3. Il Rinascimento e il Cinquecento

Letteratura e teatro

Nel corso del Cinquecento, i regni feudali europei si trasformarono lentamente in veri e propri Stati di tipo nazionale retti da monarchie assolute (Francia, Inghilterra e Spagna). Questo processo politico ebbe importanti ripercussioni sociali, culturali ed economiche, e dette impulso anche all’espansione dei traffici commerciali che stimolarono viaggi e nuove scoperte geografiche (a Cristoforo Colombo seguirono Amerigo Vespucci e i portoghesi Vasco da Gama e Ferdinando Magellano).

 

In Italia l’equilibrio assicurato all’intera Penisola dall’abilità politica di Lorenzo il Magnifico venne meno alla sua morte (1492); nel 1494, con la discesa in Italia di Carlo VIII, re di Francia, si aprì uno dei periodi più travagliati, con il drammatico coinvolgimento nelle guerre tra le grandi potenze europee. Questa fase si concluse, almeno in parte, solo con la pace di Cateau Cambrésis (1559), che modificò profondamente la stessa geografia politica del paese. La presenza in Italia degli eserciti stranieri (francesi e spagnoli prima e, dopo l’elezione di Carlo V a imperatore nel 1519, anche quelli asburgici), aveva prodotto alleanze strategiche e nuovi antagonismi, accentuando così la frammentazione e la debolezza politica, ma, al tempo stesso, favorendo l’instaurarsi di un articolato policentrismo culturale.

 

Le corti signorili di Napoli, Roma, Urbino, Ferrara, ecc., ancora centro della vita politica e di elaborazione dei contenuti e dei valori della letteratura e dell’arte, raggiunsero infatti in questo periodo il loro massimo prestigio e splendore. L’intellettuale di corte – artista o letterato – ora meno impegnato attivamente nelle vicende politiche, è sempre più organicamente legato al suo signore, committente e protettore, e contribuisce con gli strumenti dell’arte a sostenerne l’ideologia ufficiale e a celebrarne il potere; questa figura è rappresentata in maniera esemplare da Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano, pubblicato nel 1528, un trattato in forma di dialogo nel quale vengono presentate le qualità e i costumi del perfetto gentiluomo: si delinea così un modello di comportamento che avrà risonanza e fortuna anche all’estero. Sulla scia di quest’opera si colloca il più tardo Galateo (1558, postumo), di monsignor Giovanni della Casa, in cui il contenuto del Cortegiano viene ridotto a rigorosa precettistica immediatamente utile per le diverse situazioni della vita di corte.

3.1 Accademie, “Questione della lingua” e "Vocabolario degli Accademici della Crusca" (1612)

Anche molte delle Accademie nate nel corso sec. XV come liberi luoghi d’incontro e di dibattito culturale e letterario (si ricordano tra le più antiche quella napoletana fondata da Antonio Beccadelli il Panormita e guidata in seguito da Giovanni Pontano – da cui poi prese il nome –, quella Platonica di Marsilio Ficino a Firenze, a Roma quella creata da Giulio Pomponio Leto), persero progressivamente la propria funzione pedagogica e si trasformarono in veri e propri organismi del potere, privilegiando piuttosto la codificazione e la conservazione del sapere rispetto alla promozione della ricerca.

 

Rappresenta bene questa trasformazione il caso della più tarda Accademia degli Umidi, nata a Firenze nel 1540, anche per iniziativa del brillante poeta e drammaturgo Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca: all’insegna dell’indipendenza di pensiero vi erano sviluppati in particolare marcati interessi per la sperimentazione letteraria e linguistica. Apprezzandone il successo, Cosimo I se ne appropriò quasi subito e, istituzionalizzandola, ne modificò il nome in Accademia Fiorentina. Fornendo il suo sostegno diretto, il Granduca ne stabiliva contemporaneamente la dipendenza dal potere politico e inseriva le sue attività nelle strategie politico-culturali e politiche tout court del Granducato.

 

Fu proprio in contrapposizione all’ufficialità e a una certa pedanteria dell’Accademia Fiorentina che, all’inizio degli anni ’80, si formò la “brigata dei crusconi”, un gruppo di amici che si incontravano col semplice fine di conversare con leggerezza. Da questa, sotto la spinta del linguista e filologo Lionardo Salviati, nascerà nel 1583 l’Accademia della Crusca, la quale, sotto l’insegna del motto “Il più bel fior ne coglie” (da Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, LXXIII, 36), stabilirà l’ambizioso programma della definizione della “buona lingua” e della realizzazione del Vocabolario. Tutta l’attività dell’Accademia era rappresentata attraverso un’articolata simbologia legata al grano e alle sue lavorazioni, alla farina, alla crusca e al pane. Simbolo generale sarà il frullone, uno strumento allora di nuovissima invenzione che separava meccanicamente il fior di farina dalla crusca: così come l’Accademia si proponeva di selezionare le parole “pure” nel suo Vocabolario.

 

L’impresa lessicografica degli Accademici della Crusca, che si realizzerà nel Vocabolario con un’intensa attività dal 1590 al 1612, si inserisce nell’ampio dibattito sulla ricerca di un modello linguistico normativo che, animato da posizioni fortemente contrapposte, attraversa tutto il Cinquecento ed è noto come “questione della lingua". Con il Rinascimento, infatti, giungono a piena maturazione le riflessioni sulle teorie fondamentali assunte dagli intellettuali dell’Umanesimo: la concezione, di impianto neoplatonico, della centralità dell’uomo e l’ideale del classicismo. Su queste basi verrà teorizzata in ambito letterario la “poetica dell’imitazione”, che impronterà la maggior parte della produzione in volgare del secolo. Nelle Prose della volgar lingua (1525) il veneziano Pietro Bembo ribadisce il rispetto di questo “principio” e propone come modello la lingua letteraria del Trecento, e in particolare Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa.

3.2 Codificazione linguistica, letteratura espressiva e in dialetto

In una prima fase i dettami bembiani furono assunti in modo libero e creativo, ad esempio da Ludovico Ariosto (l’Orlando furioso ebbe tre edizioni, l’ultima nel 1532, in seguito a una revisione del testo sulla base dei precetti proprio del Bembo), Francesco Guicciardini, Niccolò Machiavelli, oltre al già citato Castiglione. Intorno alla metà del secolo, si manifestò un progressivo irrigidimento dei canoni e si produsse una vera e propria codificazione delle regole, anche sulla scia della nuova traduzione (dopo quella di Lorenzo Valla) della Poetica di Aristotele, ad opera di Alessandro de’ Pazzi (1536), che porterà a una stereotipizzazione e a un livellamento in chiave “monolinguistica” della produzione letteraria.

 

In aperta reazione a queste espressioni, tuttavia, troviamo anche autori più indipendenti che, contaminando stili diversi, spaziano tra il comico e il parodico, raggiungendo anche esiti marcatamente espressionistici (“anticlassicismo”). Si ricordino tra questi almeno Francesco Berni, che nei suoi componimenti poetici mette in atto una feroce parodia dei contenuti e dello stile di Petrarca; l’Aretino, le cui commedie spaziano tra i più vari registri espressivi; o ancora Teofilo Folengo, sperimentatore di un originale latino maccheronico nel Baldus; Angelo Beolco, detto il Ruzante, che nelle sue opere teatrali utilizza il dialetto pavano rustico.