5. I suoni rivelatori

Dialetti e altri idiomi d'Italia

Per la loro capacità distintiva, sono soprattutto i suoni (oggetto di studio della fonetica) ad essere il luogo privilegiato di osservazione delle diverse varietà dialettali. Questo perché, in ciascuna lingua, l’inventario dei suoni distintivi (cioè la cui alternanza produce parole di significato diverso: palla e balla ci dicono che p e b sono suoni distintivi – o fonemi – dell’italiano) è un insieme chiuso, e per di più non particolarmente esteso. Combinandosi per formare le diverse parole, i suoni sono così elementi ad alta frequenza, e il modo in cui vengono realizzati caratterizza necessariamente ogni esecuzione.

 

Molto meno caratterizzante, al confronto, è il ruolo del lessico: non perché, come ognuno di noi sa, non vi siano parole in grado di segnalare l’appartenenza di un parlante a una determinata area geografica, ma perché l’inventario lessicale è per definizione qualcosa di aperto, dunque di dimensioni non prevedibili (possiamo dire quanti sono i fonemi dell’italiano , mentre non possiamo farlo per il vocabolario), per cui la frequenza con la quale, nel parlato, ricorrono elementi lessicali specifici – cioè caratteristici di un particolare dialetto – è bassa.

 

Il fatto che chi ci ascolta è in grado di farsi velocemente un’idea della nostra provenienza è insomma dovuto principalmente al fatto che ciascuno di noi esibisce di continuo specifiche modalità di pronuncia dei “suoni”. Un parlante fiorentino, così, è immediatamente riconoscibile come tale perché nelle sue frasi compaiono spesso quelle k, t, p che, quando si trovano tra vocali, lui pronuncia rispettivamente come h, th, ph. Se invece la sua provenienza volessimo riconoscerla per l’uso di una determinata parola, dovremmo ascoltarlo molto più a lungo, e magari l’atteso fiorentinismo lessicale potrebbe anche non venir fuori. Il lessico, oltretutto, è anche il livello del sistema linguistico più instabile: le parole del dialetto tendono infatti a subire la concorrenza di voci promosse dalla lingua standard che vengono avvertite come più “prestigiose”. Sulla fonetica, invece, il controllo del parlante si abbassa, e rappresenta il livello che nei comportamenti effettivi rivela di più la nostra appartenenza linguistica.

 

Possiamo allora dire che, individuando il limite di diffusione di tratti per lo più fonetici, le principali isoglosse del dominio italo-romanzo disegnano l’articolazione in Italia dei comportamenti che caratterizzano di più – cioè “al primo ascolto” – il parlato e dunque i parlanti della Penisola.

 

5.1 L'Italia settentrionale

Dialetti e altri idiomi d'Italia

A nord della La Spezia-Rimini troviamo la resa come g, d, v delle originarie (cioè latine) k, t, p quando si trovano tra vocali. In tutta l’area abbiamo dunque esiti come formiga, cadena, rava. È il fenomeno noto come sonorizzazione, perché si ottiene facendo vibrare, dunque risuonare, le corde vocali. Si tratta di un fenomeno che troviamo anche nel francese (si pensi a savon dal lat. SAPONE) e nello spagnolo (fuego da FOCU, prado da PRATU): per questo la linea La Spezia-Rimini è considerata il confine meridionale di tutto il dominio romanzo occidentale. Un’altra sonorizzazione settentrionale coinvolge l’esecuzione tra vocali della s, che suona sempre come in sbaglio e mai come in sale. Tutta l’area conosce poi lo scempiamento delle consonanti geminate, per cui mancano le “doppie” (spala ‘spalla’) . I nessi latini CL- e GL- si sviluppano in genere in ci- e gi- (CLAVE  > ciav / ciave ‘chiave’; GLANDA > gianda ‘ghianda’). L’esecuzione dell’articolo determinativo maschile è indifferente al modo in cui inizia la parola seguente, proponendo sempre il tipo il (reso per lo più come el: el can, el scarpon). Per esprimere il passato, poi, l’unico tempo previsto è il passato prossimo.

 

Quest’area mostra invece una minore compattezza relativamente ad altri fenomeni: in particolare si può distinguere un’area “galloitalica” (costituita cioè dai dialetti parlati nei territori che furono diversamente interessati dall’invasione di tribù galliche, e che oggi sono diffusi in gran parte del Piemonte, in Lombardia, Emilia Romagna e Liguria) da un’area veneta a oriente del corso dell’Adige. Uno dei tratti forti dell’area galloitalica, la debolezza delle vocali non accentate (“atone”), che con l’esclusione di -a finale vengono in genere soppresse (per esempio da TELARIU ‘telaio’ si ha tlèr), si riscontra assai meno in area veneta (il veneziano gato è così gat nel milanese); mancano poi all’inventario fonetico veneto le caratteristiche vocali turbate presenti anche nel francese (milanese mür ‘muro’; rœda ‘ruota’). All’interno dell’area galloitalica manifestano caratteri peculiari i dialetti liguri: basti pensare che uno dei “marchi di fabbrica” galloitalici, la caduta delle vocali atone, qui non si manifesta (al torinese lajt ‘latte’ corrisponde il genovese lajte).

 

L’area friulana, un tempo considerata la sezione orientale dei dialetti “retoromanzi”, cioè originati dalla sovrapposizione del latino sulla lingua degli antichi Reti, è oggi ritenuto un sistema a sé stante, che, pur condividendo caratteristiche generali dei dialetti settentrionali, mostra vistose peculiarità. Tra queste vanno ricordate la pronuncia “palatale” di K- e g- davanti ad -a (ciasa ‘casa’; gialina ‘gallina’); l’espressione del plurale attraverso la  -s (plurale “sigmatico”: ciasis ‘case’); il mantenimento dei gruppi  “consonante + L” (CLAVE > clav, PLANU > plan).

 

5.2 L'Italia centromeridionale

Dialetti e altri idiomi d'Italia

La linea Roma-Ancona costituisce il limite settentrionale di diffusione di fenomeni presenti in tutto il Mezzogiorno. Tra questi si possono ricordare la resa come z (ts) di s dopo consonante (diverzo, penzo);  la pronuncia intensa (dunque tendenzialmente “doppia”) di b e g interne di parola (incredibbile, staggione); la assimilazione – fuorché in Calabria meridionale – dei nessi latini -ND- e -MB- (quanno; gamma). All’opposto dell’area settentrionale, sotto la Roma-Ancona la -s- tra vocali è sempre “sorda” (cioè come in sale, non come in sbaglio). In area centromeridionale, poi, l’articolo determinativo maschile, indipendentemente dall’iniziale della parola che segue, è sempre lo (in diverse declinazioni: lo / lu / ju / u, ecc.). La sintassi, poi, prevede che il complemento oggetto animato sia retto in genere da preposizione (ho chiamato a Gianni). Altre caratteristiche notevoli dell’area, che tuttavia non giungono fino al suo confine settentrionale, sono la sonorizzazione di k, t, p dopo le consonanti nasali (anghe , mondagna, tembo), l’esito ki- del nesso latino PL- (PLUS > kiù ‘più’), il tipo lessicale femmina per ‘donna’.

 

L’alta frequenza di fenomeni comuni non deve peraltro far pensare a una assoluta omogeneità dell’area, che in effetti si distingue in tre principali sezioni: una settentrionale che in pratica si dispone lungo il percorso dell’isoglossa, una alto-meridionale con epicentro Napoli e una meridionale estrema con Calabria meridionale, Salento e Sicilia. Possiamo esemplificare la differenza tra queste aree osservando il diverso destino a cui vanno incontro le vocali non accentate poste alla fine delle parole. Nella sezione settentrionale dell’area (più o meno corrispondente a Lazio centrale, Umbria e Marche meridionali, Abruzzo settentrionale) le vocali finali si conservano, in alcuni casi sfruttando la distinzione tra parole latine in -U e -O per esprimerne il carattere più o meno “animato” (omo / acitu). Nella sezione che ha Napoli come polo linguistico di riferimento (e che oltre alla Campania comprende anche Lazio e Abruzzo meridionale, Molise, Puglia non salentina, Basilicata e Calabria settentrionale) le vocali finali, se non sono accentate, vanno incontro a una pronuncia indistinta (indicata in fonetica con la grafia ə: quannə ‘quando’). Nell’area estrema le vocali finali tornano a farsi sentire, in virtù di un sistema vocalico che prevede 5 vocali accentate – con timbro “aperto” delle e e delle o (à, è, i, ò, u) – e 3 vocali non accentate (a, i, u). Quello che a Napoli e Bari è solə (‘sole’), a Catanzaro, Lecce e Catania è dunque suli.

 

Un altro vistoso fenomeno che distingue i dialetti delle aree estreme da quelli “napoletani” è l’assenza di posposizione dell’aggettivo possessivo, che invece caratterizza tutta la restante area centro-meridionale, al punto da costituire in alcuni dialetti una forma unica con il sostantivo: dunque in Sicilia avremo ma sora ‘mia sorella’ e non sòrəmə. Nelle aree estreme, poi, troviamo il caratteristico esito di -LL- e di -TR- , che vengono pronunciati “retroflettendo” la punta del lingua messa in contatto col palato (bedda mat’ri!).

 

5.3 Sardegna e Toscana

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Seppur diversi tra loro (e benché tutt’altro che monolitici al loro interno), i dialetti di Sardegna e Toscana sono considerati sistemi che meno di altri si sono modificati rispetto al latino. Gli studiosi che hanno classificato i dialetti italiani misurandone la distanza dalla lingua-madre sono infatti concordi nell’ individuare il toscano il pronipote linguistico più fedele all’antenato; il sardo, da parte sua, mostra comportamenti la cui fedeltà al latino si manifesta in termini di particolare “arcaicità”. 

 

Alcuni esiti della fonetica sarda (specie della regione logudorese in provincia di Nuoro, dove viene tradizionalmente individuato il sardo “d.o.c.”) suggeriscono che il latino penetrato in quest’area non avesse ancora conosciuto quegli sviluppi che invece lo avrebbero contraddistinto come lingua “esportata” nelle altre parti della Penisola. Nel sardo, infatti, troviamo kentu e ghente per cento e gente, che ripropongono le pronunce previste dal latino “classico”, in cui sappiamo che CICERO andava letto kikero. La pronuncia sarda ci dice dunque che il latino con cui i sardi erano entrati in contatto non aveva ancora conosciuto lo sviluppo di ki- / ke- e ghi- / ghe- in ci / ce e gi / ge. Allo stesso modo l’esito mannu ‘grande’, oltre a metterci di fronte a una forma lessicale arcaica (MAGNUS) rispetto al tipo grande che troviamo nel resto d’Italia, ci dice che il latino di riferimento non aveva ancora modificato il nesso GN nel suono palatale che oggi colleghiamo a questa scrittura: una pronuncia come mannu presuppone infatti che G e N fossero due suoni distinti, e successivamente assimilati (un po’ com’è successo nei dialetti centromeridionali per ND > nn).

 

Quanto alla Toscana, possiamo distinguere fra ciò che, tipico dell’area, è presente anche nella lingua nazionale, e ciò che invece resta confinato nel rango dialettale. È anche “italiano” il tratto più specifico del sistema toscano, cioè l’esito -aio della desinenza latina -ARIU (TELARIU > telaio; FURNARIU > fornaio): fuori di Toscana, infatti, è previsto esclusivamente -aro (-ar / er al Nord, -aro / aru al Centro-Sud). Solo nel parlato toscano, inoltre, vige la distinzione tra è ed é (vènti ‘soffi d’aria’ / vénti  ‘20’) e tra ò e ó (bòtte ‘percosse’ / bótte ‘recipiente da vino’) responsabile dell’inventario di sette vocali previsto anche dalla lingua “nazionale”, che recepisce dal toscano anche il dittongamento della è n e della ò in (piède; buòno). Ancora, solo in Toscana si distingue tra il e lo (mentre nel resto d’Italia si sceglie: a Nord il, a Sud lo). È invece rimasta confinata nel dialetto (anche se arriva a interessare la pronuncia locale dell’italiano) la cosiddetta gorgia, cioè la pronuncia come h, th, ph – peraltro non diffusa allo stesso modo in tutta l’area dialettale toscana – di k, t, p quando si trovano tra vocali (le phathathe halde).