3. La cucina italiana del Settecento

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Il Settecento fu un secolo di grandi cambiamenti anche in campo culinario: l'uso delle carni diminuì e si diffuse quello del grano, ma soprattutto del granturco e, solo più tardi — dopo aver superato una forte diffidenza — della patata, dalla quale si iniziò a ricavare anche una farina con cui produrre la pasta. Inoltre, aumentò l'uso del burro — base fondamentale delle salse, immancabili nei pranzi settecenteschi. Si affermarono poi nuove bevande, che affiancarono e sostituirono vino e birra: cioccolato, tè e caffè.

 

La distillazione dell'alcool, poi, portò all'uso dei distillati di melassa (rum); di frutta (calvados, kirsch, maraschino, ecc.); di cereali (vodka, whisky, gin, ecc.), e dei liquori dolci (in particolare rosolio, ratafià). Ma ciò che costituì proprio una rivoluzione fu, a partire dalla seconda metà del Seicento, l'abbandono graduale dell'uso delle spezie, mantenendo soltanto la cannella e poche altre, e prediligendo invece l'erba cipollina, lo scalogno, i funghi, i capperi, le acciughe. Tutto ciò avvenne sulla base di un nuovo tipo di cucina che distinse i sapori agro e dolce — fin dal Medioevo mescolati assieme — anche attraverso un uso più contenuto dello zucchero, con cui ci si limitò a confezionare preparazioni di credenza da presentare a fine pasto. Questa era dunque la nuova cucina, già prospettata da La Chapelle nel suo Cuisinier moderne (1735) e formulata nella sua totalità a partire dalla pubblicazione, nel 1739, dei Dons de Comus ou les délices de la table attribuito a un certo Marin. Proprio nella prefazione di quest'ultimo ricettario si legge quello che si può definire il manifesto della nouvelle cuisine.

 

Fu così che nel Settecento le élites francesi, con le loro scelte, influenzarono tutto il panorama europeo, almeno nelle regioni occidentali, come Italia e Spagna. Tra le mode legate al mangiare, le più diffuse furono il mangiare 'pitagorico' (vegetariano) e il bere 'in neve', ossia gelato. Per ciò che riguarda l'apparecchiamento della tavola, le regole si erano semplificate, come dimostrato dalla riduzione dei 'servizi' (le parti che componevano il pasto). Inoltre, emergono altre tipologie di pasto, più veloci, ma pur sempre di gran figura, come i pranzi o le cene in ambigù («vale a dire tutto in una portata senza Zuppe quante volte il Padrone non le ordini espressamente»).

 

Un altro fenomeno in voga a Parigi, la città che all'epoca dettava la regola in materia di raffinatezze, era quello di fare una sorta di piccolo pranzo a metà giornata, per poi pranzare realmente la sera. Di questo Leonardi, però, dice: «Quello forse a cui gl'Italiani non sapranno uniformarsi, sarà quello dico, di Pranzare la sera; mentre nella nuova maniera di servire le Tavole si è introdotto anche il costume di fare la mattina verso il mezzo giorno una colazione (Dejeunè), e poscia la sera, o prima, o dopo il calar del sole, Pranzare, essendosi trovato questo tempo più comodo per gli Uomini di Grandi affari». 

3.0. «L'ancienne cuisine était fort compliquée et d'un détail infini»

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«L'ancienne cuisine était fort compliquée et d'un détail infini. La cuisine moderne est une espèce de chimie. La science du cuisinier consiste à décomposer, à faire digérer et à quintessencier les viandes, à tirer des sucs nourrissants et pourtant léger, à les mêler et à les confondre ensemble de façon que rien ne domine et que tout se fasse sentir […]. L'excès d'épices dans l'assaissonnement est l'écueil mediocre plus précieux que l'or quand on les emploie à propos, mais vrais poisons quand on les prodigue, doivent être ménages comme l'or même et dispensés par une main légère que l'intelligence conduise. Sans cela, plus d'onction dans ce que vous faites, vous ruinez tout le fruit d'un long travail […]. Il faut, en satisfaisant la nature, écouter la raison et se ménager dans les plaisirs memes les moyens de les render durables en évitant la satiété».

3.0.1. Il mangiare 'pitagorico'

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Il mangiare 'pitagorico', ossia vegetariano, nel Settecento non riguardò più soltanto i poveri, obbligati a non mangiare carne dalle misere condizioni economiche, ma anche i ricchi, in quanto nel secolo dei lumi, la dieta basata sull'uso di vegetali e ortaggi venne proposta come un'alternativa «igienica, leggera e intelligente», nonché illuminata, alla dieta aristocratica dell'età dell'Assolutismo. Come ha notato Montanari, «l'appetito gagliardo e l'abbondanza di carne — antichi segni di forza, di potere, di nobiltà — non furono più oggetto di unanime apprezzamento sociale».

 

A conferma, si pensi alla pubblicazione nel 1743 dell'opera Del Vitto pitagorico per Uso della Medicina (Firenze, Moucke) del medico toscano Antonio Cocchi, e del libro Del cibo pitagorico ovvero erbaceo per uso de' nobili, e de' letterati di Vincenzo Corrado (Napoli, Raimondi, 1781). Che questa moda del "cibo pitagorico" non fosse rimasta solo teoria lo dimostra proprio un personaggio per il quale lavorò Leonardi: il cardinale François-Joachim de Pierre de Bernis. Egli, infatti, in una lettera inviata a Vincenzo Corrado per commentare positivamente Il Cuoco galante, che conteneva una sezione dedicata al Vitto Pitagorico in cui si trovavano più di cento piccole ricette vegetariane, scrisse: «Io veramente di questo Pitagorico Cibo faccio uso da molti anni a questa parte» (La lettera, datata 12 gennaio 1780). Oltre a questo, anche nell'Apicio moderno c'è una sezione di ricette (Dell'Erbe di Magro, tomo VI, pp. 185-206, 207-217) divisa in due, la cui prima parte — che contiene le ricette imbandite per il cardinale — si apre con queste parole: «Principierò questo articolo dall'erbe solite mangiarsi dal già Eminentissimo Cardinale de Bernis, le quali termineranno, ove dice Tartufi al Vino rosso di Spagna, e che possano servire ancora per Antremé». Se però a "pitagorico" si facesse equivalere "poco sofisticato", sarebbe sbagliato. Le 97 ricette dell'Apicio, infatti, lo dimostrano, essendo quasi tutte di frittura, o di erbe ripassate e ben pepate.

3.1. Le prime traduzioni dei ricettari francesi

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La letteratura gastronomica italiana del Seicento aveva visto una ricca produzione di testi di scalcheria (relativi alla gestione della casa) e dell'arte del trinciare le carni, ma non di ricettari veri e propri. A partire dagli ultimi decenni del Seicento si iniziarono a produrre traduzioni di testi francesi, come quella del Cuoco francese ove è insegnata la maniera di condire ogni sorta di vivande, che si proclamava traduzione dell'opera di François de La Varenne (Le Cuisinier françois del 1651).

 

Sempre a Bologna nel 1724 uscì la libera traduzione del Cuisinier royal et bourgeois di François Massialot, pubblicata col titolo Il cuoco reale e cittadino. Ma il testo che avrebbe costituito la svolta nella produzione editoriale italiana, perché primo a promuovere la "nuova cucina", sarebbe stato Il Cuoco piemontese perfezionato a Parigi, traduzione rimaneggiata della Cuisinière bourgeoise di Menon, pubblicato anonimo nel 1766 a Torino (editore B.A. Re, C.G. Ricca tipografo, un volume in 12°), che fin dal titolo fa emergere una tendenza che si sarebbe affermata nell'Ottocento: la fioritura di testi che promuovono patrimoni gastronomici regionali. Sempre dallo stesso testo francese sarebbe poi derivata, con riferimenti anche ad altri numerosi testi francesi, La Cuciniera piemontese che insegna con facil metodo le migliori maniere di acconciare le vivande sì in grasso che in magro secondo il nuovo gusto, pubblicata a Vercelli, presso Beltramo Antonio Re,  nel 1771 (un volume in 12°). Mentre il Cuoco piemontese ha una struttura del tutto definita in capitoli, in cui alle zuppe e minestre seguono le carni (bue, vitello, maiale, montone, agnello, pollame, cacciagione) e i pesci, i legumi e gli ortaggi, le uova, burro e formaggio, l'uso delle spezie, le creme, le frittelle, la pasticceria, ecc., nella Cuciniera piemontese non sembra si segua un ordine definito, e le ricette che nell'indice sono ordinate alfabeticamente si trovano poi sparse nel testo.

 

Spostandoci in Toscana, nel 1772, presso Stecchi & Pagani, fu stampato a Firenze L'economia della città e della campagna ovvero il cuoco italiano secondo il gusto francese, libero adattamento del Soupers de la cour di Menon. I suoi tre tomi sono così divisi: nel primo sono presenti ricette di brodi, zuppe e salse, oltre che di vitello e uova; nel secondo troviamo ricette di carni (tra cui ancora il vitello) e terrine (pietanze preparate in recipienti circolari o rettangolari, di ceramica con bordi alti); nel terzo sono inserite ricette dell'arte del credenziere (chi si occupa della pasticceria).

 

Per quanto riguarda la produzione originaria italiana, va ricordata l'Oniatologia ovvero il discorso dei cibi, in quattro tomi (1785 e il 1794 per l'editore Pagani), primo esempio di ricettario pubblicato a dispense, al quale l'editore fiorentino Giuseppe Luchi contrappose nel 1793 Il cuciniere all'uso moderno, sempre a dispense, copia rimaneggiata dell'Oniatologia.

 

Altri testi da ricordare sono Il Cuoco maceratese di Antonio Nebbia che insegna a cucinare ogni sorta di vivande, tanto di grasso che di magro (Macerata, Dalle stampe di Luigi Chiappini, ed Antonio Cortesi, 1781, un volume in ottavo), e Il Cuoco galante, opera meccanica dell'oritano Vincenzo Corrado (Napoli, stamperia Reimondiana, 1773, un volume in quarto).

3.1.1. Per un confronto

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Per un confronto, si veda la ricetta dell'originale francese della Cuisinière (Parigi, presso P. M. Nyon le jeune, 1788, p. 59, Abrégé général pour toutes sortes de Potages) e il corrispettivo Ristretto generale per ogni sorta di minestra e zuppa del Cuoco Piemontese:

 

Prenez la Viande la plus saine & la plus fraîche tuée, pour qu'elle donne plus de goût à votre bouillon; la plus succulente est la tranche, la culotte, les charbonnades, le milieu du trumeau, le bas de l'aloyau, & le giste à la noix: les pieces les plus propres à servir sur table, sont la culotte & la poitrine. Ne mettez du veau dans vos bouillons que pour quelque cause de maladie. Quand votre viande est bien écumée, salez votre bouillon, mettez dans la marmitte de toutes sortes de legume bien épluchés, ratissés & lavés, comme céleri, oignons, carottes, panais, poireaux, choux; faites bouillir doucement votre bouillon jusq'à ce que la viande soit cuite; passez-le ensuite dans tamis, ou dans une serviette; laissez reposer le bouillon pour vous en serviràce que vous jugerez à propos. Il faut six heures de cuisson pour une piece de boeuf de six livres, & huit pour une de douze à quatorze. Ayez soin de ficeler les légumes pour les retirer entiers, ils vous serviront à garner les potages.

 

Prendete della carne la più fresca e la più sana, affine che sia più gusto al vostro brodo, e la più sugosa è la culotta, il mezzo della gamba del bue, il basso della costa. I pezzi più propri a servire sopra la tavola sono la culotta ed il petto del bue, bisogna guardarsi dal mettere del vitello nei vostri brodi, fuorché per cagione di malattia: bene schiumata la vostra carne salarete il brodo e metterete nella pignatta ogni sorta di ortaggi ben mondati e lavati, come sceleri, cipollette, carotte, porri, conosca ssere cotta la carne, in seguito lo colarete in una stamigna o in un panno lino, bisogna lasciar riposare il brodo per servirsene nei bisogni. Per un pezzo di bue di sei libre vi vogliono sei ore di cottura, e otto per uno di dodici o quattordici libre. Procurate di legare gli ortaggi per poterli ritirare intieri, per servirvene ad ornare le minestre. (da Silvano Serventi, a cura di, Il Cuoco piemontese perfezionato a Parigi, Società Studi Storici di Cuneo, Società Storica Vercellese, in collaborazione con Slow Food Editore, Milano, 1995, ristampa anastatica dell'ed. uscita presso Carlo Giuseppe Ricca stampatore vicino a S. Rocco, Torino, 1766, p. 95).

 

Meno fedele, invece, è La Cuciniera piemontese, che nel Ristretto generale per ogni sorta di Minestra, e Zuppa elimina i dettagli finali sul tempo di cottura in relazione alla quantità di carne presenti nell'originale e si aggiungono altri consigli pratici, come quello di tener coperta la carne col brodo durante la cottura, per non farla annerire:

 

Penderete della Carne la più fresca, e la più sana, affinchè dia più gusto al vostro brodo; la più sugosa si è la Culatta, la punta della Spalla, ed il sottolombo del Manzo; i pezzi più buoni per servire in tavola fono la Culatta, ed il Petto: conviene guardarsi però di mettere la Vitella nei vostri brodi insieme col Manzo, mentre la medesima non può reggere nei bollire, a motivo che quando il Manzo farà arrivato alla sua cottura, la Vitella sarà trapassata, e non ne potrete ricavare verun profitto, e perciò sarà meglio di metterla a parte, abbenchè quella non ad altro sia buona che per umidi, per sughi, e Colì: onde bene schiumata che sia la vostra Carne, vi metterete pochissimo sale, e farete un manipolo di erbe, cioè cipollette, un sellero, un porro, una Carota, e le farete bollire nella vostra Marmitta, e che le suddette erbe siano ben legate per poi levarle a suo tempo, ed il vostro brodo lo farete bollire lentamente fino a tanto che si conosca esser cotta la Carne; in seguito lo colarete in una stamigna, o in un pannolino, e di poi lasciarlo riposare per poi servirvene per i vostri sughi, e colì; conviene guardarsi però, che il vostro allesso, a cui avete levato il brodo, non resti senza brodo, perchè vi diventarebbe nero, e sporco; e perciò vi conviene tenere altro brodo, benché sia di giunte della Carne, purché sia ben polito, e può darglisi l'istesso gusto di quello del Manzo, a cui avrete levato il brodo, e questo si sa, acciocché il Manzo, di cui dovete servirvi per la tavola, non diventi né nero, né insipido; se poi voleste fare una zuppa di buon Cappone… da La Cuciniera piemontese che insegna con facil metodo le migliori maniere di acconciare le vivande sì in grasso che in magro secondo il nuovo gusto, Vercelli, Re, 1771 (ed. di Torino, Soffietti, 1798, pp. 5-6).

3.2. Francesco Leonardi

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Francesco Leonardi descrive quelle che furono le tappe fondamentali della propria vita lavorativa nella parte finale della prefazione dell'Apicio moderno: «Io benché Italiano ho fatto il mio noviziato nelle cucine Francesi, e particolarmente in Parigi, in quella del fu Maresciallo di Richelieu; in Napoli in quella del fu Principe di Francavilla [Michele Imperiali Principe di Francavilla (1719-1782); grande mecenate visse dal 1755 al 1777 a Napoli, alloggiando nel Palazzo Cellammare], Cucina del tutto Francese; ho travagliato in diverse campagne di Luigi XV., ho viaggiato per lo spazio di sei anni in una gran parte dell'Europa al servizio di S.E. GIO: Schouvaloff Gran Ciamberlano di S.M.I., al quale sono anche debitore di avere veduto la Capitale della Russia, avendomi egli chiamato in S. Pietroburgo nel 1778., ove sono stato Maestro di Casa di S.A. il Principe Gregorio di Orloff; e finalmente Cuoco, e Scalco di S.M. l'Imperatrice di tutte le Russie Caterina II., che con mio sommo rammarico, e discapito dovetti lasciare a cagione dell'eccessivo freddo del clima nocivo alla mia salute, onde posso dire di aver veduto, ed in conseguenza potuto distinguere, imparare, e lavorare, e rendo ai Maestri dell'arte quella giustizia, che è lor pur troppo dovuta» (I, xxiv-xxv).

 

Ricordando anche il servizio prestato per il Cardinale de Bernis — citato più volte nell'Apicio — Leonardi inserisce nei propri testi riferimenti puntuali alle proprie esperienze, utili ad avvalorare la veridicità delle affermazioni che si trovano nella prefazione. Inoltre, nel suo Dizionario ragionato degli alimenti (1795) sono molti i riferimenti al suo soggiorno in Russia e ai costumi italiani: («ho io veduto in Pietroburgo la matina essere il freddo a dieci o dodici gradi al di sopra del gelo, e durante il giorno crescere a venti e venticinque, onde taluno ch'era sortito con un semplice rendi gotto di panno prendersi un rafreddore, che colà chiamano in Francese Rafroidissement, e cessare di vivere in termine di due o trè giorni»; «In altri tempi le Nazioni straniere prendevano dagli Italiani la maniera di vestirsi: ora non si sa comprendere il perchè, questi stessi Italiani vogliano imitare il vestimento de' popoli oltramontani, senza riflettere alla diversità de' climi»).

 

Morto a Roma nel 1824, a ottantotto anni, dovette occuparsi di cucina fin dalla più tenera età e, come un appassionato che desiderava scrivere, oltre che operare ai fornelli, supplì alla sua mancanza di preparazione letteraria con l'osservazione e la lettura dei buoni autori, come egli stesso spiegò.

3.2.1. «Recherà certamente maraviglia di non vedere il nome di un qualche dotto...»

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«Recherà certamente maraviglia di non vedere il nome di un qualche dotto, ed esperimentato medico [come autore del Dizionario degli alimenti…]. Questo difetto è in vero grande, imperocchè l'opinione può molto in tutto, e specialmente in produzioni letterarie. Ho procurato perciò di supplire al medesimo con le ricerche, con l'assidua applicazione, con la scelta de' buoni autori, e con la lettura de' loro libri. […]  mentre il buon discernimento, ed i talenti possano svilupparsi egualmente in ogni individuo, […]. Il mondo da me veduto, l'avere dimorato per molti anni ne' paesi stranieri, l'essere andato in traccia dei prodotti benefici della Natura, l'averli esaminati con curiosità e precisione, specialmente in ciò che riguarda gli Alimenti […] vi ha non poco contribuito [alla formazione]; inoltre la lettura di parecchi Autori, che hanno trattato queste materie, e quella della medicina assai dottamente, e da me prediletta, ha occupato il più gran tempo della mia vita. Non è stato certamente un'effetto di vanità, o di amor proprio, che mi abbia posto la penna in mano, ma bensì uno spirito di occupazione, ed un vivo desiderio di applicarmi ad uno studio, che ha formato mai sempre la mia maggiore delizia».

 

(da Leonardi Francesco, Dizionario ragionato degli alimenti in cui si tratta dell'Origine, Natura, Nomi, Uso, Abuso, Scelta, Stagioni, Preparazioni, Effetti, Qualità e Proprietà di ogni sorta di Cibi, e di Bevande, e dei Mezzi Semplici, onde conservarsi in Sanità, e tenere lontane le Malattie, nella Stamperia di Paolo Giunchi. Con Licenza de' Superiori. Roma 1795, in 8°, vol. I (A-BAG), vol. II (BAG-CED), vol. III (CEF-ESE), tomo I, pp. v-vj).