2. I ricettari e la lingua del cibo

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Se si volesse parlare di lingua della cucina italiana dalle origini, si dovrebbe far riferimento al latino, al volgare di base toscana e al francese. Il latino è presente fin dalle prime raccolte di ricette e il suo uso si ritrova ancora successivamente nel De honesta voluptate et valetudine del Platina, il quale, in pieno Umanesimo, ripropose in latino parte del ricettario quattrocentesco di Maestro Martino. Il volgare toscano divenne ben presto la base della lingua usata per i ricettari, accompagnata molto spesso da termini e fenomeni propri di altre aree linguistiche.

 

Il francese, invece, diventata la lingua prediletta dell'Europa del Secolo dei Lumi, si affermò in campo culinario a partire dalla fine del Seicento, arricchendo il lessico della cucina italiana di molti francesismi. Quando, però, si parla di lingua del cibo, e in particolare dei ricettari, non si può non far riferimento alla struttura della ricetta, alla disposizione dei contenuti e al modo in cui l'autore, per lo più cuoco di professione, si rivolge al pubblico (generalmente operatori del settore o ricchi signori fino alla scelta fatta da Pellegrino Artusi di indirizzarsi alle famiglie borghesi).

 

La struttura della ricetta a cui siamo oggi abituati, con una prima parte costituita dall'elenco degli ingredienti e una seconda in cui si espongono le fasi di realizzazione del piatto, sì è affermata soltanto grazie all'Artusi, mentre prima della sua Scienza in cucina ci si limitava all'indicazione delle azioni da compiere.

 

La scrittura delle prime raccolte di ricette presentava molte difficoltà: fino alla prima metà del Seicento, infatti, l'uso di una sintassi monotona, basata su verbi e ingredienti semplicemente accostati, non faceva emergere in maniera chiara le sequenze operative da seguire. Soltanto verso la fine del XVII secolo si sarebbe passati a una sintassi meglio organizzata, grazie all'uso di avverbi e di tempi verbali diversificati. L'affermazione dello stile spezzato nel Settecento avrebbe poi lasciato lo spazio a una scrittura più lineare nell'Ottocento, come dimostrato dallo stile narrativo semplice e comprensibile a tutti usato da Artusi.

 

Anche il modo in cui l'autore si rivolge al lettore cambia nel tempo: inizialmente gli si rivolgeva con il tu; poi, a partire dalla fine del Seicento, si sarebbe passati, grazie anche all'influenza dei ricettari francesi, all'uso del voi. Una scrittura, dunque, in movimento, quella della ricetta, cosa dovuta anche alla varietas.

2.1. I ricettari del Trecento e del Quattrocento

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Nel XIV secolo si assiste alla nascita delle prime raccolte di ricette di cucina in volgare. Giunteci sotto forma di manoscritti, generalmente accompagnate da testi di argomentazione simile, si presentano brevi e il più delle volte prive di un titolo specifico. Si tratta, infatti, di testi anonimi, nati per lo più come appunti presi da cuochi al servizio di ricchi signori, come promemoria per sé e per la propria cerchia di collaboratori.

 

Le tradizioni cui fanno capo questi antichi ricettari sono due: quella del Liber de coquina, intitolata così dal ricettario più antico conosciuto, scritto in latino, e quella che non circolò fuori dalla nostra penisola, ma durò più a lungo, dei 12 ghiotti, di probabile origine toscana, detta così per i numerosi riferimenti all'interno delle ricette a dodici ricchi goditori che dovevano essere i destinatari delle ricette e che si ipotizza possano identificarsi con la brigata spendereccia dantesca (Inf. XXIX, vv. 121-129).

 

Alla prima fanno capo due manoscritti conservati nella Bibliotheque Nationale de France.

Tra gli altri principali testi imparentati con il Liber de coquina vanno ricordati quello inedito contenuto in un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana; il Libro della cocina o Anonimo Toscano (Biblioteca Universitaria di Bologna), e il così detto Anonimo Meridionale A, conservato presso la Biblioteca Internazionale Gastronomica di Sorengo.

Il capostipite della seconda famiglia di ricettari, invece, è stato identificato con un manoscritto del 1338-39, redatto in Toscana e tutt'oggi conservato a Firenze. Di qui esso si sarebbe diffuso a Bologna, in Liguria, nel Veneto e nel sud della penisola. 

 

Passando al Quattrocento, il primo testo in volgare organizzato in maniera più definita e scritto in uno stile più chiaro è il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, composto probabilmente intorno al 1450 e conservato in originale a Washington. A esso si sarebbero ispirati altri autori, tra cui Bartolomeo Sacchi detto il Platina (dal luogo d'origine, Piadena in provincia di Mantova) che nel De honesta voluptate et valetudine traduce in latino le competenze culinarie ricavate dall'opera di Martino. Il Platina fu uno degli autori più stimati del Quattrocento italiano. Il suo trattato, infatti, – edito la prima volta a Roma in lingua latina nel 1474 (primo fra i libri di cucina stampati in Italia), poi a Venezia nel 1487 in lingua volgare – fu tradotto in tutta Europa, in francese, tedesco e inglese.

2.1.1. "Limonìa di polli" dall'Anonimo Toscano

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Solitamente ordinate senza un criterio specifico e unico, le prime ricette pervenuteci sono caratterizzate dalla mancanza di indicazione delle dosi, dovuta probabilmente al fatto che la ricetta nasceva come semplice appunto per un pubblico composto da operatori del settore, che ben sapevano regolare la quantità degli ingredienti usati sulla base dei propri bisogni.

 

Le preparazioni proposte sono caratterizzate per lo più dalla presenza abbondante di spezie, vero e proprio simbolo di ricchezza per l'epoca, e dal trionfo, accanto allo speziato, dell'agrodolce. Questo gusto, presente in tutti i ricettari medievali, sarebbe cambiato solo nel Settecento, con l'avvento della nouvelle cuisine nata in Francia. Molti, poi, sono i piatti dai nomi esotici, in particolar modo arabi. Vediamo qui la ricetta, presente in Anonimo Toscano, di una limonìa (pietanza preparata con pollo, mandorle, succo di limone e altri ingredienti):

 

Di limonia di polli dall'Anonimo Toscano (Il libro della cucina del sec. XIV: testo di lingua non mai fin qui stampato, a cura di F. Zambrini, Bologna, G. Romagnoli, 1863 p. 45)

 

Friggansi li polli col lardo e cipolle, e pestisi l'amido non mondo, e distemperisi col bruodo de la carne del porco, e colisi, e cocansi con li detti polli e spezie. E se non avessi amido, spessisi il bruodo colle tuorla d'ova; e quando sirà presso l'ora del ministrare, metti in quello, succhio di limoni, o di lomìe, o di cetrangule.

2.1.2. "Migliaccio" dal testo di Maestro Martino

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[Migliaccio], dal Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, Cap. IV (E. Faccioli, L'arte della cucina in Italia: libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola dal XIV al XIX secolo, vol 1, Torino, Einaudi 1987, p. 161)

 

Per fare un migliaccio per quattro o cinque persone pistarai molto

bene una libra di cascio del più frescho che possi havere, tanto che

ti para essere ritornato in lacte; et haverai tre o quattro once di fiore

di farina et octo o dece bianchi d'ova, et meza libra di zuccharo, mescolando

tutte queste cose et incorporandole bene insieme. Et se non

havessi fior de farina, habi una mollicha di pan biancho, et grattugiato

ben menuto, mettendola in loco de la farina. Et haverai la padella

senza pasta o crosta, et sullo fondo dentro vi metterai di bono strutto,

facendone un solo che sia alto un dito vel circha, et metterai la ditta

padella sulle brascie tanto che 'l strutto sia ben caldo, et dentro vi

buttirai questa tal compositione daendoli il focho temperato sotto et

sopra como è ditto all'altre torte. Et quando serà cotta cavala fore, et

di sopra vi metti di bono zuccharo et acqua rosata.

2.2. I ricettari del Cinquecento e del Seicento

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Nel Cinquecento in cucina cambia la distribuzione dei compiti fra il cuoco e i suoi aiutanti: i ruoli cardine diventano quelli dello scalco, del trinciante e del bottigliere. Il primo era addetto all'allestimento della tavola e dei banchetti, il secondo al taglio delle carni e l'ultimo alla mescita dei vini. Non a caso è questo il periodo in cui diminuisce la produzione di ricettari e aumenta quella di trattati di scalcheria e di monografie sull'arte del trinciare. Tra i ricettari veri e propri, ha particolare importanza La singolar dottrina del gentiluomo fiorentino Domenico Romoli, detto il Panunto (XVI sec.), pubblicata a Venezia nel 1560 e l'Opera di Bartolomeo Scappi, "cuoco secreto", cioè personale, di Papa Pio V, pubblicata a Venezia nel 1570.

 

È questo anche il periodo in cui vedono la luce i Banchetti di Christoforo di Messisbugo, pubblicati a Ferrara nel 1549. Importante, a livello culinario e linguistico, è la presenza di piatti e prodotti di varia provenienza, alcuni dei quali attestati per la prima volta (es. zambudelli, 'sorta di salume'; cannellini 'confetti di forma allungata a base di cannella'). Come nei testi non toscani prodotti all'epoca, anche in quest'opera lo sforzo di adeguarsi al modello toscano convive con fenomeni e termini dell'uso locale parlato e del latino.

 

In tutti i ricettari menzionati, le ricette proposte mantengono, in linea con il calendario liturgico, l'alternanza di menù per i giorni “di magro” e per i giorni “di grasso”, risolta a volte con ricette descritte nelle versioni “grassa” o “magra”. Dal punto di vista del gusto, sulla quantità, come status symbol, si inizia a prediligere la qualità; l'uso dello zucchero prende il sopravvento a discapito di quello delle spezie, e il burro viene prediletto come collante per le salse. Ma la vera svolta si sarebbe avuta nel Settecento. Il Seicento, infatti, viene ricordato come un periodo di passaggio in cui mentre in Italia il numero di ricettari pubblicati diminuiva, in Francia se ne iniziava a produrre un numero altissimo. Tra i testi pubblicati in questo periodo è importante soltanto L'Arte di ben cucinare di Bartolomeo Stefani (1662) e Il cuoco francese ove è insegnata la maniera di condire ogni sorta di vivande (1682), del signor de La Varenne, in realtà traduzione di tre testi anonimi francesi.

2.2.1. "Per far minestra di panata in giorno grasso e magro"

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Per far minestra di panata in giorno grasso e magro, dall'Opera di Bartolomeo Scappi Cuoco secreto di Papa Pio Quinto, in Venezia, presso Alessandro Vecchi MDCV, Libro VI, Cap. 69, c. 285v.

 

Piglisi mollica di pane bianco d'un giorno tagliata a dadi di grossezza d'una nocella,

bagnisi con brodo magro bollente, lascisi stare per un quarto d'hora cavisi po'

d'esso brodo, e rimettesi in brodo buono di cappone mezzo consumato, che non sia

troppo salato, facciasi finir di cuocere e diasegli un poco di corpo con rossi d'ova di

modo che venga quagliata e habbia quel grassetto giallo di sopra. L'estate in luogo

dell'ova pestisi seme di mellon mondo, e facciasene latte соn del medesimo brodo magro

et un mezzo quarto d'hora prima che s'habbia da servire, vi si metta dentro

col latt, e non si lasci bollire perché aggrupperebbe. In tal panata sarà in arbitrio

di mettere zuccaro fino et in loco del latte del seme di mellone si può mettere latte

di mandorle facendole levare il bollo con essa panata, e nelli giorni di venere e sabbato

in loco del brodo si adopererà butiro fresco lavato, et in giorno di vigilia oglio di mandorle dolci. In questo modo si potrebbe fare il pan grattato.

2.2.2. "Boscottini alla Savoiarda"

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Boscottini alla Savoiarda, dall'Arte di ben cucinare di Bartolomeo Stefani (da C. Benporat, Storia della gastronomia italiana, Mursia, Milano 1990, p. 178).

 

Per farne meza cotta, pigliarai sei ova, una libra di zuccaro fino,

avertendo che l'ova siano fresche, nate nell'istesso giorno, pigliarai

un vaso ben pulito, e vi romperai dentro dette ova, e di

quelle sei chiare ne getterai via una, il zuccaro sia ben pestato

nel mortaro, e tamisato, di questa ne metterai quattr'oncie nel

mortaro, e due ne serbarai per fargli sopra il ghiaccio; pigliarai

un mazzetto di bacchette ben scorzate, e ben pulite, per mez'hora

andrai sbattendo dette ova col zuccaro, e quando li vorrai

fare, aggiongerai oncie sei di farina, li farai nella carta, ò nelle

cassette, overo nelle teggie ontate di butiro.

2.2.3. L'Opera e i Banchetti: contenuti a confronto

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L'Opera di Bartolomeo Scappi (1570), che avrebbe riscosso grande successo anche all'estero, è costituita da sei libri: il primo dedicato agli insegnamenti di cucina; il secondo a preparazioni di vario tipo (frittate, salse, piatti a base di carni, e così via); il terzo ai pesci; il quarto ai menù di cene, colazioni, pranzi e banchetti; il quinto ai pasticci e il sesto agli alimenti per gli ammalati. Seguono poi una parte dedicata alla descrizione dei funerali di papa Paolo III e del conclave che si aprì successivamente (1549-50), durante il quale Scappi organizzò pranzi e cene, e 27 tavole che illustrano utensili, macchine e ambienti.

 

Quest'ordine così complesso e ben organizzato del testo si ritrova per la prima volta in un altro testo cinquecentesco di grande importanza: i Banchetti di Messisbugo (1549). Uscito cinquant'anni prima dell'opera di Scappi, il trattato di Messisbugo si divide in due parti: la prima è dedicata ai numerosi banchetti che l'autore allestì, come scalco, nei venticinque anni che operò alla corte di Ferrara (1524-1548); la seconda, invece, contiene oltre un centinaio di ricette reputate degne di un grande cuoco.

 

Se si confrontano i conviti descritti nei Banchetti e quelli dell'Opera, emerge uno stile più sobrio alla corte ferrarese rispetto alla magnificenza della corte papale. Nonostante questo, molti piatti proposti nei Banchetti sono di presunta o reale derivazione francese e tedesca, cosa che dimostra il cosmopolitismo della corte di Ferrara. Si veda, ad esempio, la seguente ricetta "alla francese": A fare un pastello baptuto, alla francese di carne di Vitello, o Castrone (da Benporat Claudio, Storia della gastronomia italiana, Mursia, Milano 1990, p. 116):

 

Prima Pigliarai carne di Uitello di Cossetto, o Castrone, e la netterai bene, da quelle pellegatte, e pellefine che li potrai cauare senza lauarla, dopoi la lauerai molto bene, e li darai un boglio per farla che sia più biancha, & poi che el la serà raffreddata, la pistarai con i Coltelli minutamente, poi pigliarai grasso di manzo della rognolata, e lo netterai da quelle pellesine che se li truouauano, e poi pistarai insieme con la detta carne, e quando serà ben pista a tuo modo, li metterai Gengeuro, e Peuere dentro, e Noci moscate piste, & un poco di Zaffrano, & un poco de Garofani pisti o intieri, e messederai bene ogni cosa insieme, la misura serà secondo la quantità, e grandezza che uorrai fare a tuo giudicio, e se li metterai un pochetto di Persutto tagliato minuto dentro, non li disdirà niente, poi farai la tua Cassa grande, o picciola, tonda del medesimo modo che è quella delle frutte, ma uuole essere un poco duretta la pasta, e sbattuta sopra una Tauola per spacio di mez'hora, poi fatta la Cassa, la imperai del pastume sopra detto, e li porrai sopra il suo coperto a cuocere nel Forno adaggio, & uuole essere mangiato caldo uno poco di Cipolla anchora pista nel pastume, è buonissima.

2.3. I ricettari dell'Ottocento

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Quando si parla di produzione letteraria ottocentesca in cucina ci si riferisce ai ricettari pubblicati dal primo decennio del XIX secolo al 1891, anno in cui venne pubblicata la prima edizione della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi. Si tratta di testi poco originali e per lo più anonimi, ma anche scritti da illustri medici o cuochi di professione, che hanno però il merito di illustrare spesso pratiche e usi propri locali o regionali mantenuti nelle cucine piccolo e medio borghesi. In questo periodo, infatti, accanto all'aristocrazia e ai ceti popolari, anche in Italia si andava affermando la classe borghese, che a proprio modo cominciava a volere esprimere il proprio status anche a tavola. Proprio l'esigenza di rivolgersi a questa nuova classe avrebbe poi portato, da Artusi in poi, alla scelta del volgare toscano e alla diminuzione dell'uso di termini francesi.

 

Tra i ricettari ottocenteschi, ricordiamo qui La cucina sana, economica ed elegante di Francesco Chapusot, pubblicato a Torino nel 1846; il Trattato di cucina, pasticceria moderna di Giovanni Vialardi, pubblicato a Torino nel 1854; Il Nuovo cuoco milanese economico di Giovanni Francesco Luraschi, edito a Milano nel 1829; La cuciniera genovese ossia la vera maniera di cucinare alla genevose di Giambattista e Giovanni Ratto, edito a Genova nel 1871; La nuova cucina economica di Vincenzo Agnoletti, edito a Roma nel 1803 e La cucina teorico-pratica del cavalier don Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, edito a Napoli nel 1837, di cui si ricorda l'appendice in dialetto napoletano, in cui vengono proposti piatti dal sapore popolare.

 

I ricettari di questo periodo sono anche espressione di gusti differenti tra un Sud, in cui prevalgono la pasta, il pomodoro e l'olio d'oliva, e un Nord in cui si afferma l'uso del riso, della polenta e del burro. La lingua di questi ricettari è caratterizzata dalla presenza di dialettismi e francesismi, che rendevano difficoltosa la comprensione da parte di un pubblico ampio e diversificato. A dimostrazione di questo, basta leggere le accuse mosse ad Antonio Vialardi da Olindo Guerrini che, in una lettera d'elogio inviata ad Artusi, con sottoscrizione "Lorenzo Stecchetti", definiva "incomprensibili" molti ricettari pubblicati prima della Scienza in Cucina, non solo per scelte lessicali, ma anche per la mancanza di riferimenti pratici; e così terminava: «Per trovare una ricetta pratica e adatta per una famiglia bisogna andare a tentone, indovinare, sbagliare. Quindi benedetto l'Artusi!  […]».

2.3.1. "Pastina alla Milanese" e "Maccaruncielle"

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Pastina alla Milanese da La cucina teorico-pratica del cavalier Ippolito Cavalcanti (la ricetta è ripresa da Benporat Claudio, Storia della gastronomia italiana, Mursia, Milano 1990, pp. 337-338).  

 

Prendete una quarta di farina di semola, unitevi oncie tre butirro liquefatto manipolatela come sopra con poco sale e pepe, bagnatela con acqua ed uno spruzzo di aceto e ben manipolato, ma che sia liquida montate un chiaro o due d'uova, unitevi il suo rosso, il tutto incorporate, servitene per li mariné.

 

Maccaruncielle da La cucina teorico-pratica del cavalier Ippolito Cavalcanti (la ricetta è ripresa da Benporat Claudio, Storia della gastronomia italiana, Mursia, Milano 1990, p. 366).

 

Scaura tre rotola de maccaruncielle, e chille de la Costa so chiù accellente, chillo de Gragnano pure songhe buon'assaje, e io llo saccio pecchè ncasa de no Signore, che sta de casa vicino a la Nunziata, nne tene sempe li casciune de tutte sciorte de pasta, benedica: pecchè tene no creddeto co uno de Gragnano, e te può figurà chillo puverommo, che sciorte de pasta lle manna, sempe la meglio, pecchè cchiù de na vota ngiaggio manciato, pecchè dinto a chella casa nge'è trasuta na Signorina, che io voglio tanto bene, e quanno chillo Signore se mette a dà na tavola, non te può fiurà com'è sguazzone, pecchè ng'è lo ditto nuosto che dice, ma chesto non pozzo dicere mò: scaura addonga li maccarune vierde vierde, li sculi, e poi li mbruogli co no miezo ruotolo de caso de sardegna, pecchè chillo Signore accossì lli ffa, e lo brodo de lo stufato.

2.3.2. «Lettera del poeta Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini)...»

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«Lettera del poeta Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini) a cui mandai in dono una copia del mio libro di cucina, terza edizione:

 

On. Signor mio,

 

Ella non può immaginate che gradita sorpresa mi abbia fatto il suo volume, dove si compiacque di ricordarmi! Io sono stato e sono uno degli apostoli più ferventi ed antichi dell'opera sua che ho trovato la migliore, la più pratica, e la più bella, non dico di tutte le italiane che sono vere birbonate, ma anche delle straniere. Ricorda ella il Vialardi che fa testo in Piemonte?  

 

«GILLÒ ABBRAGIATO. - La volaglia spennata si abbrustia, non si sboglienta, ma la longia di bue piccata di trifola cesellata e di giambone, si ruola a forma di valigia in una braciera con butirro. Umiditela soventemente con grassa e sgorgate e imbianchite due animelle e fatene una farcia da chenelle grosse un turacciolo, da bordare la longia. Cotta che sia, giusta di sale, verniciatela con salsa di tomatiche ridotta spessa da velare e fate per guarnitura una macedonia di mellonetti e zuccotti e servite in terrina ben caldo».

 

Non è nel libro, ma i termini ci sono tutti.

 

Quanto agli altri Re dei Cuochi, Regina delle Cuoche ed altre maestà culinarie, non abbiamo che traduzioni dal francese o compilazioni sgangherate. Per trovare una ricetta pratica e adatta per una famiglia bisogna andare a tentone, indovinare, sbagliare. Quindi benedetto l'Artusi! È un coro questo, un coro che le viene di Romagna, dove ho predicato con vero entusiasmo il suo volume. Da ogni parte me ne vennero elogi. Un mio caro parente mi scriveva: “Finalmente abbiamo un libro di cucina e non di cannibalismo, perché tutti gli altri dicono: prendete il vostro fegato, tagliatelo a fette, ecc.” e mi ringraziava.

Avevo anch'io l'idea di fare un libro di cucina da mettere nei manuali dell'Hoepli. Avrei voluto fare un libro, come si dice di volgarizzazione; ma un poco il tempo mi mancò, un poco ragioni di bilancio mi rendevano difficile la parte sperimentale e finalmente venne il suo libro che mi scoraggiò affatto. L'idea mi passò, ma mi è rimasta una discreta collezione di libri di cucina che fa bella mostra di sé in uno scaffale della sala da pranzo. La prima edizione del suo libro, rilegata, interfogliata ed arricchita (?) di parecchie ricette, vi ha il posto d'onore. La seconda serve alla consultazione quotidiana e la terza ruberà ora il posto d'onore alla prima perché superba dell'autografo dell'Autore. 

 

Così, come Ella vede, da un pezzo conosco, stimo e consiglio l'opera sua ed Ella intenda perciò con che vivissimo piacere abbia accolto l'esemplare cortesemente inviatomi. Prima il mio stomaco solo provava una doverosa riconoscenza verso di Lei; ora allo stomaco si aggiunge l'animo. È perciò, Egregio Signore, che rendendole vivissime grazie del dono e della cortesia, mi onoro di rassegnarmi colla dovuta gratitudine e stima.

 

Bologna, 19-XII-96

Suo Dev.mo

Olindo Guerrini  

 

(dalla Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, a cura di A. Capatti, Milano, Rizzoli 2010, pp. 33-34).

2.4. I ricettari femminili del Novecento

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Il primo testo di cucina scritto da una donna fu pubblicato da Giulia Ferraris Tamburini che, per l'editore milanese Hoepli, presentò nel 1900 Come posso mangiare bene?.  Avrebbero seguito poi Dalla cucina al salotto (1905); Far molto con poco.  L'arte di creare buoni piatti coi residui di cucina (1909) e La cuoca medichessa (1913) di Lidia Morelli, Fuoco sacro di Ida Baccini (1903) e L'infermiera in cucina di Angelica De Vito Tommasi. Si tratta di ricettari in cui il nuovo modello di donna, che lavora fuori casa, inizia ad aver bisogno di preparare in minor tempo possibile “oltre mille ricette di vivande comuni, facili ed economiche per gli stomachi sani e per quelli delicati”, come recita il frontespizio del libro di Come posso mangiar bene?. Vengono proposti, così, piatti di antico sapore, che, nella nuova veste, si rivelano spesso né di buon gusto, né economici.

 

Unica eccezione, la bolognese Maria Dall'Olio, collaboratrice della famosa rivista di Adolfo Giaquinto Il Messaggero della Cucina, che, nelle sue Norme pratiche sull'alimentazione dei malati e dei convalescenti, presenta ricette meno legate al passato in quanto a condimenti e tempi di cottura. Ad ogni modo, il fine generale che si ponevano queste autrici ― fiere rappresentanti di una borghesia affermata ― era quello di "ammaestrare le massaie" nella cura della casa e delle cose di cucina. Una delle autrici più prolifiche fu Lidia Morelli, che si firmava come Donna Clara, i cui testi, con le loro numerose edizioni, testimoniano il cambiamento di stile dei ricettari femminili: da un tono cattedratico a uno sempre più colloquiale.  L'attività della Morelli, tra i Ricettari pubblicati per l'azienda Cirio, le Agende per le massaie d'Italia, i Libri di casa Domus, non conosce interruzioni e avrebbe continuato anche dopo la Seconda Guerra. Con i suoi libri la Morelli ha in qualche modo descritto cinquant'anni di vita italiana. Un'autrice molto amata fu Moretti Foggia Della Rovere (1872‑1947), che curava una rubrica gastronomica seguitissima sulla Domenica del Corriere. La sua prima opera fu Ricette di Petronilla, che pubblicò nel 1935 a 63 anni.

 

Tra le autrici più vicine all'Artusi, per successo, oltre che per l'accortezza nel tenere in conto i consigli delle lettrici ― con cui comunicava anche tramite la rivista Preziosa, da lei fondata nel 1915 ― ci fu Ada Boni, nipote di Adolfo Giaquinto, fondatore del Messaggero della Cucina e autore di molte opere di gastronomia. Nel 1925 avrebbe pubblicato il Talismano della felicità, che sarebbe passato dalle 600 pagine alle 1200 negli anni Settanta, in cui vengono proposte ricette presentate in maniera molto chiara. Non si dimentichino poi le varie Giorgina, Donna Mimma, Zia Carolina, Ada Bonfiglio, Emilia Zamara e tante altre autrici di un'epoca che, insieme alle ricette in onore del Regime, avrebbe visto il tramonto dopo la seconda guerra mondiale.