 […] ha cercato di sgonfiare i disegni di grandezza di Roma: la posizione fiorentina ha perso gradualmente importanza da quando sempre più numerosi designer romani si sono stancati del viaggio di 190 miglia…” e già due anni prima Elisa Vittoria Massai scriveva su “Novità”: “La rivalità fra Roma e Firenze minaccia […] di essere superata dalla entrata in scena di Milano. È  troppo presto per fare delle previsioni".

Risposero per lei un decennio più tardi Walter Albini, Ken Scott, Missoni e Krizia, per voce di quest’ultima:

“Non abbiamo niente contro Firenze ma è la formula che non funziona più per noi tutti. Io come molti altri desidero mostrare la mia collezione per intero e con calma nel mio atelier senza sfilate affrettate che non dicono nulla ai buyer…” (cit. in Gnoli, 2012, p.228).