10.3. Dal charleston al new look

Moda e design

Spartiacque fra la vecchia e la nuova generazione, la prima guerra mondiale scombinò le divisioni nei ruoli tradizionali uomo-donna, come fra le classi sociali. Se la maggioranza delle signore altolocate si dedicò ad opere di assistenza (dalla Croce Rossa alla beneficenza), una più ampia rappresentanza femminile fu impiegata in ogni settore produttivo, spesso in sostituzione degli uomini arruolati nel conflitto: ciò fornì ulteriore consapevolezza della forza di autonomia da esse raggiungibile, anche se, a pace fatta, ci furono tentativi di “richiamo ai ranghi”, soprattutto in Italia, impreparata economicamente e culturalmente a tale rivoluzione. In un numero del 1917 della “Tribuna” si dichiarava così, non senza una vena di ingratitudine: “il Paese più che le sue braccia vuole i suoi fianchi”. Forse, la generosa donna lavoratrice, con quell’abbigliamento utilitario stava perdendo anche un po’ di charme agli occhi maschili. “Ora la moda è semplice: tailleur di grosso panno bleu o grigio, una moda esclusivamente giovanile, perché le gonne cortissime, le scarpe e gli stivaletti quasi ‘alla coturno’ non tollerano la decadenza, pretendono belle caviglie e anche procaci […]. La femminilità sembra un po’ mascolinizzata e in uniforme”. Man mano anche le più vistose diversità d’abbigliamento fra classi e fra ambito contadino e urbano, si andavano uniformando, anzi, la moda acquistò il grembiule: “Audace e grazioso questo grembiule è sfacciatamente salito per le scale di servizio ed è entrato in salotto. È di seta, con lacci impertinenti che si annodano in modo civettuolo” (“Margherita”, marzo 1916).

 

Di una certa sfacciataggine erano indubbiamente dotate le anglofone flappers e le garçonnes francesi, con la loro idea di femminilità androgina e sottile, tanto lontana dalla femme fatale, ma non meno intrigante, anche se Poiret ebbe a dire con nostalgia: “Un tempo le donne erano architettoniche come prue di navi. Ora assomigliano a piccole telegrafiste denutrite”. Certo, d’accordo con la cronista di “Margherita”, era più facile dissimulare i difettucci femminili sotto i morbidi drappi orientaleggianti del grande sarto (che pensò bene, fallita la sua maison, di impiegare il suo genio come figurinista, nuova emergente professione, collaborando a migliorare la produzione di alcuni famosi grandi magazzini), che non dalle brevi gonne che tra il 1925 e il 1926 coprivano a malapena il ginocchio: rivoluzione che fece la fortuna di calzettai e calzolai, divenuti fondamentali, come il sandalo (Ferragamo docet) riemerso protagonista. La tendenza “a levare” degli anni ’20, portò l’abolizione delle maniche e il taglio delle chiome: “Le signore tornavano a casa portando un pacchetto di chiome recise […] i capelli erano crespi e fitti sulle gote, i cappelli calzatissimi, gli alti baveri dei paletò lasciavano scorgere appena una cerchiatura d’occhi nera, un sanguigno disegno delle labbra […] Stagione per stagione le donne s’innamoravano della loro libertà”, come testimonia Irene Brin (cit. in Gnoli, 2012, p.38). Una libertà di cui si fecero interpreti Jean Patou e Coco Chanel, due leader del nascente sportswear: il gergo modaiolo si arricchì così di fonemi anglosassoni e i couturiers di grido,  peraltro ancora tutti francesi, iniziarono presto a chiamarsi fashion designer.

 

Nel gioco di alternanza che regola il ritmo delle mode, gli anni ’20 dettero un colpo di spugna sia ai fronzoli “belle époque”, che alle privazioni belliche. Non senza forti contraddizioni: le crisi hanno origini più lontane della loro deflagrazione. Quando nel ’29, il crollo della borsa di Wall Street travolse gli equilibri economici planetari, la vecchia Europa era già minata dai regimi totalitari e la strada verso la seconda guerra mondiale tristemente segnata.

Ma l’operosità umana certo non si ferma e sa creare profitto anche dalle più dure contingenze, che la creatività converte in linfa vitale, facendosi trovare pronta quando la bufera è sedata: e se il new look del genio Dior saprà rubare le copertine internazionali della nuova era di pace, nella piccola Firenze si stavano per aprire le porte del "First Italian High Fashion Show": 12 febbraio 1951, data storica per l’era del Made in Italy.