7. La rinascita delle arti applicate: alle basi del concetto di Design

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La rivalutazione delle “arti applicate” è legata da un lato al progresso tecnologico che facilita la crescita del mercato e l’emancipazione sociale, dall’altro si rivolge a cercare nel lontano passato la linfa di una nuova operatività. Così nel Medioevo e Rinascimento, così nella controversa marcia della Rivoluzione industriale nell’Europa del XVIII-XIX secolo.

La ricerca “illuminista” verso un maggiore rispetto per l’individuo e la sua libertà creativa, la rivalutazione del lavoro manuale e del concetto di abilità, si intrecciano con l’esigenza di riprodurre e moltiplicare il prodotto. 

La fattura a regola d’Arte, il gusto del “ben fatto”, nota virtù italica, divenne nel XX secolo la chiave patriottica per trasformare in virtù tare strutturali quali il ritardo nello sviluppo industriale e la subalternità nel dibattito culturale. Penalizzati dalla frantumazione territoriale, si assisteva all’ascesa delle nazioni unitarie e alla loro espansione coloniale: come negare che la “prima rivoluzione industriale” nell’Inghilterra del ‘700, iniziata nel settore tessile, fu favorita dall’importazione di materie prime come il cotone (e la relativa tecnica di stampa su tessuto) di cui la “loro” India era ricca quanto le colonie del Nuovo Mondo? Filato resistente, di più facile ed economica lavorazione, il cotone riformerà i guardaroba di tutta Europa e oltre.

I medesimi venivano in Italia cercando il luminoso passato, una cultura artistico-artigianale non ancora minacciata dal lato oscuro della macchina. Così la voga aristocratica del Grand tour, divenne un apprendistato artistico: un nome per tutti, John Ruskin, “padrino” del Preraffaellismo e dell’Arts and Crafts Movement, ispirato alle Corporazioni delle Arti e Mestieri medievali che pur ponendosi come modello anti-industriale, influenzò i futuri movimenti come l’Art Nouveau e la Wiener Werkstätte, fino al Deutscher Werkbund, tappa importante per la fondazione del Bauhaus, prima vera scuola di formazione professionale di disegno industriale, anzi, di design.

La rivalsa autonomista italiana confida sul secolare bagaglio di cultura manifatturiera, ma punta a legare il momento artigianale-decorativo con quello produttivo-industriale. Con l’appoggio di molti artisti e intellettuali come Camillo Boito, si costituirono le “Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria”, iniziando una tradizione didattica che ha formato fino ad oggi la tanto rinomata classe di maestranze.

Rilevante fu l’influenza delle Grandi Esposizioni Universali su arti, educazione, commercio e relazioni internazionali. La Great Exhibition nella Londra vittoriana del 1851, fu modello anche per quelle celeberrime di Parigi del 1889 e del 1900. 

“Torino 1902- Le arti decorative internazionali del nuovo secolo” fu la prima esposizione internazionale interamente dedicata a questo particolare settore e costituì un momento di confronto straordinario con i movimenti modernisti internazionali (e apice della breve ma gloriosa esperienza del Liberty italiano). L’intenzione è ben dichiarata nel regolamento:

L'Esposizione comprenderà le manifestazioni artistiche ed i prodotti che riguardino sia l'estetica della via, come quelli della casa e della stanza.
Vi saranno ammessi soltanto i prodotti originali che dimostrino una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma.
Non potranno ammettersi le semplici imitazioni di stili del passato, ne la produzione industriale non ispirata ai sensi artistici.
(dall’art.2).

Clausole che erano perfettamente in linea con il genio eclettico di Carlo Bugatti l’ebanista che si fece designer, che infatti conquistò il Primo Premio, per l’assoluta perizia e originalità nel combinare i più diversi materiali, ridisegnando lo stile arabeggiante ancora in voga con uno stile unico che lo rese internazionalmente celebre. Per inciso, suo figlio Ettore fu progettista e fondatore della premiata compagnia di automobili sportive. 

Gli artisti progressisti del tempo intendevano le arti decorative come un unicum, dall'arredamento urbano al più umile oggetto d’uso, convinti che l'alito della creazione artistica dovesse entrare nella quotidianità e comunicarsi ai più, annullando il confine tra l’utile e il bello.

7.1. La rivalutazione delle Arti applicate tra industria e artigianato

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Arti democratiche”, le definiva il socialista William Morris, e ne idealizzava la rinascita medievale in cui ogni uomo potesse rendersi libero con il lavoro delle sue mani e, nello stesso tempo, circondarsi di oggetti belli e di qualità, rifiniti e durevoli, in antitesi all’invadente riproduzione industriale. Di fatto fu costretto a fare i conti con gli alti costi che il suo tipo di manifattura imponeva, limitandone la fruizione ai più, che continuavano ad avere miglior accesso ai prodotti dell’industria, che in Inghilterra vantava ormai un buon secolo di vita: le Arts and Crafts nascevano infatti nel 1861, mentre la Wedgwood, ad esempio, è targata 1759 (come appare sul sito web dell’azienda, a tutt’oggi una delle industrie di ceramica più rinomate al mondo, che ne mostra anche la gloriosa storia con immagini dal suo museo). L’arguto Josiah, con l’aiuto degli amici scienziati della pionieristica Lunar society, come Erasmus Darwin e Watt, già nel 1782 fece dell’Etruria (nome dal significato inequivocabile) la prima fabbrica dotata di un motore a vapore e vi introdusse una moderna divisione del lavoro: da un lato il designer, che per lungo tempo fu il neoclassico John Flaxman (dal 1775 al 1787), delegato alla progettazione delle forme e delle decorazioni dei manufatti; dall'altro gli artigiani, divisi in formatori, tornitori, plasmatori, decoratori e addetti alla rifinitura. Dalle celebri stoviglie creamware, ai “grecizzanti” basalti neri, fino ai raffinati e imitatissimi Jasperwares (oggetti in porcellana Jasper, lavorati in rilievo come cammei, con motivi antichi studiati nella ricca collezione che lord Hamilton aveva portato con sé da Napoli), l'esportazione a marchio Wedgwood suscitò entusiasmo in tutta Europa, tanto più forte in quanto la moda britannica cominciava allora a imporsi sul continente.

 

La distanza temporale fra questi due artefici non toglie la diversità di formazione e temperamento dei personaggi: Morris era pittore-poeta, Wedwood un imprenditore, seppur entrambi legati dal senso della ricerca e della sperimentazione. Entrambi sono citati nella storiografia del design come basilari pionieri, ma lo scarto nella concezione del rapporto arte-macchina li pone a guida di due linee parallele nella concezione delle arti applicate e non solo, due linee che alimentano l’animoso dibattito lungo tutto quel secolo e molto oltre, che ha teso a separare l’arte dalla tecnica, con esiti talvolta deleteri. Qui ritorna la differenza epocale, quel secolo che fa cogliere a Morris le degenerazioni insite in ogni progresso incontrollato. Il sogno medievele di Morris, vi agisce al suo tempo da ammortizzatore, come in fondo lo era stata la visione neoclassica, pur nell’impeto pre-romantico di “meravigliose invenzioni”.

E l’Italia? L’energia italiana dell’Ottocento è soprattutto impiegata nella “fabbrica” unitaria: D’altronde il ritardo tecnologico è almeno servito a perfezionarne l’innato senso artigianale; quanto alla tradizione classica, è intimamente metabolizzata. Il problema del progresso si pone fortemente nei termini di questa tradizione: tralasciando la corsa alla “novità” e puntando alla “trasmissione”, ad una corretta divulgazione, incentivata dalla crescente richiesta di maestranza artigianale e artisti decoratori e che l’imperante stile eclettico richiedeva ovunque sul mercato. Su tali presupposti si fonda la concezione delle Scuole Superiori d’Arte Applicata all’Industria, da tempo al centro del dibattito europeo sull’importanza del tirocinio formativo dell’artigiano e il suo collegamento alle istituzioni artistico-accademiche, come già aveva sostenuto Gottfried Semper. In Italia fu interprete di tale esigenza Camillo Boito, tuonando sulla totale insensatezza culturale e economica di una tale separazione:

 

…tentano di distinguere le arti superiori dalle arti applicate alle industrie, o più brevemente industriali, col dire che le prime intendono al bello, le seconde all’utile. Non so veramente se le prime guardino sempre al bello, massime al dì d’oggi. Nego che le seconde mirino all’utile, perché all’utile mira l’industria; ma forse si vuol significare che intendono abbellire l’utile, il che nella maggior parte dei casi è vero. […] All’opposto la legge sulle scuole d’arte applicata alle industrie, presentata alla camera dei deputati […] torna a sanzionare il distacco assoluto fra le arti cosiddette superiori e le arti cosiddette decorative e industriali, fra i musei di queste e i musei di quelle […]. Non c’è altro che togliere questa (l’arte minore) al Ministero di Agricoltura e Industria e Commercio per darla alla Direzione Centrale di Antichità e Belle Arti. E la faccenda s’andrebbe allargando. Entrerebbero in campo le scuole d’arti e mestieri, […] forse le scuole del museo industriale di Torino […]. Eppure io non posso staccarmi dalla visione di una grande Direzione Generale di Antichità e Belle arti […] la quale riunisse insieme le cose che non si possono ragionevolmente scindere: musei e arti belle, musei e scuole di arte applicata alle industrie" (C. Boito, "Le scuole di architettura di belle arti e di arti industriali", Nuova Antologia, 1890, V27, 41-51).

7.2. Il Grand Tour

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“Non esiste sicuramente altro luogo al mondo in cui un uomo possa viaggiare con maggior piacere e beneficio dell’Italia. Ciascuno trova nel paese qualcosa di più particolare e più sorprendente nella natura di quanto possa essere trovato in qualsiasi altra parte d’Europa. È la grande scuola della musica e della pittura, e in essa vi sono tutte le più nobili opere di scultura e di architettura, sia antiche che moderne … Non v’è quasi luogo del paese che non sia famoso nella storia, né vi è un monte o un fiume che non sia stato la scena di qualche straordinaria battaglia” (Joseph Addison, 1745).

 

I viaggi di formazione sono sempre stata un’abitudine encomiabile e insostituibile per tutti i cultori delle arti, a partire dall’arte della vita. Il Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa continentale effettuato dai ricchi giovani dell’aristocrazia europea a partire dal XVII secolo e a definirlo così fu appunto Richard Lassels nella guida Voyage of Italy del 1670. Una pratica cresciuta proporzionalmente con l’evolversi della società civile e il diffondersi del benessere economico e destinato a divenire una vera e propria moda, con tempi, itinerari, canoni di abbigliamento e comportamento codificati nel tempo. Ma il Grand tour non ci interessa tanto per l’aspetto di promozione sociale, quanto per l’importanza che ha avuto nella circolazione delle arti, le antiche come le nuove, per il formarsi di un dibattito sia storico-filosofico che estetico ed hanno avuto un ruolo determinante nell’evoluzione degli stili e delle tecniche.

 

Senza scordare i romantici e solari paesaggi, così benefici alla salute del corpo prima ancora che dello spirito, la predilezione per l'Italia come meta ideale proveniva dalla vena classicista insita già nell’arte del Rinascimento, da Brunelleschi e Donatello fino a Palladio e oltre: lo studio delle rovine di Roma surrogava anche quelle più disagevoli della stessa Grecia. Primi gli stessi francesi, fondatori dal 1666 del fondamentale Prix de Rome, poi tedeschi e inglesi “ideatori” del Neoclassicimo come Winckelmann e Gavin Hamilton che dopo gli straordinari ritrovamenti di Pompei e Ercolano spostarono l’asse verso Napoli, finché l’Ottocento non rimise in gioco anche il “secolo buio” dando avvio alla grande stagione dei revival.

 

L’utilità di tale ricerca non si basava solo sul lato stilistico della forma, ma anche su quello tecnico e artigianale, che in una linea ininterrotta univa i saperi di Roma antica e le botteghe medievali, quelle rinascimentali a quelle contemporanee. Ma non fu solo una questione fra artisti, poiché a tutto questo si connetteva un mercato di scambio di oggetti e “commesse”: dalla moda dei ritratti, che i “turisti” affidavano ai pittori in relazione alle risorse, dal successivo affermarsi del mercato antiquario e la richiesta continua di manufatti artigianali per adornare le abitazioni in patria e in loco. Vere e proprie comunità si sono formate nelle varie città, interagendo in vario modo con la cultura locale, incidendo sul tenore economico quanto su quello estetico e sul paesaggio: basta pensare al ruolo di tali comunità a Firenze dal periodo romantico fino al XX secolo, a luoghi neomedievali come il museo Stibbert e il castello di Vincigliata, o quello del vicino borgo di Montegufoni che Sir George Sitwell nel 1922 arricchisce con la decorazione dell’(ex) futurista Gino Severini.

 

7.3. Arts and crafts Movement e Preraffaellismo

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L’Arts and Crafts Movement (movimento delle arti e dei mestieri) muove dal pensiero di Augustus Pugin che enfatizza lo stile gotico: unico ad accogliere i principi della cristianità e quindi di purezza e onestà. A tale assunto si collega John Ruskin, per cui il nuovo stile dovrà nascere sulle orme di quello medievale, caratterizzato dalla semplicità del lavoro dell'uomo e perciò idealmente contrapposto alla freddezza impersonale di quello industriale. E proprio di Ruskin fu allievo William Morris.

 

Il movimento Arts and Crafts ha la sua patria nell’Inghilterra dell’epoca vittoriana (1837-1901), ma il suo inserirsi così profondamente nel sentimento di trasformazione economico-sociale indotto dalla rivoluzione industriale, ha portato i suoi presupposti ad articolarsi in tutta Europa (e nella giovane America “colonia culturale” del Vecchio Continente), plasmandosi nelle storie artistiche e sociali dei vari paesi con differenze stilistiche e tempistiche spesso profonde, percepibili già nel nome con cui si identificano: Jugendstil in Germania, Art Nouveau in Francia e Belgio, Modernismo in Spagna, Secessione in Austria, Liberty in Italia, a cui si aggiungono forme intra-nazionali, come il Glasgow movement di Charles Rennie Mackintosh, o il “caso” Gaudì a Barcellona. Comune ad ognuno il desiderio di esprimersi creativamente in maniera “artigianale”, riscoprendo nel termine la positività di arte individuale di memoria medievale. I manufatti realizzati all’interno di tali movimenti sono infatti molto vari e riconoscibili fra loro, sottolineando la singola personalità degli artisti. Non dimentichiamo che nello stesso periodo, la seconda metà dell’ottocento, nel campo dell’abbigliamento si afferma la personalità dell’anglo-francesizzato Worth, prototipo dello stilista di moda, così come i vari Morris, Mackintosh, Horta e Hoffmann, senza far torto a tutti gli altri, sono da considerarsi i primi designer (anche gli artigiani della Wiener Werkstatte apponevano il proprio nome su gli oggetti da loro disegnati, proprio come faceva Worth). D’altra parte il concetto di “arte totale”, con l’idea di abbattere le barriere fra “arti nobili” e “arti applicate”, porta ogni progettista a cimentarsi in maniera trasversale rispetto ai “generi”: non sorprende quindi trovare un Gustav Klimt a disegnare, fra un ritratto e l’altro, gli abiti per la sua compagna Emilie Flöge o, ancora prima, il pittore-poeta italo-britannico Dante Gabriel Rossetti e Edward Burne-Jones a dipingere vetrate, arazzi e carte da parati per gli arredi “coordinati” della ditta di Morris, tutti e tre profondamente legati dalla Confraternita Preraffaellita, nata proprio in nome delle Corporazioni medievali e delle botteghe rinascimentali, che ebbero il loro “canto del cigno” appunto con l’arte di Raffaello. In realtà dietro un calderone pseudo storico che unisce Dante a Shakespeare, Beato Angelico a Michelangelo, si cela il sentimento romantico, teso fra spiritualismo e edonismo, speculazione e azione, ma comunque paladino della libera immaginazione: «L'immaginazione non è uno stato mentale: è l'esistenza umana stessa», sosteneva William Blake, artista “profetico” e visionario, che per comporre i suoi libri miniati inventò l'acquaforte a rilievo, divenuta in seguito un importante metodo di stampa commerciale.

 

Proprio il teso dialogo (quand’anche scontro) fra le istanze positiviste e ingegneristiche dell’industrializzazione e la poetica naturalista del creatore-artigiano, fu capace di generare una vitalità così profonda, nelle arti quanto nel progresso della società. Morris stesso fu tra i primi a lavorare con Karl Marx e Friedrich Engels per diffondere il movimento socialista in Inghilterra. Nemico della produzione in serie di stampo industriale, Morris utilizzava e sperimentava tecniche particolari: come per le sue stoffe, per cui usava tinte naturali e procedimenti scoperti su un libro del XVI secolo, o traeva ispirazione da erbari medievali per le carte da paratie i tessuti. Ciò non gli impedì di strutturare in modo produttivamente razionale l'azienda Morris, Marshall, Faulkner & Co, fondata nel 1861 proprio con Rossetti e Burne-Jones oltre a Madox Brown e Webb. L’azienda ha poi cambiato nome con l’avvicendarsi dei soci, ma i motivi qui creati rappresentano ancora un rinomato marchio, concesso su licenza alla Sanderson and Sons e a Liberty&Co., che dà il nome anche al movimento italiano, diventato uno dei più prestigiosi negozi di Londra.

7.4. Le Grandi Esposizioni Universali

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L’ottimismo dell’Ottocento, e la sua fede nella possibilità dell’industria, si riflettono nelle grandi esposizioni. L’industria avrebbe “unito la razza umana” –o press’a poco così sognava il Principe Consorte Alberto nel 1850. All’inizio del periodo della massima espansione industriale, sembrava non esistessero limiti a ciò che l’industria sarebbe stata in grado di realizzare” (Sigfried Giedion).

 

Il passaggio dalla produzione artigiana a quella industriale era ormai evidente e i tempi erano maturi per riunirne i risultati raggiunti nei vari paesi ed esporli al confronto; l’idea quindi di dare carattere internazionale alle esposizioni di prodotti dell’industria si impose.

Lo sviluppo dell’industria in tutti i suoi rami fu accelerato da queste esposizioni, nelle quali si trovava rappresentata ogni branca dell’attività umana: i macchinari, i procedimenti e i prodotti minerari, fabbriche e laboratori di utensileria, fattorie, tutto era in mostra, insieme con opere delle arti belle e applicate. […] realizzava la sintesi dei fini non ancora formulati dell’Ottocento. Essa preannunciava la trasformazione che stava per compiersi nell’uomo, come nell’industria, nei sentimenti dell’uomo come del suo ambiente” (Giedion).

Nel 1851, la Great Exhibition fa il suo exploit nella “dominante” Londra vittoriana: 25 paesi ospiti e 6 milioni di visitatori nell’ardito Crystal Palace, una sintesi di legno, ferro e vetro che aveva risvegliato nuove forme fantastiche: “… è una rivoluzione nell’architettura, da cui daterà un’epoca”, un’impressione di “tanta romantica bellezza.[…] Adopero un linguaggio contenuto e sobrio, se dichiaro lo spettacolo incomparabile, e degno del paese delle fate. È un sogno di una notte di mezza estate, visto alla chiara luce del mezzogiorno” (Lothar Bucher, citato in S. Giedion).

 

Tanta “romantica bellezza” racchiudeva luci e ombre, come risulta dal fervente dibattito sull’alienazione del lavoro meccanico e sulla separazione di lavoro manuale e lavoro intellettuale, testimoniato dalle posizioni della cerchia di Ruskin e Morris (volendo tenere per faro solo l’ambito estetico). Ma proprio perciò è importante segnalare personaggi come Sir Henry Cole, che oltre al ruolo primario svolto nell’esposizione londinese, ha fortemente operato in funzione della collaborazione fra le arti e l’industria, promuovendo interventi didattici anche per elevare il livello del gusto popolare (come gli Arts Manufacturers nel 1847), lo studio e la catalogazione delle arti decorative con l’istituzione del primo museo tematico (l’insuperato Victoria and Albert Museum).

In tempi più maturi si ricomporranno (anche se parzialmente) le due visioni del problema arte-macchina, come nel Deutscher Werkbund creato nel 1907 a Monaco di Baviera.

Il Crystal Palace fu distrutto in un incendio nel 1936. Winston Churchill lo commentò con acutezza come un fatto emblematico, la fine di un'epoca. Di queste grandi opere di ferro e vetro dove non si avverte il peso della superficie trasparente ma “aria e luce; cioè un elemento di fluidità imponderabile” (Boileau), come anche le Galeries des Machines, che hanno accolto le successive esposizioni parigine (dal 1855 al 1889) non rimane traccia fisica. La Tour Eiffel (dal suo geniale costruttore) del 1889, ne è unica superstite, èd è diventata simbolo di una città, di una Nazione, dove turisti stupiti vi si accalcano da tutto il mondo. A salvarla, nel 1909, dalla sprezzante élite artistica della città è stata l’utilità per le antenne di trasmissione della radiotelegrafia, la nuova scienza; è tanto più significativo che nell’esposizione universale di Parigi del 1900, nonostante tante nuove costruzioni, la nuova “meraviglia” fu il cinematografo dei Lumière, non a caso definita poi “la settima Arte”: ma siamo già nel nuovo secolo e l’era meccanica, iniziata dall’invenzione capitale della stampa di Gutenberg, dovrà fare i conti con quella dell’inafferrabile magnetismo e della luce.

Per chiudere il capitolo sul dibattito ottocentesco sulla separazione fra il bello e l’utile che ruota intorno alle Esposizioni Universali ottocentesche, oggi rappresentato dall’”inutile” Tour Effel, possiamo ricordare ancora le parole di Ruskin:

 

«Il mondo non può diventare tutto un'officina… come si andrà imparando l'arte della vita, si troverà alla fine che tutte le cose belle sono anche necessarie».

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Sigfried Giedion Mechanization takes Command. A Contribution to Anonymous History, Oxford 1948 (trad. it. L'era della meccanizzazione, Milano 1967)
  • Luca Massidda, Atlante delle grandi esposizioni universali. Storia e geografia del medium espositivo, Franco Angeli editore.