10. Creatività senza confini e autarchia: moda tra le due guerre

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Finita la prima guerra mondiale la Bella Otero, ideale di femme fatale dalla flessuosa linea a “S”, si ritirò dalle scene e con lei la Belle époque: d’origine spagnola, le sue forme mediterranee mal si adattavano al nuovo ritmo importato dall’America. Già a inizio secolo due audaci americane avevano scosso i corpi della vecchia Europa: Loïe Fuller snodava la grande tunica in danze serpentine e Isadora Duncan liberava al movimento gli scandalosi pepli verso un Eden perduto. Muse entrambe dei tanti artisti decisi a cogliere con ogni tecnica quel vano fluire, danzavano il loro anticonformismo sulle note dei classici, cercando l’espressività nelle nostre radici; non esportarono così una vera espressione autoctona, come lo fu il jazz: Duke Ellington stesso lo definì “come il tipo d'uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia”. Ma queste figlie erano donne emancipate, disinibite: sigaretta in mano, pronte a conquistare il mondo, a rimboccarsi le maniche lavorando e "osando", anche nel campo dello stile e della moda, come Coco Chanel, che lanciò il taglio di capelli alla garçonne, corto e essenziale come la petite robe noire, intramontabile quanto l’intrigante fragranza dello Chanel No.5. E intrigante fu quella tendenza all’androgino della donna filiforme, come Ida Rubinstein (approdata a Parigi fra i dirompenti colori dei Ballets Russes di Diaghilev), stilizzata, come la linea dell’arte contemporanea, ma anche “selvaggia”, come Josephine Baker, l’afroamericana dall’impudente vitalità che incendiò le notti parigine.

 

La voga “americana” nasceva anche dal mito della ricchezza d’oltreoceano, un benessere reale che favorì l’esportazione di beni di lusso di produzione italiana e Francese. Ma alla crisi del 1929 ogni Stato, liberale o assolutista che fosse, rispose con decreti protezionisti. Così Gran Bretagna e Stati Uniti, fautori di lungo corso dell’igiene fisica e dello sport, convalidarono la loro autonomia creativa nella produzione di capi sportivi, più classici e raffinati i primi, più accessibili e informali gli altri.

 

La creatività si nutre di scambio, di movimento, fondamentale in ogni campo del design. Molti “creativi” italiani trovarono terreno fertile oltre confine, alcuni oltreoceano, come Salvatore Ferragamo (salvo poi tornare in Italia, già famoso, in cerca di artigiani all’altezza delle sue creazioni). Fu la Parigi delle avanguardie che pubblicò gran parte dei manifesti del futurismo italiano, movimento in cui militò anche l’estroso Thayaht, vero designer della moda, artefice della TUTA, abito unitario a forma di 'T' basato sul concetto di praticità, economia e riproducibilità, che cambiava d’uso secondo il tessuto di confezione: uniforme da lavoro, abito da viaggio o esclusivo abito da sera in lamè. Madeleine Vionnet lo volle nel suo atelier per declinare in infinite varianti il suo rivoluzionario “taglio in sbieco”. Da qui l’artista fiorentino influenzò la moda parigina dal 1918 al 1925.

 

A Parigi giunse Elsa Schiaparelli, nel 1922. Stravagante e anticonformista, si alleò a cubisti, surrealisti e dadaisti come Man Ray, Duchamp, Picabia, già incrociati a New York. Lungimirante, ideò collezioni “a tema” e sfilate-spettacolo, fondendo il senso italiano di artigianalità a stilemi dell’avanguardia: mix cromatici mozza fiato, come il rosa shocking (come il suo profumo dall’ampolla sinuosa, disegnata da Leonor Fini sul busto hollywoodiano di Mae West), materiali pioneristici (goffrato “escorce d’arbre”, fibre artificiali e trasparenti), ricami polimaterici e tessuti stampati ispirati da Dalì o Jean Cocteau, che dirà di lei: “Ogni uscita dell’italiana era un evento dadaista”, come il “cappello-Scarpa” o il “Gallina”.

 

Alle lusinghe del regime e alla guerra reagì con Cash and carry, una collezione di abiti multiuso con tasche e zip per la donna “in fuga”, come lei. Al suo rientro dall’America nel dopoguerra, il new look di Christian Dior dettava già legge in Europa. Ma "l'artista che fa vestiti", come ironizzava su di lei Chanel, parimenti segnò la moda internazionale, da Yves Saint Laurent a Giorgio Armani e oltre.

 

BIBLIOGRAFIA:

Elsa Schiaparelli, Shocking Life. Autobiografia di un'artista della moda, Padova, Alet, 2008

Caterina Chiarelli - testi di G. Uzzani, a cura di, "Thayaht e Ram. La Tuta/Modelli Per Tessuti. Per il Sole e Contro il Sole". Catalogo della mostra, con la presentazione di Antonio Paolucci. Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino. Galleria del Costume di Palazzo Pitti, Sillabe, Livorno 2003.

10.1. Vionnet, Thayaht, i futuristi: il triangolo della moda (all’ombra di Coco)

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“Non fu la prima a tagliarsi i capelli (fu l’attrice Eva Lavallière), ma non è grave. L’idea dei bijoux - veri o falsi - per il giorno non era sua, era di Misia Sert, ma non è così importante. Persino la petite robe noire non è solo Chanel, è anche madame Vionnet”. Questa dichiarazione di Karl Lagerfeld, direttore artistico della maison Chanel dal 1982, mette in luce cosa significa essere la migliore icona del proprio stile: Gabrielle (Coco) Chanel seppe costruire una forte mitologia intorno alla sua persona e dare al suo lavoro statuto non di sarta, ma di creatrice di moda e non solo. Il mondo artistico e intellettuale parigino la lusingava, Picasso, Cocteau e Diaghilev, nel 1924 le affidarono i costumi de Le train bleu, balletto “à la mode” sulle vacanze marine per cui la giovane Coco aveva creato sobrie mise da spiaggia con l’amato jersey e in tricot dalle bande sui toni azzurrini, troppo poco spettacolari per lo spettatore di teatro, perfette per la vita quotidiana del villeggiante.

 

“Oltre al plus d’immagine, a lei dobbiamo “lo stile immortale della gonna in tweed, della maglia con il filo di perle, dell’abitino nero, del tailleur senza collo profilato in passamaneria, dei bottoni gioiello, delle mitiche omonime scarpe bicolori che lasciano il calcagno scoperto, delle borsette in nappa trapuntata con la catena sulla spalla e della bigiotteria”.

“Era una donna di gusto […]. Sì. Bisogna ammetterlo. Ma era una modiste. Vale a dire […] che si intendeva di cappellini” (Gnoli, 2012, pp.41-57). La vena polemica del commento di Madeleine Vionnet sulla più “introdotta” e seducente collega fa luce su due caratteri e due stili antagonisti. Dimessa e grassoccia “la sarta più importante del Ventesimo secolo”, secondo Diana Vreeland, asseriva di non amare la moda: “Nei fugaci capricci stagionali sta un elemento di superficialità, di instabilità che scandalizza il mio senso di bellezza”. Quando a Londra, giovanissima, fu colpita da Isadora Duncan danzante nei classici pepli, capì che lì si univa la strada verso la liberazione del corpo e la creazione della vera bellezza femminile. Fu Jacques Doucet, suo patron dal 1907, a darle carta bianca per liberare “il tessuto e la donna dalle costrizioni loro imposte” provando che “una stoffa che cade liberamente su un corpo è lo spettacolo armonioso per eccellenza”. Sovvertendo le regole sartoriali Mme Vionnet rinnovò la tecnica del taglio e dell’ornamento. La sua maison, aperta nel 1912, nel 1919 si arricchì della collaborazione di Thayat, conosciuto nel lungo soggiorno in Italia durante la guerra, che seppe magistralmente interpretare la “filosofia Vionnet” e darle un’immagine, iniziando dal celebre logo: un peplo greco inserito in una spartitura geometrica, sintesi di classicità e modernità. Quegli ingegnosi tagli “triangolati” stimolavano il suo animo futurista, che si irradiò nelle linee dinamiche dei figurini, dei tessuti disegnati per lei fino al ’25. E fu proprio nel ’25, all’Expo parigina, che i futuristi si resero conto quanto delle loro idee (che l’Italia bollò come rumorose bizzarrie), era stato ripreso e sfruttato dalle ricettive e accorte sartorie francesi, a cui niente sfuggiva dei fermenti culturali delle avanguardie che ruotavano nel magma cittadino: “Per la prima volta appaiono a Parigi pellicce colorate e mantelli futuristi […] i bottoni futuristi trovansi realizzati nello stand della Casa Bauer […] le borsette e anche le scarpe […] nello stand di Casa Brusk di Parigi”, come lamentarono Balla e Jannelli in un’intervista sull’”Impero”.

“La moda femminile è stata sempre più o meno futurista. Moda equivalente femminile del Futurismo. Velocità, novità, coraggio della creazione”, si leggeva nel Manifesto della moda femminile futurista, elaborato da Volt (Vincenzo Fani) nel 1920. Le tre grandi protagoniste della moda internazionale del nuovo secolo, Chanel, Vionnet, Schiapparelli, interpretarono “a regola d’arte” tutto il potenziale della donna nuova esaltata nelle sue mille sfaccettature: sportiva, seducente, ironica, mutevole ... sempre dinamica e sorprendente protagonista di stile.

10.2. Le mille vie dell’italianità

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  1. La ricerca dell’italianità

 

Nel 1910 la rivista senese «Vita d’arte» istituì il concorso per un abito femminile da sera per promuovere la creatività italiana: vinse Francesco Nonni che, sulle orme di Rosa Genoni ritenne che uno stile nazionale dovesse ispirarsi alle opere dei principali artisti di Medioevo e Rinascimento. Il dialogo con la tradizione, l’abilità delle maestranze e la capacità ideativa al servizio del lusso si profilavano già allora come i tratti costitutivi della moda italiana che cominciava a delinearsi come ambito specifico all’interno del dibattito sulle arti decorative. A Roma nel 1919, il "Primo Congresso Nazionale dell'Industria del Commercio dell'Abbigliamento"  fu abbozzato il disegno teso ad affermare un carattere italiano della moda e a potenziare l’industria locale “affrancandola dalle influenze straniere”. Nel ventennio fascista il progetto acquisì compattezza e sistematicità: nel 1932 fu costituito l’Ente autonomo per la Mostra nazionale permanente della moda, convertito nel 1935 in Ente Nazionale della Moda più efficace nel coordinare l’intero ciclo produttivo «con unità di indirizzo e di azione […] in una sola e organica linea di lavoro il sarto modellista, l’industriale tessile, quegli affini all’abbigliamento, e l’artista creatore». Le circa 300 ditte ammesse dovevano apporre un talloncino a “marca di garanzia” di italianità, previa controllo dell’Ente stesso, modello per modello. Si può immaginare in quali pastoie burocratiche si arenava la produzione “Doc”! Difficile ricavare da pubblicazioni dell’epoca spie su falle del sistema-moda del regime, poiché alla stampa fu imposta una ferrea censura, oltre all’invito (!) di evitare ogni riferimento a creatori e produzioni parigine. Ma si sa, è costitutivo della moda essere controcorrente, così proliferò la lettura clandestina di periodici esteri e le signore, soprattutto del bel mondo, potevano confrontare le modeste fotografie filtrate dall’Ente (Luxardo ne era il fotografo “ufficiale”), con quelle di riviste come Vogue, Harper’s Bazaar, Vanity Fair, scattate da geni dell’obbiettivo come Edward Steichen o Cecil Beaton, che hanno veicolato le immagini delle dive hollywoodiane come Joan Crawford, Norma Shearer, Greta Garbo, Katharine Hepburn, con i total look creati dal “mago” americano Adrian, come i celebri tailleurs di taglio mascolino di Marlene Dietrich, che sono stati longeva fonte di ispirazione, da Yves Saint Laurent a Giorgio Armani. (cfr. Gnoli, 2012, p.71).

 

Erano quelle le vere icone imposte dal cinema, anche per signore e massaie d’Italia, nonostante lo sforzo dispiegato dalla cinematografia del ventennio, come nella Contessa di Parma (1937) di Alessandro Blasetti, o i Grandi Magazzini (1939, girati alla nuova UPIM) di Mario Camerini, apoteosi della politica espansiva della distribuzione: la Rinascente, la UPIM, la Standard (poi Standa)…, che, “aiutati” dalle leggi razziali, oscurarono la fama dei Magazzini Cohen (dal 1880 in via del Tritone, come segnalato sulle guide turistiche di Roma), all’apice tra gli anni '20 e '30, con i loro vasti assortimenti delle migliori fabbriche nazionali ed estere, la produzione di ricami e di "lavori di stile e precisione", eseguiti nei laboratori ai piani alti del palazzo. I quattro fratelli Coen, con precoce attenzione alla moda maschile, si recavano a Londra e Parigi quattro volte l'anno per la scelta di stoffe per abiti, camicie e cravatte; in Piemonte, a Biella, si rifornivano di telerie italiane. A Roma si tagliava e si confezionava. John Guida si occupava per loro, dal 1914, della donna: eccellente e aggiornatissimo figurinista (a via del Tritone tenne anche un corso di formazione per tale professione emergente): "Per creare una moda nostra, la moda del nostro buon gusto veramente italiano, ad ogni mutare di stagione io prendo il treno e vengo a fare una passeggiata a Parigi.......Perché non si può negare ai nostri amici d'oltre Alpi di essere i despota in fatto di mode femminili. Io guardo, ammiro, studio e targo le mie deduzioni, sulle quali poi lavoro”. I modelli che la ditta Coen ne ricavava furono messi in vendita dal 1936 anche in carta. Guida, due volte la settimana, allestiva le undici vetrine dei Magazzini: i figurini su cartoncino colorato, solitamente cm. 50x70, marchiato "S. di P. Coen", vi erano sistemati con attorno i tessuti “giusti” per la realizzazione dell'abito, drappeggiati con sicuro effetto da John, che nobilitò anche un’altra professione della moda: l’arte del vetrinista.

 

  1. La ricerca dei materiali e sui tessuti

 

L’opera patriottica sulla moda proseguiva, grazie anche alla regina Margherita e Edda Mussolini, e all’attivissima Lydia De Liguoro, fondatrice di «Lidel» (il ruolo delle riviste di moda fu fondamentale e tante ne nacquero); furono banditi concorsi con il contributo di artisti futuristi come Marinetti, Balla e Depero e nel 1928 si aprì, proprio a Parigi, la Boutique italienne, una vetrina permanente della migliore produzione italiana d’arte e artigianato (attiva fino al ’34), col contributo determinante di Maria Monaci Gallenga, dopo il grande successo dei suoi tessuti all’Expo parigina del ’25. Vicina agli artisti della “Secessione Romana” come Gino Sensani, Galileo Chini, Romano Romanelli e Marcello Piacentini, Maria amava organizzare mostre e promuovere giovani artisti, confermando la consanguineità fra arte e moda. Sperimentatrice, per le proprie creazioni di moda e arredo brevettò un’esclusiva tecnica di stampa su tessuto portando avanti la ricerca di Mariano Fortuny.

 

Il nazionalismo fascista sostenne la ricerca di tessuti nazionali, non solo con la valorizzazione di fibre rustiche, dalla lana “casentino”, all’orbace, fino alla ginestra (oltre al velluto, tessuto autarchico per eccellenza), ma “tutte le più impensate combinazioni di fibre tessili sono state escogitate per creare la più ricca qualità di tessuti” (“Dea”, Le fibre tessili, 1937). E Roberto Papini seppe dare un tocco letterario a questo sforzo: “Chimica e fisica danno ai tessuti ricchezze nuove che la storia non ha mai conosciuto. Velluti leggeri come crespi, damaschi morbidi quanto veli, […] gli ibridi più bizzarri, crespi damascati e tulli vellutati e garze broccate e maglie rasate, in milioni di sfumature e di toni che anche Iride se tornasse resterebbe a bocca aperta” (cit. in Gnoli, 2012, p.95). Anche Marinetti nobilitò con Il poema del vestito di latte, la campagna pubblicitaria disegnata da Bruno Munari per il lancio pubblicitario del “Lanital” nel 1937. Divagazioni poetiche a parte, si aprì l’era della “SNIA viscosa” e delle altre ditte produttrici di rayon, che fu usato in questi anni sempre maggiormente, non solo nei calzifici, ma anche nell’abbigliamento, declinato in molte varietà: viscosa, acetato, fiocco... misto a lana, cotone oppure seta, oppure da solo, uso che fu facilitato dall’invenzione più “naturale” filo opaco. Anche Elsa Schiapparelli fu una grande sperimentatrice di fibre nuove, mai allora pensate per gli abiti, compresa la plastica trasparente, aprendo la strada ai vari Courreges e Rabanne, per non parlare di Salvatore Ferragamo, che nobilitò il settore della calzatura finora considerato accessorio anche grazie all’uso di materiali alternativi, come la famosa scarpa ortopedica con la zeppa di sughero che negli anni ’40 riuscì a conquistare la duchessa Visconti di Modrone.

 

Anche il recupero avviato dalla fine Ottocento sull’artigianato locale e sulla manifattura italiana si intensifica nel ventennio, proseguendo l’istituzione di scuole e laboratori per il ricamo e il merletto (favorite dallo stato di arretratezza industriale) e la modisteria (di gran moda i fantasiosi cappellini!). In linea con la riscoperta dell’accessorio anche la pelletteria e calzoleria e al genio Ferragamo si aggiunsero anche Gucci, Gherardini e Roberta di Camerino.

Nonostante la politica di semplificazione e riduzione dei pezzi del guardaroba femminile (mise-base: gonna godet al ginocchio e camicette infilate nella gonna), si concedeva un certo lusso negli abiti da sera e nell’abito da sposa, tanto più in matrimoni “titolati” come quelli delle due “famiglie regnanti” italiane: nel 1930 si celebrarono i matrimoni del principe Umberto di Savoia e Maria José del Belgio, poi del conte Galeazzo Ciano con Edda Mussolini ed entrambe le spose omaggiarono, ovviamente, la sartoria italiana.

 

  1. La tradizione sartoriale:

 

Per identificare un creatore italiano dobbiamo arrivare alla metà dell’Ottocento e al sarto milanese Pietro Prandoni, fornitore della Real Casa, che dal 1862 vestì gli uomini più importanti dell’epoca, da industriali a finanzieri, da Verdi a Puccini. Il valore “aggiunto” dato agli abiti «di sartoria» dai clienti eccellenti, suggerì a Giovanni Battista Rosti, che ne rilevò l’atelier alla morte di Prandoni di mantenerne la «firma», aggiungendo al carnet anche il nome di Gabriele D’Annunzio, vero cultore in materia che seppe dire la sua fino alla morte, nel 1938, alla vigilia del precipizio della seconda guerra mondiale.

Anche se i più geniali stilisti erano, o operavano, soprattutto all’estero, tra Otto e Novecento le principali città d’Italia pullulavano di laboratori sartoriali dove sotto la direzione della caposarta o première, centinaia di «caterinette» (dalla protettrice Santa Caterina, che le sartine ogni 25 novembre celebravano festosamente) lavoravano alacremente. Torino, all’inizio del Novecento era considerata la capitale italiana della moda, con circa 30.000 «caterinette», pari a un quinto della forza lavoro femminile. Occupate in un migliaio fra atelier, laboratori e botteghe di vario rango (molte anche a domicilio, situazione che si rivelerà strategica), le donne monopolizzarono il settore della sartoria, fatta eccezione per la figura del couper, il tagliatore, tradizionalmente maschile.

 

Napoli, tra gli anni ‘20 e ‘30 del Novecento era una delle città più eleganti d’Italia grazie ai suoi sarti (di cui il più celebre era Vincenzo Attolini), che operavano in botteghe strutturate su quelle del Rinascimento ed erano da allora considerati i più abili: i più famosi tessutai britannici concedevano solo ai sarti partenopei l’uso dei loro tessuti. Anche in molte altre parti d’Italia si andava comunque affermando l’arte della sartoria: così in Emilia-Romagna come in Lombardia o in Abruzzo dove “i sarti sapevano trasformare la materia in capolavori” parola di Gabriele D’Annunzio!

Comunque, anche negli anni ’40, nonostante la “marca oro” istituita dall’Ente Nazionale della Moda, le più stimate case di moda (Zecca, Montorsi, Ferrario, Biki, fino a Calabri, per citarne solo alcune, oltre alla rinomata Ventura, a cui è legato il nome di Fernanda Gattinoni, un ponte al futuro della moda italiana) continuarono le loro “ispirazioni sul tema” dalle passerelle parigine.

10.3. Dal charleston al new look

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Spartiacque fra la vecchia e la nuova generazione, la prima guerra mondiale scombinò le divisioni nei ruoli tradizionali uomo-donna, come fra le classi sociali. Se la maggioranza delle signore altolocate si dedicò ad opere di assistenza (dalla Croce Rossa alla beneficenza), una più ampia rappresentanza femminile fu impiegata in ogni settore produttivo, spesso in sostituzione degli uomini arruolati nel conflitto: ciò fornì ulteriore consapevolezza della forza di autonomia da esse raggiungibile, anche se, a pace fatta, ci furono tentativi di “richiamo ai ranghi”, soprattutto in Italia, impreparata economicamente e culturalmente a tale rivoluzione. In un numero del 1917 della “Tribuna” si dichiarava così, non senza una vena di ingratitudine: “il Paese più che le sue braccia vuole i suoi fianchi”. Forse, la generosa donna lavoratrice, con quell’abbigliamento utilitario stava perdendo anche un po’ di charme agli occhi maschili. “Ora la moda è semplice: tailleur di grosso panno bleu o grigio, una moda esclusivamente giovanile, perché le gonne cortissime, le scarpe e gli stivaletti quasi ‘alla coturno’ non tollerano la decadenza, pretendono belle caviglie e anche procaci […]. La femminilità sembra un po’ mascolinizzata e in uniforme”. Man mano anche le più vistose diversità d’abbigliamento fra classi e fra ambito contadino e urbano, si andavano uniformando, anzi, la moda acquistò il grembiule: “Audace e grazioso questo grembiule è sfacciatamente salito per le scale di servizio ed è entrato in salotto. È di seta, con lacci impertinenti che si annodano in modo civettuolo” (“Margherita”, marzo 1916).

 

Di una certa sfacciataggine erano indubbiamente dotate le anglofone flappers e le garçonnes francesi, con la loro idea di femminilità androgina e sottile, tanto lontana dalla femme fatale, ma non meno intrigante, anche se Poiret ebbe a dire con nostalgia: “Un tempo le donne erano architettoniche come prue di navi. Ora assomigliano a piccole telegrafiste denutrite”. Certo, d’accordo con la cronista di “Margherita”, era più facile dissimulare i difettucci femminili sotto i morbidi drappi orientaleggianti del grande sarto (che pensò bene, fallita la sua maison, di impiegare il suo genio come figurinista, nuova emergente professione, collaborando a migliorare la produzione di alcuni famosi grandi magazzini), che non dalle brevi gonne che tra il 1925 e il 1926 coprivano a malapena il ginocchio: rivoluzione che fece la fortuna di calzettai e calzolai, divenuti fondamentali, come il sandalo (Ferragamo docet) riemerso protagonista. La tendenza “a levare” degli anni ’20, portò l’abolizione delle maniche e il taglio delle chiome: “Le signore tornavano a casa portando un pacchetto di chiome recise […] i capelli erano crespi e fitti sulle gote, i cappelli calzatissimi, gli alti baveri dei paletò lasciavano scorgere appena una cerchiatura d’occhi nera, un sanguigno disegno delle labbra […] Stagione per stagione le donne s’innamoravano della loro libertà”, come testimonia Irene Brin (cit. in Gnoli, 2012, p.38). Una libertà di cui si fecero interpreti Jean Patou e Coco Chanel, due leader del nascente sportswear: il gergo modaiolo si arricchì così di fonemi anglosassoni e i couturiers di grido,  peraltro ancora tutti francesi, iniziarono presto a chiamarsi fashion designer.

 

Nel gioco di alternanza che regola il ritmo delle mode, gli anni ’20 dettero un colpo di spugna sia ai fronzoli “belle époque”, che alle privazioni belliche. Non senza forti contraddizioni: le crisi hanno origini più lontane della loro deflagrazione. Quando nel ’29, il crollo della borsa di Wall Street travolse gli equilibri economici planetari, la vecchia Europa era già minata dai regimi totalitari e la strada verso la seconda guerra mondiale tristemente segnata.

Ma l’operosità umana certo non si ferma e sa creare profitto anche dalle più dure contingenze, che la creatività converte in linfa vitale, facendosi trovare pronta quando la bufera è sedata: e se il new look del genio Dior saprà rubare le copertine internazionali della nuova era di pace, nella piccola Firenze si stavano per aprire le porte del "First Italian High Fashion Show": 12 febbraio 1951, data storica per l’era del Made in Italy.