3. Classificazioni dialettali

Dialetti e altri idiomi d'Italia

La prima classificazione scientifica dei dialetti italiani fu proposta nel 1881 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli, il quale individuò come principio ordinatore la distanza linguistica che i diversi sistemi dialettali manifestavano rispetto al comune antenato latino (criterio “genealogico”): si trattava dunque di osservare le modificazioni che aveva conosciuto il latino parlato nel suo sovrapporsi alle lingue di sostrato. In questa prospettiva il dialetto che mostrava la maggiore fedeltà al latino era il toscano, che diventava punto di riferimento per ordinare gli altri dialetti: Ascoli individuò così tre gruppi dialettali, la cui diversa distanza dal toscano era significativa del grado di modificazione sviluppato rispetto al latino.

 

L’ordinamento dei dialetti a partire dalla misurazione della loro distanza dal latino verrà riproposto, a quasi un secolo di distanza, da Giacomo Devoto, i cui risultati convergono in linea di massima con quelli di Ascoli: il toscano, così, si confermerà il sistema dialettale “meno distante” dalla matrice latina.

 

Un vistoso riconoscimento del ruolo delle lingue di sostrato nella configurazione dialettale della Penisola è contenuto nella classificazione proposta da Clemente Merlo negli anni Venti del Novecento, in cui si distinguono tre grandi aree dialettali: una settentrionale caratterizzata da dialetti a sostrato “celtico”, una centrale a prevalente sostrato “etrusco” e una centromeridionale a sostrato “italico”. A loro volta le tre macro-aree venivano ulteriormente distinte al loro interno sempre in ragione dei diversi strati etnici che potevano essere rilevati. Risentendo di un clima culturale attraversato dalle suggestioni lombrosiane, Merlo riconduceva l’impatto delle lingue di sostrato sul latino alle specifiche caratteristiche degli organi fonatori delle diverse popolazioni presenti nel territorio al momento della romanizzazione.

 

Un’idea sostanzialmente tripartita dei dialetti italiani emergerà di fatto, negli anni Trenta, anche nella elaborazione di Gerhard Rohlfs dei risultati delle indagini sul campo condotte per la redazione dell’Atlante Italo-svizzero. Essi indicavano infatti un addensarsi di fenomeni linguistici specifici in aree i cui confini seguivano due grandi direttrici: l’una, disposta in direzione La Spezia-Rimini, rappresentava il limite meridionale di particolari fenomeni settentrionali; l’altra, in direzione Roma-Ancona, rappresentava il limite settentrionale di fenomeni linguistici presenti esclusivamente in area meridionale. Le due direttrici “racchiudevano” al loro interno l’area tosco-umbro-marchigiana e alto-laziale. In certa misura, i dati linguistici riproponevano su altra base quella tripartizione che Merlo aveva spiegato chiamando in causa il sostrato preromano.

 

 

3.1 I meccanismi dell'interferenza

Dialetti e altri idiomi d'Italia

In linea generale, il grado di interferenza tra lingue di sostrato e latino parlato – da cui dipende gran parte delle “alterazioni” a cui il latino è andato incontro nel suo processo di diffusione nella Penisola – è riconducibile alla distanza linguistica tra i sistemi che entrano in contatto. Il processo di apprendimento spontaneo, non guidato,  di una lingua (com’è stato il caso del latino da parte delle altre popolazioni) risulta infatti tanto più interferito dalla lingua di partenza quanto più le lingue in gioco sono simili, mentre è minore il grado di interferenza quando la lingua oggetto di apprendimento è lontana da quella di partenza.

 

Un po’ come capita di sperimentare quando ci improvvisiamo parlanti di lingue straniere: la percezione che la lingua-bersaglio sia “simile” alla nostra porta a trasferire in essa un gran numero di caratteristiche che in realtà appartengono solo alla lingua di partenza. Quando invece ci disponiamo a parlare una lingua che percepiamo più lontana, evitiamo di esportare in quella elementi della nostra. Il risultato di questo atteggiamento è che un processo di apprendimento spontaneo tende a produrre una lingua fortemente interferita (dunque, tendenzialmente lontana dal bersaglio) quando i sistemi sono simili, mentre la lingua appresa sarà meno interferita (quindi alla fine più simile al modello) quando i sistemi sono diversi.

 

Nella sua espansione, il latino andò a sovrapporsi a lingue “più simili” (quelle del ceppo indoeuropeo: per esempio quelle parlate dai Galli in area settentrionale, o dalle popolazioni italiche del Centro-sud con cui i latini avevano da tempo rapporti) e a lingue strutturalmente meno simili (quelle non indoeuropee: il sardo, oppure l’etrusco, che aveva per epicentro di diffusione la Toscana).  A causa del diverso peso delle interferenze conosciute nel suo processo di apprendimento, il “latino” riformulato dalle popolazioni che parlavano lingue indoeuropee risulterà in linea generale più “modificato” (cioè lontano dal modello) di quello riprodotto da popolazioni che disponevano, come lingua madre, di sistemi non indoeuropei.

 

E così la minor distanza del toscano dal latino che hanno rilevato le diverse misurazioni di Ascoli e di Devoto è da riferire in gran parte proprio al minore impatto dell’interferenza tra sistemi in contatto data la sensibile distanza che intercorreva tra latino ed etrusco.