Dialetti d'Italia

Dialetti e altri idiomi d'Italia
Anteprima: 
Caratteristiche, funzioni e vitalità

Nel senso comune la dimensione del dialetto è in genere rappresentata da comportamenti linguistici poco sorvegliati – se non trascurati – che tradiscono la provenienza del parlante e anche una sua certa arretratezza culturale. Da cosa trae origine questo diffuso sentire?

 

Preliminarmente, c’è bisogno di una difesa d’ufficio. Ogni dialetto parlato in Italia è, sul piano della struttura interna, una lingua a tutti gli effetti: può cioè contare su una sua grammatica completa (fonetica, morfologia, sintassi) e di un altrettanto strutturato vocabolario. Ha inoltre, come ulteriore tratto distintivo, un suo peculiare andamento intonativo (che gli specialisti indicano come prosodia). Che bisogno c’è, allora, di chiamare “dialetti” queste lingue? E perché chiamarle così porta in qualche modo a svalutare loro, e soprattutto chi le parla? Il fatto è che, anche senza accorgercene, ogni volta che parliamo di dialetto facciamo un confronto con ciò che parallelamente intendiamo per “italiano”. È in virtù di questo confronto che quel codice che per quanto riguarda la sua struttura non può che dirsi una lingua, va incontro al ridimensionamento espresso dall’etichetta  “dialetto”. Ma quali sono i termini di questo ridimensionamento, e a cosa dobbiamo ricondurli?

 

Prima di tutto, è una questione di funzioni. Rispetto alla lingua affermatasi come “nazionale”, ogni dialetto manifesta un limitato raggio d’azione: riguardo alla sua diffusione geografica, ma anche perché il suo uso non si estende a ogni circostanza della vita sociale (gli usi “pubblici” e istituzionali, per dire, sono di esclusiva pertinenza della lingua nazionale); questo significa che solo il sicuro possesso della lingua consente di affermarsi e progredire socialmente. Sebbene, poi, non manchino testimonianze scritte (pensiamo agli esempi, a volte anche illustri, di letteratura dialettale), sfera di elezione del dialetto è infatti la dimensione più familiare del parlato. Questa specializzazione delle funzioni, con la lingua capace di garantire libertà di movimento – orizzontale e verticale – nella società, e il dialetto destinato perlopiù all’interazione più informale in contesti “protetti” (la famiglia, il vicinato), porta con sé una gerarchizzazione dei rapporti tra i codici in gioco, cosa che ha per correlativo, a livello del senso comune, la “svalutazione” del dialetto rispetto alla lingua.

 

Bisogna però sottolineare che la specializzazione delle funzioni e la relativa subordinazione del dialetto non sono imputabili alle sue caratteristiche linguistiche: non c’è insomma niente di “intrinseco” a rendere i dialetti compatibili solo con la sfera della quotidianità e del parlato informale. I motivi di questa saldatura vanno invece ricercati nelle procedure che hanno portato in Italia alla definizione e alla canonizzazione dell’italiano, e al parallelo definirsi, per contrasto, dei dialetti.

1. La nascita di un concetto

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Nell’antica Grecia la parola dialectos (di per sé, ‘conversazione, discorso’) indicava le principali varietà geografiche parlate nella penisola (eolico, dorico, attico, ionico), ciascuna delle quali era anche il codice di riferimento di specifici generi letterari. Mediata dal latino dialectus, la voce cominciò a diffondersi nel clima umanistico-rinascimentale nel quale si produsse la cosiddetta questione della lingua: alla definizione di funzioni e caratteristiche della lingua comune corrisponderà infatti la parallela definizione, anche terminologica, dei sistemi che non saranno rappresentati dal modello di riferimento.  Infatti, una volta stabilito che la lingua comune avrebbe dovuto svolgere funzioni di lingua letteraria (e in questa prospettiva risulterà vincente la proposta di Bembo di procedere alla canonizzazione del fiorentino “aureo” rappresentato dalle opere di Petrarca e Boccaccio), le lingue non coinvolte nella definizione del canone si troveranno a specializzare le proprie funzioni come lingue parlate che nelle diverse aree linguistiche saranno unicamente destinate alla conversazione ordinaria. Proprio l’esclusione di queste lingue da ciò che, dal Cinquecento in poi, definirà il connotato elevato ed elitario della dimensione linguistica “comune”, contribuirà a collocarle in una posizione oggettivamente subordinata nel quadro del repertorio  linguistico “italiano” in via di formazione.

 

Con la celebrazione di un volgare illustre in grado di assolvere alle funzioni elevate già svolte dal latino, la questione della lingua avrebbe fornito alla classe borghese in ascesa – desiderosa di affermarsi anche culturalmente e tuttavia ignara del latino – un prestigioso corrispettivo linguistico di riferimento. In questo quadro il termine dialetto sarà progressivamente adottato, e proposto dalla classe intellettuale egemone, per indicare quelle lingue, d’ora in poi relegate all’ uso esclusivamente orale, che rappresentavano l’unica modalità espressiva delle classi inferiori: proprio la combinazione tra caratteristiche delle funzioni (codice dell’oralità di livello informale) e dell’universo sociale di riferimento (unico codice posseduto dagli strati sociali meno elevati) contribuirà a definire quel carattere di lingua parlata popolare che, fino ai giorni nostri, definiranno in Italia i connotati del “dialetto”.

 

Sul piano concettuale, le vicende connesse alla questione della lingua cinquecentesca porteranno a evidenziare il carattere “eteronomo” del dialetto rispetto alla “lingua”: un sistema, dunque, può dirsi “dialetto” solo se sono contestualmente definite caratteristiche e funzioni della lingua comune di riferimento, che è invece concettualmente “autonoma” rispetto ai diversi dialetti.

2. La realtà linguistica “italo-romanza”

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La definizione scientifica di “dialetti italiani” si collega al concetto di italo-romanzo formulato nel 1977 da Giovan Battista Pellegrini, per il quale il dominio linguistico “italo-romanzo” è costituito dai sistemi linguistici neolatini (o romanzi) parlati in Italia che hanno come “lingua tetto” l’italiano. Si tratta di una definizione che mette a fuoco gli elementi distintivi dei nostri dialetti: da un lato la loro comune origine latina, dall’altro il loro definirsi in rapporto alla lingua ufficiale dello Stato. Dal punto di vista genealogico si tratta dunque di lingue parlate che hanno per antenato il latino, e che possono dirsi “dialetti” perché i suoi parlanti individuano nell’italiano la propria lingua “ufficiale” di riferimento (individuare l’italiano come “lingua tetto” costituisce insomma il corrispettivo linguistico del  sentirsi “italiani” oltre che “piemontesi”, “sardi”, “veneti”, “siciliani”, ecc.). Al dominio italo-romanzo corrispondono così quello gallo-romanzo in area francese, quello ibero-romanzo nella penisola iberica, e così via.

 

È dunque al processo di romanizzazione che va ricondotto il prodursi di quei sistemi linguistici che chiamiamo dialetti. Al progressivo espandersi dell’egemonia politica di Roma nella Penisola, collocabile tra il IV secolo a.C e il I secolo d.C., corrisponde un parallelo diffondersi del latino parlato (che a sua volta stava andando incontro a profondi cambiamenti rispetto al latino classico col quale abbiamo normalmente a che fare negli studi scolastici), che diventa lingua di apprendimento da parte delle popolazioni preesistenti . Il latino, infatti, non viene imposto da Roma come lingua dei conquistatori: sono i Veneti e gli Etruschi, i Sardi, i Liguri così come la grande famiglia degli Italici, a disporsi ad apprendere una lingua percepita come correlato di una società, quella romana, sentita come egemone.

 

Proprio perché non mediata istituzionalmente, questa modalità spontanea di apprendimento fu interessata da più o meno vistosi fenomeni di interferenza, promossi dalle lingue alle quali il latino parlato andò a sovrapporsi. In questo senso la formazione dei sistemi “dialettali” va intesa come fenomeno di sostrato:  è come se al sovrapporsi del latino parlato le lingue delle popolazioni presenti nel territorio della penisola reagissero “imponendo” (in parte) al latino stesso alcune regole delle proprie grammatiche.

 

Al progressivo perdersi del ruolo unificante – anche linguisticamente – dell’Impero, i sistemi risultanti dall’interferenza tra latino parlato e lingue “prelatine” furono sempre più autonomi e distinti. Si ritiene che intorno all’VIII secolo d.C. il latino fosse ormai scomparso come lingua parlata, sostituito in questo ruolo dalla multiforme galassia dei “volgari”: all’inizio del Trecento Dante, nel suo De vulgari eloquentia, ne descriverà brevemente quattordici,  pur avvertendo che, se si dovessero considerare anche le sotto-varietà, se ne conterebbero facilmente più di un migliaio (I, X, 7). Uno di questi “volgari”, nella  nella rappresentazione esibita dalla più illustre letteratura del Trecento, farà progressivamente carriera come “lingua”, costringendo gli altri al ruolo subordinato di “dialetto”.

3. Classificazioni dialettali

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La prima classificazione scientifica dei dialetti italiani fu proposta nel 1881 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli, il quale individuò come principio ordinatore la distanza linguistica che i diversi sistemi dialettali manifestavano rispetto al comune antenato latino (criterio “genealogico”): si trattava dunque di osservare le modificazioni che aveva conosciuto il latino parlato nel suo sovrapporsi alle lingue di sostrato. In questa prospettiva il dialetto che mostrava la maggiore fedeltà al latino era il toscano, che diventava punto di riferimento per ordinare gli altri dialetti: Ascoli individuò così tre gruppi dialettali, la cui diversa distanza dal toscano era significativa del grado di modificazione sviluppato rispetto al latino.

 

L’ordinamento dei dialetti a partire dalla misurazione della loro distanza dal latino verrà riproposto, a quasi un secolo di distanza, da Giacomo Devoto, i cui risultati convergono in linea di massima con quelli di Ascoli: il toscano, così, si confermerà il sistema dialettale “meno distante” dalla matrice latina.

 

Un vistoso riconoscimento del ruolo delle lingue di sostrato nella configurazione dialettale della Penisola è contenuto nella classificazione proposta da Clemente Merlo negli anni Venti del Novecento, in cui si distinguono tre grandi aree dialettali: una settentrionale caratterizzata da dialetti a sostrato “celtico”, una centrale a prevalente sostrato “etrusco” e una centromeridionale a sostrato “italico”. A loro volta le tre macro-aree venivano ulteriormente distinte al loro interno sempre in ragione dei diversi strati etnici che potevano essere rilevati. Risentendo di un clima culturale attraversato dalle suggestioni lombrosiane, Merlo riconduceva l’impatto delle lingue di sostrato sul latino alle specifiche caratteristiche degli organi fonatori delle diverse popolazioni presenti nel territorio al momento della romanizzazione.

 

Un’idea sostanzialmente tripartita dei dialetti italiani emergerà di fatto, negli anni Trenta, anche nella elaborazione di Gerhard Rohlfs dei risultati delle indagini sul campo condotte per la redazione dell’Atlante Italo-svizzero. Essi indicavano infatti un addensarsi di fenomeni linguistici specifici in aree i cui confini seguivano due grandi direttrici: l’una, disposta in direzione La Spezia-Rimini, rappresentava il limite meridionale di particolari fenomeni settentrionali; l’altra, in direzione Roma-Ancona, rappresentava il limite settentrionale di fenomeni linguistici presenti esclusivamente in area meridionale. Le due direttrici “racchiudevano” al loro interno l’area tosco-umbro-marchigiana e alto-laziale. In certa misura, i dati linguistici riproponevano su altra base quella tripartizione che Merlo aveva spiegato chiamando in causa il sostrato preromano.

 

 

3.1 I meccanismi dell'interferenza

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In linea generale, il grado di interferenza tra lingue di sostrato e latino parlato – da cui dipende gran parte delle “alterazioni” a cui il latino è andato incontro nel suo processo di diffusione nella Penisola – è riconducibile alla distanza linguistica tra i sistemi che entrano in contatto. Il processo di apprendimento spontaneo, non guidato,  di una lingua (com’è stato il caso del latino da parte delle altre popolazioni) risulta infatti tanto più interferito dalla lingua di partenza quanto più le lingue in gioco sono simili, mentre è minore il grado di interferenza quando la lingua oggetto di apprendimento è lontana da quella di partenza.

 

Un po’ come capita di sperimentare quando ci improvvisiamo parlanti di lingue straniere: la percezione che la lingua-bersaglio sia “simile” alla nostra porta a trasferire in essa un gran numero di caratteristiche che in realtà appartengono solo alla lingua di partenza. Quando invece ci disponiamo a parlare una lingua che percepiamo più lontana, evitiamo di esportare in quella elementi della nostra. Il risultato di questo atteggiamento è che un processo di apprendimento spontaneo tende a produrre una lingua fortemente interferita (dunque, tendenzialmente lontana dal bersaglio) quando i sistemi sono simili, mentre la lingua appresa sarà meno interferita (quindi alla fine più simile al modello) quando i sistemi sono diversi.

 

Nella sua espansione, il latino andò a sovrapporsi a lingue “più simili” (quelle del ceppo indoeuropeo: per esempio quelle parlate dai Galli in area settentrionale, o dalle popolazioni italiche del Centro-sud con cui i latini avevano da tempo rapporti) e a lingue strutturalmente meno simili (quelle non indoeuropee: il sardo, oppure l’etrusco, che aveva per epicentro di diffusione la Toscana).  A causa del diverso peso delle interferenze conosciute nel suo processo di apprendimento, il “latino” riformulato dalle popolazioni che parlavano lingue indoeuropee risulterà in linea generale più “modificato” (cioè lontano dal modello) di quello riprodotto da popolazioni che disponevano, come lingua madre, di sistemi non indoeuropei.

 

E così la minor distanza del toscano dal latino che hanno rilevato le diverse misurazioni di Ascoli e di Devoto è da riferire in gran parte proprio al minore impatto dell’interferenza tra sistemi in contatto data la sensibile distanza che intercorreva tra latino ed etrusco.

4. Atlanti linguistici e aree dialettali

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Per avere informazioni dettagliate sull’articolazione dell’Italia dialettale abbiamo dovuto attendere le ricerche condotte per la redazione dell’Atlante Italo-svizzero (AIS, pubblicato dal 1928 al 1940, che prevedeva inchieste anche nella Svizzera meridionale). Per l’Italia va poi ricordato il dettagliato panorama linguistico fornito dall’Atlante Linguistico Italiano (ALI), tutt’ora in fase di pubblicazione sebbene le indagini sul campo fossero completate già alla metà del secolo scorso.

 

Con gli atlanti linguistici, il cui capostipite era stato l’Atlas Lingustique Français (ALF), si apriva la stagione della geografia linguistica, disciplina che, utilizzando la metodologia dell’indagine sul campo affidata a interviste con parlanti nativi, si proponeva di osservare il disporsi sul territorio dei fenomeni linguistici. Obiettivo di questa osservazione era individuare linee di confine, definite isoglosse, sulla cui base ricostruire l’articolazione delle realtà politiche in regioni linguistiche. Le rilevazioni sul campo venivano condotte sulla base di un questionario in cui ciascuna domanda sollecitava la proposta della forma che nei diversi punti di indagine era utilizzata per esprimere un determinato concetto (per es. ‘figlio’). Le risposte raccolte per ogni domanda portarono alla redazione di carte linguistiche in cui, in corrispondenza delle singole località indagate, compariva l’espressione del concetto proposto dalla domanda (in una carta contenente le risposte per ‘figlio’, allora, troveremo figliòlo nel punto che corrisponde a Firenze, fiöl a Milano, fijo a Roma, figghiu a Palermo, e così via).

 

L’elaborazione delle inchieste pubblicate nell’AIS ha consentito di individuare all’interno dell’Italia linguistica due fondamentali  isoglosse, disposte, in direzione Tirreno-Adriatico,  lungo le linee che seguono rispettivamente il confine appenninico tra Toscana ed Emilia (isoglossa La Spezia-Rimini) e il percorso dell’antica via Salaria dai Castelli romani  verso Ancona, in corrispondenza di quel “corridoio bizantino” che separava i possedimenti dello Stato della Chiesa dai domini longobardi del Mezzogiorno (isoglossa Roma-Ancona). Lungo queste due linee immaginarie si può osservare l’arrestarsi di una serie di fenomeni linguistici diffusi rispettivamente nel settentrione e nel meridione d’Italia: vengono così a strutturarsi due grandi aree linguistiche, collocate rispettivamente a nord e a sud delle linee La Spezia-Rimini e Roma-Ancona, che tra loro racchiudono un’area in cui vengono a trovarsi Toscana (con l’eccezione della Lunigiana) e porzioni di Lazio, Umbria e Marche.

 

Sul sistema delle isoglosse si basa il quadro d’insieme della Carta dei dialetti d’Italia (1977) con cui Giovan Battista Pellegrini ha descritto il dominio dell’italo-romanzo, che si articola in cinque principali sistemi linguistici: alle aree dei dialetti settentrionali legati all’isoglossa La Spezia-Rimini e dei dialetti centromeridionali disposta a sud della Roma-Ancona si aggiungono tre aree in cui confini linguistici e amministrativi sono più sovrapponibili: l’area sarda, l’area friulana, l’area toscana.

 

5. I suoni rivelatori

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Per la loro capacità distintiva, sono soprattutto i suoni (oggetto di studio della fonetica) ad essere il luogo privilegiato di osservazione delle diverse varietà dialettali. Questo perché, in ciascuna lingua, l’inventario dei suoni distintivi (cioè la cui alternanza produce parole di significato diverso: palla e balla ci dicono che p e b sono suoni distintivi – o fonemi – dell’italiano) è un insieme chiuso, e per di più non particolarmente esteso. Combinandosi per formare le diverse parole, i suoni sono così elementi ad alta frequenza, e il modo in cui vengono realizzati caratterizza necessariamente ogni esecuzione.

 

Molto meno caratterizzante, al confronto, è il ruolo del lessico: non perché, come ognuno di noi sa, non vi siano parole in grado di segnalare l’appartenenza di un parlante a una determinata area geografica, ma perché l’inventario lessicale è per definizione qualcosa di aperto, dunque di dimensioni non prevedibili (possiamo dire quanti sono i fonemi dell’italiano , mentre non possiamo farlo per il vocabolario), per cui la frequenza con la quale, nel parlato, ricorrono elementi lessicali specifici – cioè caratteristici di un particolare dialetto – è bassa.

 

Il fatto che chi ci ascolta è in grado di farsi velocemente un’idea della nostra provenienza è insomma dovuto principalmente al fatto che ciascuno di noi esibisce di continuo specifiche modalità di pronuncia dei “suoni”. Un parlante fiorentino, così, è immediatamente riconoscibile come tale perché nelle sue frasi compaiono spesso quelle k, t, p che, quando si trovano tra vocali, lui pronuncia rispettivamente come h, th, ph. Se invece la sua provenienza volessimo riconoscerla per l’uso di una determinata parola, dovremmo ascoltarlo molto più a lungo, e magari l’atteso fiorentinismo lessicale potrebbe anche non venir fuori. Il lessico, oltretutto, è anche il livello del sistema linguistico più instabile: le parole del dialetto tendono infatti a subire la concorrenza di voci promosse dalla lingua standard che vengono avvertite come più “prestigiose”. Sulla fonetica, invece, il controllo del parlante si abbassa, e rappresenta il livello che nei comportamenti effettivi rivela di più la nostra appartenenza linguistica.

 

Possiamo allora dire che, individuando il limite di diffusione di tratti per lo più fonetici, le principali isoglosse del dominio italo-romanzo disegnano l’articolazione in Italia dei comportamenti che caratterizzano di più – cioè “al primo ascolto” – il parlato e dunque i parlanti della Penisola.

 

5.1 L'Italia settentrionale

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A nord della La Spezia-Rimini troviamo la resa come g, d, v delle originarie (cioè latine) k, t, p quando si trovano tra vocali. In tutta l’area abbiamo dunque esiti come formiga, cadena, rava. È il fenomeno noto come sonorizzazione, perché si ottiene facendo vibrare, dunque risuonare, le corde vocali. Si tratta di un fenomeno che troviamo anche nel francese (si pensi a savon dal lat. SAPONE) e nello spagnolo (fuego da FOCU, prado da PRATU): per questo la linea La Spezia-Rimini è considerata il confine meridionale di tutto il dominio romanzo occidentale. Un’altra sonorizzazione settentrionale coinvolge l’esecuzione tra vocali della s, che suona sempre come in sbaglio e mai come in sale. Tutta l’area conosce poi lo scempiamento delle consonanti geminate, per cui mancano le “doppie” (spala ‘spalla’) . I nessi latini CL- e GL- si sviluppano in genere in ci- e gi- (CLAVE  > ciav / ciave ‘chiave’; GLANDA > gianda ‘ghianda’). L’esecuzione dell’articolo determinativo maschile è indifferente al modo in cui inizia la parola seguente, proponendo sempre il tipo il (reso per lo più come el: el can, el scarpon). Per esprimere il passato, poi, l’unico tempo previsto è il passato prossimo.

 

Quest’area mostra invece una minore compattezza relativamente ad altri fenomeni: in particolare si può distinguere un’area “galloitalica” (costituita cioè dai dialetti parlati nei territori che furono diversamente interessati dall’invasione di tribù galliche, e che oggi sono diffusi in gran parte del Piemonte, in Lombardia, Emilia Romagna e Liguria) da un’area veneta a oriente del corso dell’Adige. Uno dei tratti forti dell’area galloitalica, la debolezza delle vocali non accentate (“atone”), che con l’esclusione di -a finale vengono in genere soppresse (per esempio da TELARIU ‘telaio’ si ha tlèr), si riscontra assai meno in area veneta (il veneziano gato è così gat nel milanese); mancano poi all’inventario fonetico veneto le caratteristiche vocali turbate presenti anche nel francese (milanese mür ‘muro’; rœda ‘ruota’). All’interno dell’area galloitalica manifestano caratteri peculiari i dialetti liguri: basti pensare che uno dei “marchi di fabbrica” galloitalici, la caduta delle vocali atone, qui non si manifesta (al torinese lajt ‘latte’ corrisponde il genovese lajte).

 

L’area friulana, un tempo considerata la sezione orientale dei dialetti “retoromanzi”, cioè originati dalla sovrapposizione del latino sulla lingua degli antichi Reti, è oggi ritenuto un sistema a sé stante, che, pur condividendo caratteristiche generali dei dialetti settentrionali, mostra vistose peculiarità. Tra queste vanno ricordate la pronuncia “palatale” di K- e g- davanti ad -a (ciasa ‘casa’; gialina ‘gallina’); l’espressione del plurale attraverso la  -s (plurale “sigmatico”: ciasis ‘case’); il mantenimento dei gruppi  “consonante + L” (CLAVE > clav, PLANU > plan).

 

5.2 L'Italia centromeridionale

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La linea Roma-Ancona costituisce il limite settentrionale di diffusione di fenomeni presenti in tutto il Mezzogiorno. Tra questi si possono ricordare la resa come z (ts) di s dopo consonante (diverzo, penzo);  la pronuncia intensa (dunque tendenzialmente “doppia”) di b e g interne di parola (incredibbile, staggione); la assimilazione – fuorché in Calabria meridionale – dei nessi latini -ND- e -MB- (quanno; gamma). All’opposto dell’area settentrionale, sotto la Roma-Ancona la -s- tra vocali è sempre “sorda” (cioè come in sale, non come in sbaglio). In area centromeridionale, poi, l’articolo determinativo maschile, indipendentemente dall’iniziale della parola che segue, è sempre lo (in diverse declinazioni: lo / lu / ju / u, ecc.). La sintassi, poi, prevede che il complemento oggetto animato sia retto in genere da preposizione (ho chiamato a Gianni). Altre caratteristiche notevoli dell’area, che tuttavia non giungono fino al suo confine settentrionale, sono la sonorizzazione di k, t, p dopo le consonanti nasali (anghe , mondagna, tembo), l’esito ki- del nesso latino PL- (PLUS > kiù ‘più’), il tipo lessicale femmina per ‘donna’.

 

L’alta frequenza di fenomeni comuni non deve peraltro far pensare a una assoluta omogeneità dell’area, che in effetti si distingue in tre principali sezioni: una settentrionale che in pratica si dispone lungo il percorso dell’isoglossa, una alto-meridionale con epicentro Napoli e una meridionale estrema con Calabria meridionale, Salento e Sicilia. Possiamo esemplificare la differenza tra queste aree osservando il diverso destino a cui vanno incontro le vocali non accentate poste alla fine delle parole. Nella sezione settentrionale dell’area (più o meno corrispondente a Lazio centrale, Umbria e Marche meridionali, Abruzzo settentrionale) le vocali finali si conservano, in alcuni casi sfruttando la distinzione tra parole latine in -U e -O per esprimerne il carattere più o meno “animato” (omo / acitu). Nella sezione che ha Napoli come polo linguistico di riferimento (e che oltre alla Campania comprende anche Lazio e Abruzzo meridionale, Molise, Puglia non salentina, Basilicata e Calabria settentrionale) le vocali finali, se non sono accentate, vanno incontro a una pronuncia indistinta (indicata in fonetica con la grafia ə: quannə ‘quando’). Nell’area estrema le vocali finali tornano a farsi sentire, in virtù di un sistema vocalico che prevede 5 vocali accentate – con timbro “aperto” delle e e delle o (à, è, i, ò, u) – e 3 vocali non accentate (a, i, u). Quello che a Napoli e Bari è solə (‘sole’), a Catanzaro, Lecce e Catania è dunque suli.

 

Un altro vistoso fenomeno che distingue i dialetti delle aree estreme da quelli “napoletani” è l’assenza di posposizione dell’aggettivo possessivo, che invece caratterizza tutta la restante area centro-meridionale, al punto da costituire in alcuni dialetti una forma unica con il sostantivo: dunque in Sicilia avremo ma sora ‘mia sorella’ e non sòrəmə. Nelle aree estreme, poi, troviamo il caratteristico esito di -LL- e di -TR- , che vengono pronunciati “retroflettendo” la punta del lingua messa in contatto col palato (bedda mat’ri!).

 

5.3 Sardegna e Toscana

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Seppur diversi tra loro (e benché tutt’altro che monolitici al loro interno), i dialetti di Sardegna e Toscana sono considerati sistemi che meno di altri si sono modificati rispetto al latino. Gli studiosi che hanno classificato i dialetti italiani misurandone la distanza dalla lingua-madre sono infatti concordi nell’ individuare il toscano il pronipote linguistico più fedele all’antenato; il sardo, da parte sua, mostra comportamenti la cui fedeltà al latino si manifesta in termini di particolare “arcaicità”. 

 

Alcuni esiti della fonetica sarda (specie della regione logudorese in provincia di Nuoro, dove viene tradizionalmente individuato il sardo “d.o.c.”) suggeriscono che il latino penetrato in quest’area non avesse ancora conosciuto quegli sviluppi che invece lo avrebbero contraddistinto come lingua “esportata” nelle altre parti della Penisola. Nel sardo, infatti, troviamo kentu e ghente per cento e gente, che ripropongono le pronunce previste dal latino “classico”, in cui sappiamo che CICERO andava letto kikero. La pronuncia sarda ci dice dunque che il latino con cui i sardi erano entrati in contatto non aveva ancora conosciuto lo sviluppo di ki- / ke- e ghi- / ghe- in ci / ce e gi / ge. Allo stesso modo l’esito mannu ‘grande’, oltre a metterci di fronte a una forma lessicale arcaica (MAGNUS) rispetto al tipo grande che troviamo nel resto d’Italia, ci dice che il latino di riferimento non aveva ancora modificato il nesso GN nel suono palatale che oggi colleghiamo a questa scrittura: una pronuncia come mannu presuppone infatti che G e N fossero due suoni distinti, e successivamente assimilati (un po’ com’è successo nei dialetti centromeridionali per ND > nn).

 

Quanto alla Toscana, possiamo distinguere fra ciò che, tipico dell’area, è presente anche nella lingua nazionale, e ciò che invece resta confinato nel rango dialettale. È anche “italiano” il tratto più specifico del sistema toscano, cioè l’esito -aio della desinenza latina -ARIU (TELARIU > telaio; FURNARIU > fornaio): fuori di Toscana, infatti, è previsto esclusivamente -aro (-ar / er al Nord, -aro / aru al Centro-Sud). Solo nel parlato toscano, inoltre, vige la distinzione tra è ed é (vènti ‘soffi d’aria’ / vénti  ‘20’) e tra ò e ó (bòtte ‘percosse’ / bótte ‘recipiente da vino’) responsabile dell’inventario di sette vocali previsto anche dalla lingua “nazionale”, che recepisce dal toscano anche il dittongamento della è n e della ò in (piède; buòno). Ancora, solo in Toscana si distingue tra il e lo (mentre nel resto d’Italia si sceglie: a Nord il, a Sud lo). È invece rimasta confinata nel dialetto (anche se arriva a interessare la pronuncia locale dell’italiano) la cosiddetta gorgia, cioè la pronuncia come h, th, ph – peraltro non diffusa allo stesso modo in tutta l’area dialettale toscana – di k, t, p quando si trovano tra vocali (le phathathe halde).

6. Dialettalità del lessico quotidiano

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La straordinaria varietà dialettale che viene dettagliatamente illustrata dalle carte degli atlanti linguistici ha un puntuale riscontro nel senso comune: si ritiene del tutto naturale, infatti, riconoscere la provenienza di un parlante della Penisola anche quando parla in italiano.

 

Questa riconoscibilità viene attribuita prima di tutto all’andamento intonativo (nel gergo comune, “la cadenza”), un aspetto del comportamento linguistico che nelle diverse regioni tende a essere trasferito direttamente dal dialetto all’italiano, e la cui “misurazione” interessa sempre più gli studiosi. In seconda battuta, la percezione di “dialettalità” dei comportamenti linguistici riguarda gli usi lessicali: quando si pensa a una lingua, infatti, viene in mente soprattutto un vocabolario, e nel caso della situazione italiana questo sentire si collega a una realtà particolarmente variegata. L’italiano lavorare,  per esempio, ha puntuali riscontri “dialettali” nell’area centro-settentrionale (si considerino il romano lavorà, o il milanese laurà), mentre l’area meridionale, con capofila Napoli, propone il tipo faticare, rilevato nel Mezzogiorno estremo da travagliare (sic. travagghiari), che richiama il travajé di Torino (a sua volta concordante con l’uso francese).

 

Soprattutto nei settori dell’esperienza più legati alla vita quotidiana, il panorama degli usi mostra tuttora uno spiccato radicamento di voci “dialettali”. Tanto che l’italiano stesso pare ancora alla ricerca, proprio in quei settori,  di una “norma” unitaria (domani l’altro o dopodomaniora o adesso? mezzogiorno meno venti o venti a mezzogiorno?), e non di rado succede che le diverse opzioni siano tacitamente accettate come equivalenti, e lasciate tranquillamente a dividersi il campo, cioè il territorio geografico (scalino a Firenze, gradino a Roma).

 

A questo riguardo è interessante ricordare che alla metà degli anni Cinquanta, a cui risale un’accurata indagine promossa  dallo studioso svizzero Robert Rüegg , la denominazione “in italiano” di oggetti e concetti comuni era sostanzialmente affidata alle parole previste dai diversi dialetti. L’utensile per versare il brodo nel piatto era così chiamato romaiolo a Firenze, mestolo a Milano, cucchiaione a Roma, coppino a Palermo. L’italiano “ufficiale”, infatti, continuava a scontare la propria origine di lingua letteraria ed elevata, che in quanto tale non aveva messo in conto di dover servire per le circostanze più concrete: volendo chiamare “in italiano” le cose di tutti i giorni, dunque, non restava che chiedere soccorso al dialetto, dandogli il più possibile una veste “italiana” (cuppinu > coppino). Proprio questo esempio, a bene vedere, ci dice che per il lessico domestico la situazione al giorno d’oggi non è poi così cambiata… 

7. Manzoni e i dialetti

Dialetti e altri idiomi d'Italia

Al momento dell’Unità (1861) i dialetti erano in Italia la scelta pressoché esclusiva per la comunicazione quotidiana, a cui pochissimi erano in grado di affiancare l’italiano, che d’altronde – date le sue caratteristiche di lingua “elevata” – poteva rappresentare il riferimento solo per gli usi scritti, e perlopiù di tono elevato. Al punto che Alessandro Manzoni, proprio negli anni immediatamente successivi all’Unità, parlava (anzi, scriveva) dell’italiano come di una lingua morta perché incapace di rispondere alle esigenze quotidiane della comunicazione. Per Manzoni, non a caso, le “vere lingue” presenti in Italia erano i dialetti, che, ciascuno nella sua area geografica di pertinenza, assicuravano ai parlanti un completo ed efficace strumento per comunicare in ogni occasione della vita. Per questo, incaricato dal Ministero dell’istruzione del Regno di mettere in piedi un programma di unificazione della lingua parlata, Manzoni pensò che la soluzione potesse essere quella di affidarsi a un “dialetto”, estendendo a tutta Italia l’uso di uno “strumento di comunicazione di una società viva e intera” che al momento era in funzione soltanto presso una determinata comunità di parlanti (quella fiorentina). 

 

Operativamente la proposta manzoniana prevedeva, accanto alla presenza di insegnanti fiorentini nelle  scuole del Regno, la redazione di un vocabolario italiano modellato dell’uso fiorentino, che a sua volta rappresentasse il punto di riferimento per compilare vocabolari bilingui dialetto-italiano da adottare in tutte le scuole. Il progetto si rivelò di difficile realizzazione, soprattutto perché non poteva fare affidamento sul sostegno di una rete scolastica ugualmente efficiente e costantemente frequentata nelle diverse aree della Penisola.

 

Di fatto, i dialetti e l’italiano continuarono a lungo ad avere funzioni rigidamente distinte, rappresentando rispettivamente i poli del parlato quotidiano e della scrittura sostenuta. Ancora nel 1961 si poteva affermare così che l’italiano aveva un vocabolario eccellente per discutere dell’immortalità dell’anima e per descrivere liricamente un tramonto, ma assolutamente incapace di servire ai bisogni della comunicazione di tutti i giorni. A sua volta le dimensioni dell’analfabetismo – fenomeno di massa fino all’inoltrato dopoguerra – costituivano oggettivamente un limite al possesso dell’italiano, che dunque continuerà ad essere a lungo lingua di pochi e per poche, selezionate occasioni. In questo quadro, fino a quando le vicende della società italiana non faranno aumentare esponenzialmente il bisogno di italiano (e di scuola), la  lingua parlata sarà in Italia territorio di competenza prevalentemente dialettale.

8. Nuove condizioni linguistiche: il “recupero” del dialetto

Dialetti e altri idiomi d'Italia

Il fatto di costituire “da sempre” la modalità di comunicazione più praticata non ha evitato ai dialetti una considerazione negativa: in un quadro sociale in cui gli strati inferiori sono rimasti a lungo estranei ai percorsi scolastici, essere dialettofoni è stato a lungo sinonimo di analfabetismo, di arretratezza, di miseria. Negli anni del boom economico l’emigrazione (comprese le grandi migrazioni interne) e i processi di urbanesimo saranno in questo senso un’esperienza lacerante, in cui la condizione di subalternità sociale che era all’origine della scelta di sradicarsi dal proprio territorio di origine si rispecchiava nell’oggettiva discriminazione a cui era destinato chi non conoscesse altro che il dialetto. E non a caso chi emigra si raccomanderà affinché i figli rimasti a casa imparino l’italiano, avvertendo distintamente che ogni progetto di riscatto sociale rischiava di essere vanificato dalla “gabbia comunicativa” imposta dal dialetto.

 

Oggi, allo schiudersi del terzo millennio, le cose sono radicalmente cambiate. L’ultima indagine ISTAT sui comportamenti linguistici, promossa nel 2006, ci informa che il dialetto è, anche nell’ambito protetto della famiglia, la scelta prevalente soltanto per il 16% degli italiani, a fronte di un 45,5% che si affida soprattutto all’italiano. Le aree geografiche in cui si registra l’uso più consistente sono il Nord-est (con il Veneto che si segnala come regione più dialettofona d’Italia), il Sud e le isole. È vero d’altra parte che il dialetto non sembra destinato a essere semplicemente sostituito dalla lingua nazionale: quasi un italiano su tre dice di alternare italiano e dialetto nella conversazione con i familiari, e lo stesso succede parlando con amici. Non sono pochi, inoltre, coloro che affermano di alternare dialetto e italiano con gli estranei (19%). Gli studiosi che hanno analizzato gli usi “misti” rilevano che, all’interno della conversazione, il passaggio dall’italiano al dialetto serve spesso a trasmettere una particolare espressività o di intimità.

 

In un quadro generale caratterizzato dal sempre più diffuso possesso della lingua nazionale, il dialetto fa dunque un passo indietro come “prima scelta” della conversazione ordinaria, ma non è più sentito come simbolo di inferiorità sociale, riproponendosi in veste di “possibilità alternativa” immediatamente disponibile. La rete, in particolare, si configura come luogo del “riscatto dialettale”: accanto a versioni dialettali dell’enciclopedia Wikipedia (ad esempio la versione in siciliano), succede di imbattersi di frequente, sui social network, in gruppi giovanili che fanno del proprio dialetto la lingua con cui esprimere vistosamente vincoli di appartenenza e di complicità (ad esempio la pagina Ara ciò di Facebook).

 

 

9. Il dialetto rappresentato

Dialetti e altri idiomi d'Italia

La letteratura, il cinema, il teatro, le canzoni, da qualche tempo anche la pubblicità, ci mettono di fronte a rappresentazioni del dialetto, cioè a usi riflessi, frutto di un ragionamento su caratteristiche e funzioni del dialetto dal quale dipende il tipo di riproposizione che di volta in volta se ne dà. Queste rappresentazioni, di fatto, astraggono il dialetto dalla sua abituale sfera di competenza, che è il parlato quotidiano informale, e sono importanti perché ci fanno capire il valore sociale che assume nel quadro delle sue vicende come lingua d’uso in rapporto all’italiano.

 

Una volta che l’italiano di stampo fiorentino venne codificato come codice di riferimento unitario per la scrittura letteraria, tutte le altre lingue della Penisola, oltre a specializzarsi come lingue parlate della comunicazione ordinaria, cominciarono a essere oggetto di rappresentazione come lingue delle classi subordinate: contadini, servi, figli del popolo in genere saranno le figure che, a partire dal periodo umanistico-rinascimentale, letterati e drammaturghi faranno esprimere in “dialetto”. Al tempo stesso, i connotati del dialetto riprodotto erano quelli di una lingua che, con la sua espressività, ben si sposava con il “colore” del popolo.

 

Questo connotato “espressivo” del dialetto rimanda alla condizione, che gli è stata propria fino al recentissimo passato, di lingua di primo apprendimento. Il processo di trasmissione della lingua materna, infatti, non prevede soltanto l’acquisizione di uno strumento comunicativo: per il contesto di intimità in cui avviene, la lingua trasmessa si carica di un profondo senso di affettività e di intimità, e la lingua di primo apprendimento diventa, immediatamente, lingua del coinvolgimento emotivo, e in questa forma si sedimenta nella personalità del parlante. La componente di “calore” che ognuno di noi individua nell’uso del dialetto dipende proprio dal fatto che il dialetto è stato per secoli la lingua della prima socializzazione, consolidandosi poi in questa veste per il suo radicamento nella dimensione affettiva della famiglia.

 

Per questa condizione di lingua subordinata e insieme carica di emotività la rappresentazione dei dialetti ne isola ora il carattere di lingua delle classi subalterne (anche se nella storia dell’Italia non è stato solo il “popolo”, ma la società intera, a usarle per le esigenze della quotidianità), ora quello di codice intrinsecamente espressivo. Ancora una volta, le caratteristiche – anche come lingua rappresentata – del dialetto si chiariscono bene in rapporto a quelle di una lingua comune, l’italiano, che nasce e si sviluppa invece come lingua “non popolare”, e che viene appresa a scuola, in assenza di ogni rapporto di affettività.

 

9.1 Letteratura

Dialetti e altri idiomi d'Italia

Nei suoi primi passi come lingua letteraria, l’uso del dialetto è stato spesso funzionale a rappresentare satiricamente gli ambienti popolari: se consideriamo la drammaturgia, cioè il genere letterario che più di ogni altro si propone di simulare la realtà linguistica effettiva, il Ruzante farà esprimere in una varietà rustica di veneto i propri goffi contadini, così come il veneziano sarà la lingua del chiassoso popolino messo in scena dalle Baruffe Chiozzotte di Goldoni. Il dialetto torna ancora come lingua del popolo nel teatro in milanese di Carlo Maria Maggi e, in epoca contemporanea, nella Napoli portata alla ribalta da Eduardo De Filippo. In poesia, la prospettiva di ritrarre fedelmente il mondo e i valori genuini della “plebe” condurrà a metà ottocento Giuseppe Gioacchino Belli a scrivere in romanesco i suoi sonetti, così come pochi anni prima aveva fatto Carlo Porta per riprodurre – con minori concessioni all’espressività – il popolino di Milano.

 

Con il modificarsi, nel secondo Novecento, delle condizioni linguistiche della Penisola, quando, per il progredire dell’italofonia, il dialetto non è più, anche per gli strati socio-culturalmente inferiori, la scelta obbligata, la rappresentazione letteraria delle lingue locali privilegia sempre più il loro connotato di lingua in grado di evocare rapporti intimi con la realtà. In questa prospettiva si muove per esempio Pier Paolo Pasolini, che vedrà l’italiano diventare il corrispettivo di una società contemporanea insidiata dalla massificazione dei costumi e della lingua: il dialetto, all’opposto, diverrà il simbolo linguistico di una dimensione “popolare” che vive di un viscerale e genuino rapporto con le cose. Proprio Pasolini curerà insieme a Mario Dell’Arco la Poesia dialettale del Novecento (1952), antologia che rende conto della particolare fortuna conosciuta da questo recupero “poetico” del dialetto nelle diverse regioni d’Italia.

 

Oggi, la consistenza e la fortuna del dialetto in letteratura (si pensi soltanto all’ormai consolidato successo dei romanzi di Andrea Camilleri, in cui le storie che vedono protagonista il commissario Montalbano si sono sempre più intessute, nel corso del tempo, di “sicilianismi”, sembrano da collegare alla sostanziale pacificazione dei rapporti tra lingua comune e dialetti in seguito alla generalizzata messa in sicurezza dell’italiano da parte della popolazione della Penisola: come negli usi quotidiani, nella letteratura il dialetto non scompare, ma anzi viene recuperato per la sua capacità di determinare immediatamente un salto stilistico della comunicazione in termini di genuinità e di immediatezza.

9.2 Pubblicità, musica, “lingue esposte”

Dialetti e altri idiomi d'Italia

A partire dagli ultimi anni del Novecento il dialetto diventa il frequente riferimento di alcuni usi “pubblici”. Il messaggio pubblicitario, per esempio, scopre la capacità delle lingue locali di evocare e trasmettere un particolare senso di genuinità, e in questa prospettiva ricorre se non al dialetto integrale (che impedirebbe la comprensione del messaggio a una fetta rilevante di potenziali consumatori) a una varietà regionale di italiano immediatamente riconoscibile. Adottato in particolar modo per la promozione di prodotti alimentari, il “dialetto” con cui si esprimono i protagonisti degli spot serve prima di tutto a garantire la qualità di un prodotto strettamente legato alla una particolare area geografica, e al tempo stesso a confermare la sua intrinseca genuinità. La lingua locale, insomma, diventa sicura garanzia di un prodotto che è naturale e genuino come colui che ne parla. Questo stesso uso del dialetto, del resto, è proposto anche dalle insegne di negozi che vengono prodotti locali, e lo ritroviamo nei menu di ristoranti che propongono ricette tradizionali.

 

L’uso “simbolico” del dialetto come espressione di radicamento e insieme di genuinità lo ritroviamo nella musica rock contemporanea: soprattutto in quella declinazione “parlata” del rock che è costituita dal rap, il dialetto viene assunto come potente antidoto linguistico a una omologazione sociale e culturale che ha invece per correlato la lingua italiana comune. Questa stessa chiave di lettura del dialetto è promossa dalle cosiddette “lingue esposte”: scritte murali e striscioni a manifestazioni politiche fanno leva sulla capacità di coinvolgimento emotivo delle varietà locali e sul loro costituire, in un’Italia ormai “assuefatta” all’italofonia, il riferimento linguistico di visioni del mondo non massificate.

 

Depotenziato di questa carica antagonista, il dialetto campeggia anche negli striscioni delle tifoserie allo stadio, che ne sfruttano la carica espressiva per marcare il proprio attaccamento alla squadra del cuore, o per dileggiare gli avversari.

 

9.3 Cinema

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La presenza del dialetto nel cinema italiano, in cui la corrente neorealista ne ha determinato forse la cifra più profonda, ha seguito da vicino le vicende sociolinguistiche di un Paese a lungo dialettofono che si è lentamente impadronito di una lingua comune, pur mantenendo il dialetto come codice ampiamente disponibile. Per poter raggiungere una platea il più possibile ampia, i dialetti riprodotti dalla cinematografia sono in linea di massima depurati dei tratti più specifici, e dunque linguisticamente si avvicinano alle varietà regionali dell’italiano.

 

La riproduzione del dialetto sullo schermo era stata il naturale correlato linguistico della frammentarietà di paesaggi e di persone portata sullo schermi da pellicole come 1860, di Blasetti (1934), e Paisà di Rossellini (1946) in cui la macchina da presa accompagna i protagonisti nel loro percorrere l’Italia rispettivamente all’indomani dell’Unità e negli anni della II guerra mondiale.

 

Il cinema neorealista svilupperà questo approccio “documentaristico” focalizzando l’attenzione su una particolare classe sociale, quella costituita dai ceti subalterni che nell’Italia del dopoguerra si affollavano, vivendo spesso di espedienti, nelle periferie delle grandi città, sempre più affollate per le migrazioni interne. In titoli come Sciuscià, Ladri di biciclette, Rocco e suoi fratelli il dialetto è il correlato linguistico di una componente fino allora “invisibile” della società. All’esperienza del cinema neorealista rimandano anche pellicole come La terra trema di Visconti (1948) e L’albero degli zoccoli di Olmi (1978), in cui il progetto di una scrupolosa ricostruzione ambientale  (da un lato il mondo dei pescatori siciliani descritti da Verga, dall’altro la vita di una famiglia contadina bergamasca di fine ’800) prevedeva non a caso la riproduzione “integrale” del dialetto affidata ad attori non professionisti (e la conseguente necessità di sottotitoli).

 

Con il procedere dell’integrazione sociale e linguistica delle classi più svantaggiate, l’uso cinematografico delle varietà locali sarà soprattutto funzionale a una ipercaratterizzazione dei personaggi, che nella cosiddetta commedia all’italiana diventano poco più che macchiette sociali (si pensi ai protagonisti de I soliti ignoti, 1958).

 

Negli ultimi anni si assiste alla riproduzione integrale del dialetto in pellicole ambientate in contesti storico-sociali prevalentemente dialettofoni perché caratterizzati da diffuso analfabetismo: è il caso della vicenda di emigrazione narrata in Nuovo mondo (2006), o della rappresentazione della vita di una cittadina siciliana di primo Novecento (Baarìa, 2009). Di particolare impatto, proprio perché riferito a una realtà urbana contemporanea, è l’uso del dialetto proposto da Gomorra (2008): nella periferia degradata di Napoli, il dialetto diventa il segno distintivo di una realtà sociale chiusa e opprimente, in cui è assente ogni prospettiva di crescita culturale, e dove si è “vincenti” solo se si ha successo nel mondo della malavita.

 

Bibliografia

Dialetti e altri idiomi d'Italia

Varietà in contatto e “dialetto”

 

 

 

Dialetti e lingue di minoranza: inquadramento storico e sincronico

 

 

 

Caratteristiche linguistiche del dominio italo-romanzo

 

 

 

L'uso dei dialetti: ieri, oggi, domani