In questa sezione vengono descritte le parti del discorso della lingua italiana. Esse vengono considerate in relazione alla loro funzione nella costruzione della frase.
Per il concetto di "frase", nell'ambito del sistema della lingua, e per il concetto di "enunciato", nell'ambito del testo, si rinvia alla scheda Sistema della lingua e testo: frase ed enunciato.
(A cura di Riccardo Cimaglia)
Il verbo è tra le parti del discorso quella più importante: senza verbo non si può avere una frase di senso compiuto. Dal punto di vista lessicale, il verbo può indicare un’azione, una condizione, uno stato, un evento. A tale indicazione, però, il verbo aggiunge anche ulteriori informazioni grammaticali:
la persona (1a, 2a, 3a – nelle forme finite);
il numero (singolare o plurale);
il genere (nelle forme composte con l’ausiliare essere);
il tempo;
il modo;
l’aspetto;
la diatesi, cioè direzione di osservazione (attiva o passiva).
Secondo il diverso funzionamento nella frase, i verbi si dividono in PREDICATIVI e COPULATIVI, con ulteriori suddistinzioni in rapporto alla valenza (zerovalenti, monovalenti, bivalenti, trivalenti, tetravalenti) e al tipo di reggenza (transitivi, intransitivi).
Il verbo insieme ai suoi argomenti costituisce il nucleo della frase.
Le coniugazioni. Verbi «regolari» e «irregolari», difettivi, gemelli
Secondo la terminazione dell’infinito (più precisamente, secondo la vocale tematica dell’infinito), i verbi si dividono in tre coniugazioni:
I coniugazione, con infinito in -are (amare, lodare, mangiare)
II coniugazione, con infinito in -ere (temere, leggere, correre)
III coniugazione, con infinito in -ire (sentire, dormire, partire).
Rientrano nella II coniugazione anche i verbi che all’infinito escono in -arre, -orre, -urre, in quanto continuazioni di verbi latini della coniugazione in -ĕre (trarre < lat. trahĕre; porre < lat. ponĕre; condurre < lat. ducĕre).
La distinzione nelle tre coniugazioni non ha alcuna importanza per il significato e il valore dei verbi, ma solo per lo sviluppo delle loro forme, l’insieme delle quali costituisce il paradigma.
I verbi di ciascuna coniugazione che sviluppano le forme allo stesso modo sono detti verbi regolari, mentre quelli cambiano in vario modo le forme vengono chiamati irregolari. Delle tre coniugazioni, quelle che presentano il maggior numero di irregolarità sono la seconda e la terza. La prima coniugazione è quella più regolare: presenta infatti solo quattro verbi irregolari (andare, dare, fare, stare).
Le irregolarità, in genere, si concentrano soprattutto nel passato remoto, nel participio passato, nel presente indicativo e congiuntivo, talvolta nel futuro semplice e nel condizionale presente.
Esistono anche dei verbi che non hanno un paradigma completo, ma difettano di alcune forme, poiché queste non sono state mai usate in determinati tempi e modi e quindi non sono state convalidate nell’uso (es. vertere). Questi verbi vengono perciò chiamati verbi difettivi.
Vi sono poi dei verbi che vengono detti comunemente “sovrabbondanti”, ma che potrebbero essere chiamati più propriamente gemelli, visto che, da una stessa base, hanno sviluppato, mutando coniugazione, due interi paradigmi diversi (es. starnutare / starnutire, arrossare / arrossire). Questi verbi possono raramente avere lo stesso significato e il medesimo comportamento sintattico: es. starnutare / starnutire (sempre monovalenti), adempiere / adempire (sempre bivalenti); ma più spesso hanno significato diverso e, talvolta, anche un differente comportamento sintattico: sfiorare “toccare appena” (bivalente) / sfiorire “appassire” (monovalente).
Altro caso, infine, è quello dei verbi che hanno sovrabbondanza di forme. Si tratta di pochissimi verbi che, non mutando coniugazione, in alcune voci, presentano più forme: es. possiedo / posseggo, devo / debbo e, nella lingua letteraria, fo / faccio, vedo / veggio ecc.
Verbi «accompagnatori» (ausiliari, servili, causativi, aspettuali)
Si incontrano spesso forme verbali composte da due verbi strettamente associati tra loro. Dei due verbi uno esprime il concetto principale e l’altro lo «accompagna» con varie funzioni: o semplicemente per permettere la formazione dei tempi composti e le forme passive (verbi ausiliari), o per dare sfumature particolari di significato (verbi modali, causativi, aspettuali). Queste coppie di verbi funzionano nella frase come un solo verbo, e quindi costituiscono una unità verbale.
I verbi accompagnatori possono essere distinti in:
1. Verbi ausiliari e loro distribuzione
Si chiamano ausiliari i verbi avere ed essere. Essi, oltre a possedere un significato autonomo (Ho una casa al mare; Sono in casa; Mario è stanco), servono per formare i tempi composti di altri verbi (es. ho mangiato; sei andato).
- Con i verbi transitivi l’ausiliare avere si adopera per la formazione dei tempi composti della diatesi attiva (io ho amato, io avevo amato ecc.); l’ausiliare essere, invece, si usa per la formazione di tutti i tempi (semplici e composti) della diatesi passiva (io sono amato, io ero stato amato ecc.).
- Con i verbi intransitivi gli ausiliari si usano per formare i tempi composti, ma non esiste una regola precisa per la loro scelta. Ad esempio il verbo correre richiede l’ausiliare essere (Sono corso a casa), ma può anche essere accompagnato dall’ausiliare avere (Ho corso per due ore; Ha corso un serio pericolo). In caso di dubbio è meglio ricorrere sempre a un buon dizionario della lingua italiana.
- Con i verbi pronominali si ha sempre l’ausiliare essere (io mi ero lavato; voi vi siete pentiti).
- Nell’unità verbale modale l’ausiliare tende ad essere quello richiesto dal verbo all’infinito (sono dovuto uscire), ma è pure ammessa la scelta di avere, ausiliare del verbo modale (ho dovuto uscire). Se l’infinito è semplicemente essere, oppure se l’infinito è passivo, si avrà obbligatoriamente l’ausiliare avere (avrei voluto essere lì; avrebbe potuto essere licenziato). Nelle unità verbali modali che presentino un verbo pronominale, la scelta dell’ausiliare dipende dalla posizione del pronome atono: se esso è enclitico si ha avere (avrebbe voluto pentirsi), se è proclitico si ha essere (si sarebbe voluto pentire).
- Con i verbi impersonali atmosferici la norma prescrive l’ausiliare essere (è piovuto; è nevicato). Tuttavia nell’uso si incontra anche l’ausiliare avere (ha piovuto).
2. Verbi modali, detti anche «servili»
Verbi come dovere, potere, volere, sapere, oltre ad avere un significato proprio (Vorrei un caffè; Alberto non sa la lezione), si usano molto spesso per aggiungere ad un altro verbo anche il senso di «dovere», «possibilità», «volontà» o «capacità». Es.: Franco deve partire; voglio uscire; Alberto non ha saputo fare il compito; Non posso sopportare il miagolio dei gatti.
Questi verbi sono detti modali perché ci informano sulla modalità dell’azione espressa dal verbo all’infinito (obbligo, possibilità, volontà) o servili appunto perché sono «al servizio» del verbo all’infinito. Nelle frasi citate i gruppi deve partire, devo uscire, ha saputo fare, posso sopportare costituiscono un’unità verbale, detta unità verbale modale.
3. Verbi «aspettuali»
Sono dei verbi che, oltre ad avere un significato proprio, possono accompagnare altri verbi per precisare alcuni aspetti dell’azione o evento che si compie. Sono i verbi cominciare, iniziare, prendere, mettersi, avviarsi, accingersi, stare, continuare, finire, smettere, cessare, a volte anche andare e venire, ed espressioni come essere sul punto di, essere lì lì per, via via che. L’unione di questi verbi ad altri (a volte mediante una preposizione) può indicare che l’azione o evento ha aspetto momentaneo (Sto per partire; Comincio a studiare) o durativo (Sto studiando[1]; Continuo a leggere; La febbre va calando). Questi verbi vengono a volte chiamati «fraseologici» (‘che formano frasi fatte’), ma la denominazione più appropriata è quella di verbi aspettuali, proprio perché precisano l’«aspetto» dell’azione o evento.
4. Verbi causativi
Sono detti causativi quei verbi che esprimono un’idea generale di «causare, produrre, indurre» (fare), o «permettere» (lasciare) e che sono seguiti da un infinito. Gli esempi seguenti illustrano tale funzione per il verbo fare: La professoressa mi ha fatto portare il registro in segreteria; Ho visto un film che mi ha fatto tanto ridere. Nel primo esempio, fare esprime l’idea di «ordine» (‘La professoressa mi ha ordinato di portare...’); nel secondo, esprime l’idea di ‘provocare, causare’ (‘un film che ha provocato molte risate’).
5. Verbi con funzione di supporto
Alcuni verbi di significato molto generico (avere, fare, dare, prendere) si usano come “supporto” a dei nomi per esprimere nozioni che non sempre sono espresse da un verbo unitario unico: es. aver paura, aver voglia, fare un sorriso, prender parte, dare uno schiaffo.
[1] Nell’italiano comune parlato delle regioni meridionali (e anche a Roma) l’azione durativa viene espressa con la combinazione Sto + a + infinito (Sto a lavorare).
Diverso il significato, e regolare la costruzione, di stare + a + infinito, indicante l’intensità di un’azione e non la durata: Sono stato tutta la mattinata a parlare con lui.
Tutti i verbi personali, e gli impersonali quando sono usati con senso figurato (es. piovono offese), devono essere concordati con il soggetto, e perciò devono poter esprimere sia il valore del «numero», sia quello della «persona».
I numeri possibili nella nostra lingua sono soltanto il singolare e il plurale[1]. All’interno di ogni numero abbiamo le «persone».
La 1a persona (del singolare o del plurale) è quella che riferisce il verbo all’emittente (o agli emittenti) del discorso, e corrisponde ai pronomi personali io singolare, noi plurale.
La 2a persona (del singolare o del plurale) è quella che riferisce il verbo al destinatario (o ai destinatari) del discorso, e corrisponde ai pronomi personali tu singolare, voi plurale[2].
La 3a persona (del singolare o del plurale) è quella che riferisce il verbo a una persona o cosa (o a più persone o cose) che non è né l’emittente né il destinatario; corrisponde ai pronomi personali egli o lui; ella o lei; esso, essa; loro, essi, esse.
Esempi:
Sing.: 1a pers.: io mangio; 2a pers.: tu mangi; 3a pers.: eglj/lui mangia.
Plur.: 1a pers.: noi mangiamo; 2a pers.: voi mangiate; 3a pers.: essi/loro mangiano.
II numero e la persona si hanno soltanto nei modi «finiti». I modi, detti «indefiniti», non esprimono la categoria della persona né quella del numero. L’unico modo indefinito che può presentare il numero (e anche il genere) è il participio passato (amato, amati, amata, amate).
[1] In alcune lingue, come il greco antico, esiste anche il numero duale, che indica “due” cose o persone; in altre lingue esiste il triale, in altre il paucale, che indica una pluralità di pochi elementi.
[2] Se il destinatario viene trattato con la forma di cortesia, riceve la 3a persona.
I verbi predicativi ci danno anche la possibilità di esprimere la «direzione di osservazione» dell’evento descritto. In sintesi: quando nella frase si pone come soggetto grammaticale l’agente (il punto di partenza dell’evento), si ha la direzione di osservazione attiva e il verbo si usa nella forma attiva (es. Tutti i colleghi ammirano Lucia); quando nella frase si pone come soggetto grammaticale il punto di arrivo dell’evento, si ha la direzione di osservazione passiva e il verbo si usa nella forma passiva (es. Lucia è ammirata da tutti i colleghi). Hanno valore passivo anche le costruzioni con verbi attivi accompagnati dal si «passivante» (es. si sono dette molte cose sul suo conto).
La forma attiva è la forma posseduta da tutti i verbi ed è la forma normale. Sono frasi con costruzione attiva e con verbi in forma attiva tutte le seguenti:
Paolo ha mangiato la torta (costruzione attiva con verbo transitivo diretto )
Luigi subisce un torto ( » » » » » » )
II riposo giova alla salute ( » » » » » indiretto)
Franca sbadiglia ( » » » » intransitivo )
Piove (frase impersonale)
Soltanto i verbi transitivi diretti (o usati come tali) possono avere la forma passiva. Sono frasi costruite passivamente e quindi col verbo in forma passiva le seguenti:
La torta è stata mangiata da Paolo.
Un torto è stato subìto da Luigi.
Nella forma passiva i verbi prendono sempre l’ausiliare essere e talora venire o andare (quest’ultimo può conferire all’azione espressa dal verbo un valore di obbligatorietà): es. La torta viene mangiata da Paolo; Il modulo va compilato (“deve essere compilato”) in ogni sua parte.
Moltissimi verbi vengono usati anche con la forma pronominale la quale esprime dei valori particolari che riguardano la persona o la cosa individuata dal soggetto: azione volontaria del soggetto su sé stesso o con il proprio corpo (pettinarsi, lavarsi le mani – valore cosiddetto riflessivo); fenomeno automatico o accidentale dovuto a causa esterna (svegliarsi); moto spontaneo dell’animo (pentirsi); operazione compiuta o atteggiamento assunto dal soggetto con intensa partecipazione (bersi un tè, godersi la vacanza – valore medio di intensità).
Tutti i verbi pronominali prendono l’ausiliare «essere»: si dice mi sono lavato, mi sono comprato un orologio, mi sono goduta la vacanza, mi sono pentito, ecc.
I verbi hanno forme diverse anche per esprimere:
- il modo con cui l’azione (o evento, o condizione, ecc.) viene presentata da chi parla;
- il tempo in cui l’azione (o evento, o condizione, ecc.) si colloca;
- l’aspetto che l’azione (o evento, o condizione, ecc.) assume: se durativa, momentanea, ecc.
1. I modi
I modi si distinguono in due gruppi: modi finiti sono detti quelli che hanno le forme per le varie persone, e sono l’indicativo, il congiuntivo, il condizionale, l’imperativo; modi indefiniti sono detti quelli che non hanno le forme per le varie persone, e sono l’infinito, il participio e il gerundio.
2. I tempi
I modi possono essere riferiti a vari tempi, i quali in linea generale sono di tre specie: presente, passato, futuro. Non tutti i modi hanno tutti i tempi. All’interno del passato e del futuro esistono poi delle distinzioni, che riguardano l’«aspetto» o i rapporti di precedenza nel passato o nel futuro (vedi qui o qui).
3. L’aspetto
Chiamiamo «aspetto» l’informazione che noi diamo su varie caratteristiche dell’azione (o evento, ecc.), e cioè: sulla sua «momentaneità» o «durata», sul suo «distacco» o «collegamento» col presente, sul suo «avvio», sul suo «andamento» e sulla sua «conclusione». Queste informazioni possono essere date:
1) dal significato stesso del verbo;
2) dall’aggiunta di verbi aspettuali;
3) dal valore di alcune forme verbali per il passato.
Per quanto riguarda il primo caso, pensiamo a verbi come scoppiare, colpire, sbocciare, nascere, morire, entrare, uscire, partire, arrivare: gli eventi o le azioni descritte da questi verbi si compiono tutti in un momento (una bomba «scoppia» in un istante, non si potrebbe dire che «scoppia per 10 minuti»). Diciamo perciò che questi verbi già di per sé hanno un «aspetto momentaneo». Pensiamo ora a verbi come dormire, correre, viaggiare, camminare, cantare, leggere, scrivere, studiare: gli eventi e le azioni descritti da questi verbi si svolgono tutti con una certa durata (dicendo che una persona «dorme» s’intende che ha cominciato a dormire da qualche tempo e continua a dormire). Diciamo perciò che questi verbi già di per sé hanno un «aspetto durativo».
II secondo caso è già stato presentato in questa scheda. Qui si deve aggiungere che, con l’uso dei verbi aspettuali, l’aspetto momentaneo può distinguersi in due tipi:
- ingressivo o «di entrata» (Sto per partire; Comincio a studiare; Mi accingo a parlare; Prese a dire; Si mise a scrivere);
- egressivo o «di uscita» (Finisco di studiare; Smetto di cantare; Cesso di lavorare)[1].
L’aspetto durativo, a sua volta, è di tipo progressivo: indica che un evento è in corso e prosegue (Sto leggendo un bellissimo romanzo).
Il terzo caso riguarda invece il valore che hanno le forme di alcuni tempi verbali del passato e cioè l’imperfetto, il passato prossimo e il passato remoto. Queste forme rientrano tutte nel tempo «passato», ma non servono a collocare i fatti in epoche diverse più o meno lontane nel tempo; la scelta dell’una o dell’altra forma permette invece di precisare alcuni aspetti dell’azione (o evento, ecc.).
- L’imperfetto indica un evento durativo nel passato: più precisamente, indica che un evento si è svolto con una certa durata (L’aereo volava ad altissima quota). A volte questa «durata» dell’evento indicata dall’imperfetto è resa più evidente dal riferire che un secondo evento, momentaneo, capita mentre si svolge il primo (Mentre leggevo il giornale, qualcuno bussò alla porta). In questo modo l’imperfetto esprime bene il rapporto tra un evento di più lunga durata e un altro che si affianca a un determinato punto.
[1] Il verbo finire nell’uso aspettuale varia il suo significato in relazione alla preposizione che lo segue: Finisco di studiare = completo l’azione o la interrompo (aspetto momentaneo o egressivo); Finisco per arrabbiarmi / Finisco con l’arrabbiarmi = ha inizio una nuova azione, come conseguenza di una precedente (aspetto momentaneo ingressivo).
1. Modo indicativo
È chiamato così il modo che «indica» un fatto che è reale o viene presentato come reale. Es.: Oggi piove; Sono a scuola; Il sole illumina la terra; Roma è diventata capitale d’Italia nel 1870; Sono arrivato tardi perché il mio orologio funzionava male; Se verrai a trovarmi, ti farò vedere i miei quadri. Queste frasi presentano quei fatti come veri e realmente accaduti o come fatti che, stando a certe condizioni, accadranno con certezza.
Il modo indicativo è il più usato come modo della «realtà» o «certezza». Ha otto tempi di cui uno per il presente, cinque per il passato e due per il futuro. L’uso degli otto tempi è il seguente:
| TEMPI DEL MODO INDICATIVO |
tempi del presente | 1) Presente: amo, ami, ama,… Riferisce il fatto al momento in cui se ne parla: vedo, sento, squilla il telefono. Insieme con un avverbio che indica un futuro abbastanza prossimo, si usa comunemente anche per il futuro: Domani parto per la montagna. Il presente viene adoperato anche come presente storico: Mozart nasce a Salisburgo nel 1756; e come presente “atemporale” per l’espressione di verità universali o scientifiche: l’uomo è un animale razionale; due più due fa quattro. |
tempi del passato | 2) Imperfetto: amavo, amavi, amava, … Riferisce il fatto a una qualsiasi epoca (anche lontanissima), e serve a presentare quel fatto come continuo nella sua durata: Ieri pioveva. Viene spesso adoperato per indicare due fatti contemporanei: Dormivo tranquillamente quando hanno suonato alla porta; oppure per indicare un’azione ripetuta o abituale: Passavo tutti i giorni per Piazza Plebiscito. Si usa inoltre come forma di cortesia: Desideravo un caffè; e, nel parlato, al posto del congiuntivi e del condizionale nel periodo ipotetico: Se venivi, ti divertivi = «Se fossi venuto, ti saresti divertito».
3) Passato remoto: amai, amasti, amò, … Riferisce il fatto al passato, presentandolo come “sentito ormai staccato dal presente”: L’alluvione di due anni fa distrusse il ponte (il fatto non ha più conseguenze sul presente, ad es. il ponte è già stato ricostruito).
4) Passato prossimo: ho amato, hai amato, ha amato, … Riferisce il fatto al passato, presentandolo come “sentito ancora vicino al presente”: L’alluvione di due anni fa ha distrutto il ponte (il fatto ha ancora conseguenze sul presente, ad es. il ponte non è stato ancora ricostruito).
5) Trapassato prossimo: avevo amato, avevi amato, … Riferisce il fatto al passato, collocandolo prima di un’altra azione passata: Avevo appena finito di mangiare, quando squillò il telefono.
6) Trapassato remoto: ebbi amato, avesti amato, ebbe amato, … Riferisce il fatto al passato, collocandolo prima di un altro fatto indicato col passato remoto: Quando ebbe finito di parlare, se ne andò. Questo tempo si trova soltanto in frasi dipendenti temporali (ma è raro e si sostituisce col passato remoto: Quando finì di parlare, se ne andò; oppure con l’infinito: Dopo aver finito di parlare, se ne andò).
|
tempi del futuro | 7) Futuro semplice: amerò, amerai, amerà, … Riferisce il fatto a un tempo che deve venire (di solito non vicinissimo, nel qual caso si usa il presente): Il prezzo della benzina salirà ancora. Il futuro viene anche adoperato per indicare un obbligo (valore “deòntico”): Gli parlerai tu!; oppure si usa per esprimere dubbi o supposizioni (valore epistèmico): Conoscerai certamente questa poesia; Saranno le 8. Si usa, infine, in sostituzione del congiuntivo: Penso che partirà.
8) Futuro anteriore: avrò amato, avrai amato, avrà amato, … Riferisce il fatto a un tempo anteriore a un altro futuro (quindi più vicino al presente): Quando avrò finito le medie, deciderò che cosa fare. |
2. Modo congiuntivo
Questo modo si usa quasi sempre nelle frasi dipendenti[1] per esprimere un desiderio o una supposizione di qualcuno o la possibilità che un fatto avvenga o possa essere avvenuto. Si usa spesso in dipendenza da verbi come credere, supporre, desiderare, volere, sembrare, ecc., in frasi come queste: Mi pare che basti; Aspetto che arrivi il treno; Vorrei che qualcuno mi pulisse la lavagna; Gli ho spiegato tutto perché fosse informato. Inoltre, il congiuntivo si usa in frasi principali che esprimono augurio o desiderio (Potessi avere una bicicletta nuova!), oppure come imperativo di 3a persona (congiuntivo esortativo): Vada via!. Il modo congiuntivo ha solo quattro tempi.
| TEMPI DEL MODO CONGIUNTIVO |
tempi del presente | 1) Presente: (che) io ami, (che) tu ami, (che) egli ami, … Indica un fatto in relazione con un altro presente o futuro: Voglio che tu venga con me; Credo che siano proprio loro; Non so se sia vero. Si usa anche con valore esortativo: Vadano pure. |
tempi del passato | 2) Imperfetto: (che) io amassi, (che) tu amassi, (che) egli amasse, … Indica un fatto in relazione con un altro fatto passato: Volevo che tu venissi con me; Aspettavo che arrivasse; Speravo che mi telefonasse; oppure si trova in dipendenza di un condizionale: Vorrei che non si stancasse; Avrei voluto che ci fosse anche lui. Può anche esprimere desiderio o augurio: Potessi esserci anche tu!
3) Passato: (che) io abbia amato, (che) tu abbia amato, (che) egli abbia amato, … Indica un fatto passato in relazione con uno presente: Credo che sia partito; Sembra che lo sciopero sia stato revocato; Spero che tu mi abbia creduto.
4) Trapassato: (che) io avessi amato, (che) tu avessi amato, (che) egli avesse amato, … Indica un fatto passato in relazione con un altro fatto passato: Credevo che tu fossi partito; Sembrava che lo sciopero fosse stato revocato; Speravo che tu mi avessi creduto. |
3. Modo condizionale
È chiamato così il modo che presenta un fatto che si potrebbe verificare o si sarebbe potuto verificare come conseguenza di una certa condizione. (Attenzione: il condizionale esprime la conseguenza e non la condizione!). Si ha perciò nelle frasi principali del periodo ipotetico. Es.: Partirei, se non fosse così freddo; Avrei comprato la macchina nuova, se avessi avuto soldi a sufficienza.
Il modo condizionale ha due soli tempi.
| TEMPI DEL MODO CONDIZIONALE |
tempi del presente | 1) Presente: amerei, ameresti, amerebbe, … Indica un fatto presente sottoposto a una condizione (presente o passata): Se ti alzassi prima, saresti più puntuale; Se avessi detto la verità, ora saresti più tranquillo. Il condizionale si usa anche nelle richieste, come forma di cortesia: Vorrei un caffè; Potresti prestarmi la penna? Il condizionale può avere anche valore desiderativo o potenziale: la prenderei io “vorrei / potrei prenderla”; oppure valore dubitativo: Non saprei da dove cominciare.
|
tempi del passato | 2) Passato: avrei amato, avresti amato, avrebbe amato, … Indica un fatto passato sottoposto a una condizione passata: Se ti fossi alzato prima, saresti arrivato in orario. Si trova anche in dipendenza da verbi di promessa, speranza e simili, usati al passato: Promise che sarebbe tornato; Sperava che l’avresti aiutato. |
4. Modo imperativo
È il modo del comando (dal lat. imperare “comandare, dare ordini”). Ha soltanto forme per il presente, perché un ordine si può dare veramente solo al presente: Vieni qui!; Uscite subito! (Un ordine per il futuro si dà usando il futuro: Partirai domani!). Ha forme proprie soltanto per la 2a persona singolare (ama) e plurale (amate); per dare ordini rivolgendosi a una terza persona (reale o come forma di cortesia), a un gruppo di persone, compreso chi parla (1a pers. plur.), o a terze persone, si usano le forme del congiuntivo presente (Vada subito a casa!; Andiamo!; Vadano subito via!).
L’imperativo negativo si forma premettendo non all’infinito del verbo, per la 2a pers. sing. (non andare, non venire, non mangiare), e alla 2a pers. plur. dell’imperativo positivo, per la 2a pers. plur. (non uscite, non correte).
[1] Si chiama congiuntivo proprio perché più spesso è nelle frasi che sono “congiunte” con le altre, cioè nelle dipendenti.
I modi indefiniti non hanno forme per le diverse persone e sono perciò più vicini ai nomi e agli aggettivi: si chiamano anche forme nominali del verbo.
1. Modo infinito
L’infinito è la forma verbale che esprime il puro significato del verbo, senza riferimento a persona: amare, temere, sentire, cantare, studiare, correre, divertirsi (infinito pronominale).
Come verbo, si usa raramente da solo, cioè in frasi principali (in frasi come Noi a insistere e lui a negare), mentre ricorre spessissimo affiancato dai vari verbi «accompagnatori», e cioè servili e simili (Non posso uscire; Vorrei disegnare; Fammi vedere; vedi qui) e nelle frasi dipendenti di tipo implicito (Apro la porta per chiamare mia sorella; Prima di andare a letto mi preparo la cartella).
L’infinito può esprimere anche un comando: Agitare bene prima dell’uso; Non sporgersi dal finestrino (imperativo negativo); oppure desiderio o augurio: Ritornare ancora una volta!
Si usa spesso come nome, specialmente accompagnato dall’articolo (infinito sostantivato, usato come soggetto, complemento oggetto o altro complemento: il “vivere inimitabile” di Gabriele D’Annunzio.
L’infinito ha due tempi:
1) Presente: amare
2) Passato: avere amato.
2. Modo participio
È chiamato così perché «partecipa» delle qualità del verbo e di quelle dei nomi e degli aggettivi. È, in sostanza, un aggettivo che esprime un’azione o una condizione che riguarda la persona o cosa indicata da un nome.
Il participio ha due tempi:
1) Presente: amante
2) Passato: amato.
Il presente ha sempre valore attivo. Il passato ha valore passivo nei verbi transitivi (amato ‘colui che è amato’), attivo negli intransitivi (andato).
Il participio presente si usa molto poco (solo nei linguaggi specialistici) come vera forma verbale con un suo oggetto diretto o indiretto (un quadro rappresentante una scena di guerra; un pilastro insistente sull’arco), e moltissimo, invece, come aggettivo o come nome (alla pari degli aggettivi sostantivati: un’attrice affascinante; i partecipanti alla guerra).
Il participio passato si usa: per formare i tempi composti (ho amato; è partito) e le forme passive (è amato; sono temuto;..) dei verbi; come aggettivo (l’anno passato; l’albero fiorito; il binario morto); come nome (il passato; la spremuta; la richiesta).
Concordanza del participio passato: con i verbi che vogliono l’ausiliare essere o passivi il participio passato concorda con il soggetto (Paolo è ferito; Maria è uscita); quando in una frase l’oggetto è espresso con un pronome clitico, l’accordo è obbligatorio: Paola e Maria le ho viste ieri; i biglietti li ha comprati Carlo. Con il pronome relativo e i pronomi personali l’accordo può esserci, ma la tendenza odierna è all’uso del participio invariato (la ragazza che ho visto; grazie per averci seguito).
Con il si impersonale non c’è concordanza (desinenza -o): si è mangiato, si è dormito. Con il si passivante il participio passato concorda con il soggetto (Mia sorella si è laureata; Gli studenti sì sono ribellati).
3. Modo gerundio
È un modo che esprime un’azione o una condizione collegandola a un’altra che è la principale e stabilendo con questa un rapporto di tempo, di causa, di modo, ecc. (L’uso del gerundio è spiegato a proposito delle frasi dipendenti di tipo implicito, nei vari paragrafi).
Il gerundio ha due tempi:
1) Presente: amando
2) Passato: avendo amato.
Il nome è quella parte del discorso che si usa per indicare un qualsiasi referente (avvenimento, oggetto, azione, condizione, qualità, sensazione…). Nella lingua italiana il nome è caratterizzato da marche di numero (singolare e plurale) e di genere (maschile e femminile).
I nomi possono funzionare da aggettivo: mobile bar, governo ombra, treno lumaca. Si trasformano in aggettivi i nomi di alcuni colori che derivano da oggetti campione: il vestito rosa “il vestito color della rosa”.
Nella struttura della frase la funzione di nome (in collegamento con un verbo) può essere svolta da qualsiasi parte del discorso che venga sostantivata per mezzo dell’articolo (o da un numerale): es. il dovere, il rosso, due perché ecc.
In base alle cose che indicano, i nomi vengono classificati in varie categorie.
1. Nomi comuni e nomi propri
I nomi comuni indicano referenti in quanto appartenenti a una classe di elementi con le stesse caratteristiche: libro, penna, lupo, città, padre, figlio, partenza, speranza, stanchezza, professore, ecc.
I nomi propri indicano referenti in quanto unici, in assoluto o in un determinato ambito (es. la famiglia), e soli ad essere indicati con quel nome: Franco, Maria,... Fido, Bob,... Italia, Tevere, Garda,..., Colosseo,... Questi nomi appartengono solo a tali referenti, sono loro “proprietà”. I nomi propri si scrivono con l’iniziale maiuscola. I nomi dei giorni e dei mesi, delle stagioni, si scrivono preferibilmente con la minuscola (lunedì, settembre, estate ecc.).
2. Nomi collettivi
Sono detti collettivi quei nomi che anche al singolare indicano un insieme, una raccolta di elementi: gruppo, classe, serie, quantità, infinità, decina, dozzina, ecc. Talvolta, quando sono seguiti da un partitivo e fanno da soggetto della frase, questi nomi anche al singolare possono avere il verbo al plurale: es. un gruppo di sciatori hanno lasciato l’albergo.
3. Nomi di cose numerabili / non numerabili (nomi di materia)
Una distinzione importante è quella tra nomi di cose numerabili e nomi di cose non numerabili.
I primi indicano tutte le «cose» che si possono numerare, ossia di cui possiamo indicare uno o più esemplari: un libro, due libri, tre libri ecc. Questi nomi, come si vede, si usano anche al plurale, con lo stesso significato.
Nomi come latte, vino, grano, caffè, ..., oppure piombo, oro, argento, ferro, ossigeno, uranio, iodio, ..., indicano invece materie che in quanto tali non si possono numerare, ma solo misurare in quantità. Per indicare determinate quantità di tali materie, bisogna aggiungere un altro nome che fa da quantificatore, che indica un’unità di misura (definita, come litro, chilo, quintale, grammo,...; o approssimativa, come sorsata, pizzico, boccone, cantuccio,...) o un contenitore materiale (bottiglia, bicchiere, tazza, sacco, scatola, vagone,...) che può essere anche sottinteso: i due caffè sono ‘le due tazzine di caffè’: ad es. un litro di latte, tre bottiglie di vino, sei quintali di grano, due sorsate di caffè, due pezzi di piombo, dieci grammi di oro,...
I nomi di materia non numerabile, quando indicano la materia in sé, non hanno plurale. Usati al plurale, o cambiano significato, perché indicano oggetti particolari costituiti da quella materia (gli ori sono ‘i gioielli d’oro’, gli argenti sono ‘le suppellettili d’argento’) o tipi particolari della materia stessa (i vini sono ‘i diversi tipi di vino’).
4. Nomi astratti / nomi concreti
Non ha importanza nella morfologia, ma solo nella semantica, la distinzione tra nomi concreti, che indicherebbero realtà materiali, e nomi astratti, che indicherebbero «concetti» e non realtà materiali.
I nomi vengono anche classificati in base al referente animato (nomi comuni di persona, propri, di divinità, di animali) o inanimato (tutti gli altri nomi). Questa distinzione è importante dal punto di vista semantico per la combinazione con i verbi e con gli aggettivi (il ragazzo corre, ma non il tavolo corre; il ragazzo diligente ma non la sedia diligente).
Secondo la desinenza che indica il numero e il genere, i nomi si possono dividere in due classi, come risulta da questo schema:
| singolare | plurale |
I classe -a | femm. cas-a masch. e femm. artist-a | femm. -e cas-e masch. -i artist-i femm. -e artist-e |
II classe -o | femm. man-o masch. ombrell-o | man-i masch. ombrell-i e -i femm. occasion-i
sapor-i |
III classe -e | femm. occasion-e masch. sapor-e |
1. Nomi invariabili al plurale
Sono invariabili al plurale:
- molti nomi maschili in -a (esclusi ovviamente quelli di seconda classe: problema, telegramma, poeta, papa, collega e qualche altro): il vaglia / i vaglia; il gorilla / i gorilla; ecc.;
- i nomi che terminano in vocale accentata e in -i: la città / le città; la virtù / le virtù; ecc.; la crisi / le crisi;
- i nomi stranieri ormai entrati nell’uso comune: il bar / i bar; il film / i film; lo sport / gli sport; il tram / i tram; lo sponsor / gli sponsor; ecc.;
- il nome euro.
- i nomi monosillabi: il re / i re; la gru / le gru;
- i nomi abbreviati: la radio / le radio; la moto / le moto; l’auto / le auto;
- alcuni nomi in -ie: la specie / le specie; la serie / le serie.
2. Nomi difettivi
Sono quei nomi che «difettano», cioè mancano del singolare o del plurale:
- mancano del singolare i nomi che indicano oggetti composti di più pezzi: le tenaglie, le forbici, gli occhiali, ecc. (ma in senso figurato si usano anche al singolare: si dice manovra a tenaglia; andamento a forbice; ecc.) e alcuni derivati da un plurale latino come le nozze, le tenebre;
- mancano del plurale i nomi di alcune festività religiose: la Pasqua, la Pentecoste; i nomi di materia non numerabile (vedi qui).
3. Nomi che hanno al plurale doppie forme o cambiano genere
Vari nomi maschili in -o hanno due forme di plurale: una regolare in -i (maschile) e una in -a (femminile). Le due forme possono avere significato diverso. Nella tabella si indicano i casi più frequenti:
SINGOLARE | PLURALE in -i | PLURALE in -a |
braccio
ciglio
cuoio
filo
gesto
grido
labbro
membro
muro
osso
urlo | i bracci (della croce o di mare)
i cigli (‘margini’)
i cuoi (gli oggetti in cuoio)
i fili (in senso proprio)
i gesti (movimenti, cenni)
i gridi (degli animali)
i labbri (di una ferita)
i membri (‘componenti’)
i muri (della casa)
gli ossi (di animali, considerati come cibo)
gli urli (di animali) | le braccia (dell’uomo)
le ciglia (dell’occhio)
le cuoia (la pelle umana)
le fila (in senso metaforico)
le gesta (imprese)
le grida (dell’uomo)
le labbra (della bocca)
le membra (del corpo)
le mura (di cinta di una città)
le ossa (del corpo umano o di animali, in senso collettivo)
le urla (di persone) |
Alcuni nomi maschili hanno conservato solo il plurale in -a: il dito / le dita; il centinaio / le centinaia; il migliaio / le migliaia; il paio / le paia; l’uovo / le uova; ecc. Nella forma del diminutivo questi nomi hanno il plurale in -i (i ditini, gli ovetti, i gridolini) e solo qualcuno anche il plurale femminile (le bracane).
4. Particolarità
Ala e arma fanno al plurale ali e armi, moglie fa mogli; uomo, dio, bue, oltre alla desinenza modificano anche la radice: uomini, dei, buoi.
5. Nomi composti e conglomerati
Sono quei nomi che risultano dall’unione di due o più parole diverse. Essi formano il plurale secondo regole diverse, e cioè:
- se sono formati da un nome seguito da un aggettivo, quasi sempre ambedue i componenti diventano plurali: la cassaforte / le casseforti; la roccaforte / le roccheforti; il caposaldo / i capisaldi; la terracotta / le terrecotte. Se l’aggettivo precede, si possono avere soluzioni diverse: l’altoforno / gli altiforni; il bassofondo / i bassifondi; l’altopiano / gli altipiani o anche gli altopiani; il bassorilievo / i bassorilievi; il francobollo / i francobolli;
- se sono formati da due nomi che si considerano ormai fusi in uno solo, di solito diventa plurale solo il secondo o lo diventano tutt’e due: il pescecane / i pescicani o i pescecani; il pomodoro / i pomodori o i pomidori;
- nei nomi composti formati da due nomi che si considerano però ancora separati, diventa plurale solo il primo: il divano letto / i divani letto; il cane lupo / i cani lupo; il buono benzina / i buoni benzina;
- i nomi composti che nella prima parte hanno una forma verbale, restano invariati se il nome interno è femminile: il posacenere / i posacenere; lo spazzaneve / gli spazzaneve; diventano plurali se il nome interno è maschile: il portafoglio / i portafogli; lo spazzacamino j gli spazzacamini;
- i conglomerati restano invariati: un non-ti-scordar-di-me / i non-ti-scordar-di-me; un tirami-su / i tirami-su.
6. Nomi in -ca e -ga, nomi in -co e -go
I nomi che terminano in -ca e -ga hanno il plurale in -che e ghe (se femm.): l’amica / le amiche; o in -chi e -ghi (se masch.): il patriarca / i patriarchi; dei nomi in -co e -go, alcuni hanno il plurale in -chi e -ghi ) (bruco / bruchi; lago / laghi), alcuni lo hanno in -ci e -gi (medico / medici; psicologo / psicologi). Non essendo stata individuata alcuna regola in proposito, è solo possibile, nel dubbio, ricorrere a un buon dizionario che indica l’uso prevalente per ciascuna parola.
7. Nomi in -cia e -gia
Nomi in -cia e -gia: conservano sempre la i quando questa è tònica, cioè se vi si appoggia l’accento (farmacia / farmacie; magia / magie); quando sulla i non cade l’accento (i àtona) la pronuncia normale a voce non fa sentire la i, ma nella grafia le cose stanno diversamente. Una regola pratica da seguire è questa: la i non si scrive quando la sillaba finale è preceduta da consonante (la caccia / le cacce; la provincia / le province); si conserva negli altri casi fiducia / fiducie; camicia / camicie; valigia / valigie).
Nella lingua italiana, i nomi si dividono in due generi, maschile e femminile.
Per le persone e per gli animali il genere viene quasi sempre determinato dal sesso maschile o femminile; per le cose l’attribuzione del genere è arbitraria. Basti pensare che in italiano il mare è maschile, in francese la mer è femminile; in italiano il sole è maschile e la luna è femminile, mentre in tedesco il sole è femminile (die Sonne) e la luna è maschile (der Mond).
I nomi con desinenza in -a sono per lo più di genere femminile (la donna), ma vi sono anche parecchi nomi maschili che terminano in -a (il problema, il telegramma, il poeta, ecc.). In molti casi, infine, i nomi in -a possono essere tanto di genere maschile, quanto di genere femminile, e perciò li possiamo distinguere solo per mezzo dell’articolo (il pianista, la pianista).
I nomi in -o sono, tranne qualche eccezione (la mano, o nomi abbreviati come la moto, l’auto), di genere maschile.
Per tutte le altre terminazioni non esiste alcuna regola (il ponte, la torre, ecc.).
Una distinzione di genere molto evidente c’è tra il nome degli alberi, che è quasi sempre maschile (ciliegio, pero, arancio, ecc.), e quello dei relativi frutti, che è quasi sempre femminile (ciliegia, pera, arancia, ecc.); ci sono, tuttavia, delle eccezioni (quercia, la pianta; limone, la pianta e il frutto). Sono sempre maschili i nomi di mari e laghi, proprio perché si sottintende «mare» e «lago» (es. il Tirreno, l’Adriatico). Per altre categorie, invece, ogni ripartizione è sostanzialmente inutile, perché ci sono moltissime eccezioni per ogni regola. Bisogna affidarsi alla conoscenza dei singoli nomi (il Piemonte, il Lazio, la Lombardia, la Puglia; il Cervino, la Maiella; il Po, la Dora; il sabato, la Domenica; ecc.).
1. Nomi mobili
Molti nomi che indicano persone o animali esprimono la differenza di genere con la diversa desinenza e perciò sono chiamati mobili.
Spesso il femminile si ottiene sostituendo la desinenza -a (figlio / figlia; padrone / padrona). Altre volte si forma con il suffisso -essa (poeta / poetessa; studente / studentessa) . Quando il maschile termina in -tore il femminile può uscire in -trice (pittore / pittrice) o in -tora (pastore / pastora; impostore / impostora); alcune volte ha ambedue le forme (traditore / traditrice e traditora, ecc.). In alcuni casi la formazione del femminile avviene con modificazioni più profonde: re / regina; dio / dea; o addirittura aggiungendo il termine maschio e femmina (il castoro femmina, la balena maschio, ecc.).
2. Nomi indipendenti
Sono chiamati così i nomi in cui il maschile e il femminile hanno una radice completamente differente: donna / uomo; fratello / sorella, ecc.
3. Nomi ambigeneri
Sono chiamati «ambigeneri» quei nomi che hanno un’unica forma per ambedue i generi. Possiamo distinguere se sono usati al maschile o al femminile soltanto attraverso l’articolo o l’aggettivo che li accompagnano. Appartengono a questa categoria:
- alcuni nomi in -e: il custode / la custode, che anche al plurale hanno un’unica forma: i custodi / le custodi;
- tutti i nomi che terminano in -ista e in -ida (il pianista / la pianista; il suicida / la suicida) e vari altri nomi in -a (il collega / la collega); al plurale, però, questi nomi hanno regolarmente due forme distinte (i pianisti / le pianiste; i suicidi / le suicide; i colleghi / le colleghe).
4. Linee di tendenza
I nomi di cariche e professioni che originariamente sono stati usati solo al maschile, perché quelle funzioni erano svolte tipicamente da uomini, hanno sviluppato progressivamente la forma femminile con procedimenti vari. Sui tipi leone / leonessa e conte / contessa sono state coniate le forme dottoressa, professoressa. Negli ultimi decenni la necessità di far emergere il genere personale anche attraverso il titolo della professione o della carica ha generato la tendenza a creare la forma femminile di una serie di nomi: i nomi della classe in -e e in -a possono restare invariati anziché assumere la desinenza -essa, considerata ironica: il / la vigile, il / la giudice, il / la preside, il / la presidente, il / la dentista, il / la commercialista. I nomi della classe in -o, progressivamente, si vanno usando al femminile con il semplice cambiamento della vocale finale: il deputato / la deputata, l’avvocato / l’avvocata, il ministro / la ministra, il sindaco / la sindaca, il chirurgo / la chirurga, l’architetto / l’architetta, il notaio / la notaia. I nomi con suffisso in -ore si dividono nel gruppo con terminazione in -tore che evolvono in -trice: il direttore / la direttrice; mentre gli altri tendono alla forma femminile in –ora: il revisore / la revisora. Anche i nomi in -ere sviluppano la tendenza al femminile in -a: sulla scia di cameriere / cameriera, si ha ragioniere / ragioniera, carabiniere / carabiniera, ingegnere / ingegnera.
Le forme al femminile risultano particolarmente appropriate quando è evidente nel discorso il riferimento alla persona fisica, per omogeneità con gli altri elementi del contesto frasale: risulterebbe oscuro un enunciato del tipo il notaio sarà assente per licenza di maternità.
In italiano esistono anche i nomi derivati. Questi ultimi si chiamano così, in quanto “derivano” o da altri nomi, detti primitivi, (derivati denominali: es. vinaio, da vino) o da verbi (derivati deverbali: es. contrazione, da contrarre), o da aggettivi (derivati deaggettivali: bellezza, da bello), o da avverbi (derivati deavverbiali: es. pressappochismo, da pressappoco).
La derivazione può avvenire o per suffissazione, cioè con l’aggiunta di suffissi (come in tutti gli esempi visti ora), oppure per prefissazione, cioè con l’aggiunta di prefissi (es. prelavaggio deriva dall’unione del prefisso pre- “prima” con il nome lavaggio).
Con l’aggiunta di particolari suffissi dal valore espressivo particolare si ottengono anche i nomi alterati. Le forme possibili di alterazione sono tre:
- accrescitiva: scatol-one, ragazz-ona, ecc.;
- diminutiva e vezzeggiativa: scatol-ino, bimb-etto, secchi-ello, bocc-uccia, ecc.;
- peggiorativa: fatt-accio, amor-azzo, medie-astro, ecc.
Un’altra alterazione possibile, usata in un linguaggio più libero e nella pubblicità, è quella di dare ai nomi il suffisso -issimo proprio del superlativo assoluto degli aggettivi: si avrà così pomodorissimo, un ‘pomodoro di qualità eccezionale’; vacanzissima, canzonissima, partitissima ‘vacanza, canzone, partita di livello eccezionale’.
L’aggettivo (o «nome aggettivo») si definisce in rapporto al nome, come vocabolo che esprime un qualcosa non in quanto autonomo, ma riferito a un referente: un commerciante ricco; la polizia stradale; la mia amica. La funzione dell’aggettivo è dunque quella di aggiungere un concetto che in qualche modo qualifica, specifica o determina la cosa indicata dal nome.
L’aggettivo presenta le seguenti peculiarità morfologiche e sintattiche:
- si unisce direttamente (senza preposizione) al nome e si concorda con esso in numero e in genere;
- può anche essere unito al verbo per formare i complementi predicativi dell’oggetto e del soggetto: anche in questo caso si accorda con il nome a cui si riferisce;
- rimane invece invariato quando, unito a un verbo, ha funzione di avverbio: parlate piano;
- può svolgere funzione di nome, se accompagnato dall’articolo o da un numerale: il rapido, tre rapidi;... (aggettivo sostantivato).
Come il nome, l’aggettivo esprime le categorie grammaticali di genere e numero.
1. Le due classi di aggettivi
Per la formazione del genere e del numero gli aggettivi seguono le stesse norme dei nomi, ma si dividono in due classi: quelli a quattro terminazioni (-o per il masch. sing.; -a per il femm. sing.; -i per il masch. plur.; -e per il femm. plur.) e quelli a due terminazioni (-e per il masch. e femm. sing.; -i per il masch. e femm. plur.). Si veda la seguente tabella:
| SINGOLARE | PLURALE | |
I CLASSE | MASCHILE | -o brav-o | -i brav-i |
FEMMINILE | -a brav-a | -e brav-e | |
II CLASSE | MASCHILE e FEMMINILE | -e dolc-e | -i dolc-i |
2. Particolarità
- gli aggettivi in -ista hanno un’unica forma per il singolare e due forme regolari al plurale (-isti, -iste): sing. m. e f. realista, pl. m. realisti, f. realiste;
- gli aggettivi in -co: se sono piani, al plurale escono in -chi (antico, antichi), ad eccezione di amico, nemico e greco (amici, nemici, greci); se sono sdruccioli, escono in -ci (pràtico, pràtici), ad eccezione di carico e dimentico (càrichi, dimèntichi). Non essendo stata individuata alcuna regola precisa in proposito, si consiglia la consultazione di un buon dizionario che indica l’uso prevalente per ciascuna parola;
- gli aggettivi in -go escono al plurale in -ghi (lungo, lunghi);
- gli aggettivi in -ca e -ga escono al plurale in -che e -ghe (antica, antiche; larga, larghe);
- gli aggettivi in -cia e -gia seguono la stessa regola dei nomi: perdono la -i se è preceduta da doppia consonante (selvaggia, selvagge), la mantengono se è preceduta da consonante semplice (grigia, grigie);
- Esistono anche aggettivi invariabili nel genere e nel numero. Ricordiamo: alcuni aggettivi indicanti colore (amaranto, blu, indaco, lilla, rosa, viola: es. i maglioni rosa, le borse viola) e i composti aggettivo + nome e i composti aggettivo + aggettivo non univerbati (verde bottiglia, grigio scuro, rosso scarlatto: le tende rosa antico); pari (e i derivati dispari, impari: es. lotte impari), dappoco, perbene.
Gli aggettivi composti da due aggettivi univerbati, variano solo nel secondo elemento (giallorosso → i giocatori giallorossi, le bandiere giallorosse);
- gli aggettivi bello, buono, grande e santo hanno le forme tronche bel (bei), buon, gran, san davanti a nomi maschili non inizianti per s- seguita da consonante (bel fiore ma bello spettacolo; bei fiori ma begli spettacoli).
Gli aggettivi si possono raggruppare in due grandi categorie: i qualificativi e i determinativi.
Gli aggettivi qualificativi indicano qualità di vario tipo, che possono riguardare forma e dimensioni (rotondo, quadrato, alto, basso, lungo, largo, sottile, spesso), sapore (dolce, amaro, aspro, acido,...), effetto estetico (bello, brutto, piacevole, carino,...), colore (bianco, blu, rosso,...), età (giovane, adulto, anziano, vecchio,...), condizioni fisiche (secco, vivo, grasso, acerbo,...), tempo (moderno, antico, arcaico,..), ecc.
Svolgono la funzione di aggettivi qualificativi anche i participi passati (appassito, andato, sentito, aperto, coperto,..) e presenti (tremante, accogliente, esaltante, divertente, sorgente,..). Questi ultimi si trasformano spesso in sostantivi (il cantante, la sorgente, lo studente) o possono conservare pieno valore di verbo (l’avente parte = colui che ha parte in una cosa).
Solo gli aggettivi qualificativi sono modificabili per ottenere i «gradi di comparazione» e vari tipi di «alterati». (Anche alcuni tra i determinativi possono avere alcune modificazioni).
1. I gradi dell’aggettivo: comparativo e superlativo
I gradi di comparazione sono le forme che gli aggettivi qualificativi possono assumere per esprimere il grado maggiore o minore della qualità da essi predicata.
Gli aggettivi possono dunque indicare un grado di base, detto positivo (bravo), un grado maggiore o minore, detto comparativo (più bravo; meno bravo), e un grado massimo, detto superlativo (il più bravo o bravissimo).
Il comparativo
II grado comparativo può essere di tre tipi:
- comparativo di maggioranza, che indica un rapporto di superiorità fra due termini (Luigi è più bravo di Andrea);
- comparativo di minoranza, che indica un rapporto di inferiorità (Andrea è meno bravo di Luigi);
- comparativo di uguaglianza, che mette due termini sullo stesso piano (Franco è tanto bravo quanto Carlo).
Il superlativo
Il superlativo è di due tipi:
- superlativo relativo: introduce un termine di paragone e cioè afferma che una persona o cosa è la più brava, la più bella, ecc. relativamente ad altre a cui la paragoniamo (Stefano è il più bravo della classe; Bertoldo è il meno bravo tra tutti);
- superlativo assoluto indica una qualità a un grado molto elevato, ma senza stabilire precisi paragoni, cioè in senso generale e in assoluto (Laura è bravissima).
Anche gli aggettivi di quantità, che abbiamo associato a quelli di qualità, possono avere il superlativo assoluto (molto-moltissimo; poco-pochissimo; ecc.).
Il superlativo assoluto si può esprimere, oltre che con l’aggiunta del morfema-desinenza -issimo, in vari altri modi: premettendo all’aggettivo di grado positivo avverbi come molto, assai, estremamente, ecc. (molto bravo, assai bravo, estremamente bravo); attraverso prefissi (arci-bravo, ultra-bravo, super-bravo, ecc.); talvolta ripetendo l’aggettivo al grado positivo (bravo bravo).
Particolarità
Alcuni aggettivi formano il superlativo rifacendosi alle forme latine corrispondenti (es.: acre, acerrimo; celebre, celeberrimo; benefico, beneficentissimo; benevolo, benevolentissimo; ecc.).
Esistono poi alcuni aggettivi, privi del grado positivo, che hanno solo la forma del comparativo e del superlativo, derivanti dal latino:
superiore / supremo o sommo; inferiore / infimo; esteriore / estremo; interiore / intimo; ulteriore / ultimo; posteriore / postremo.
Anteriore è solo comparativo.
Infine, alcuni aggettivi hanno, accanto alle forme normali del comparativo e del superlativo, altre forme dette organiche e anch’esse di derivazione latina:
buono / migliore / ottimo; cattivo / peggiore / pessimo; grande / maggiore / massimo; piccolo / minore / minimo.
2. Gli alterati
Gli aggettivi qualificativi, come i nomi, possono essere «alterati» mediante suffissi e diventare così diminutivi e vezzeggiativi, quelli in -ino, -etto, -ello, -uccio (poverino, poveretto, poverello, pochino, caruccio); accrescitivi, in -one (cattivone); peggiorativi, in -accio (poveraccio); attenuativi, in -iccio, -astro, -igno (rossiccio, rossastro, ferrigno).
Gli aggettivi determinativi (detti anche «indicativi») sono chiamati così perché servono a determinare aspetti più precisi di una persona o cosa e cioè la sua relazione con qualcosa, la proprietà, il possesso, la posizione nel tempo e nello spazio, l’identificazione, il numero, ecc. La caratteristica di tutti gli aggettivi di questo gruppo è di non poter essere fatti comparativi o superlativi (non si può dire, se non per esagerare, più mio, o miissimo), né alterati. Alcuni sono variabili di genere e numero e seguono il modello di bravo. Si dividono in:
1. relazionali: molti aggettivi sono stati ricavati da nomi mediante suffissi: -ale
(natura → naturale; posta → postale), -are (luna → lunare), -ario (ferrovia → ferrovia-rio), -ano (Italia → italiano; Africa → africano);
2. possessivi: mio, tuo, suo, nostro, vostro, proprio, con le rispettive forme femminili e plurali (come bravo), e loro e altrui, invariabili (ad es.: la mia bicicletta, i tuoi cani, la nostra scuola, la loro casa);
3. dimostrativi: mostrano la posizione della cosa indicata rispetto a chi parla o a chi ascolta: questo, -a, -i, -e (ad es.: questo libro, vicino a chi parla); quello, -a, -i, -e (lontano da chi parla e da chi ascolta). Per indicare una cosa vicina soltanto a chi ascolta c’è la forma codesto, usata quasi unicamente per iscritto (è molto utile nelle lettere e nelle domande inviate a uffici, ecc., per specificare se ci si riferisce a una cosa vicina a chi riceve e non a chi scrive). Ma nell’uso parlato codesto è comune soltanto in Toscana; nell’uso più generico si ricorre a questo o a quello o si aggiungono altre indicazioni;
4. identificativi: identificano esattamente la persona o cosa: stesso, medesimo (ad es. la stessa casa, il medesimo vestito);
5. indefiniti: danno una indicazione indefinita di qualità e di quantità: alcuno, taluno, nessuno, ciascuno, altro, certuno, certo, tale, molto, poco, tanto, ecc. sono variabili (ad es. alcuni nemici, nessuna difficoltà, ecc.); qualunque, qualsiasi, qualsivoglia, qualche, ogni sono invariabili e si accompagnano solo al nome singolare (ad es. qualche ragazzo, qualche ragazza, ogni anno);
6. interrogativi ed esclamativi: indicano una qualità e una quantità in forma di domanda o di esclamazione: che, quale, quanto (ad es.: Che classe?; Quale sorpresa!; Quante persone?);
7. numerali: tutti i numeri sono aggettivi e si distinguono in cardinali (uno, due, tre, quattro, ecc., invariabili, tranne uno), ordinali (primo, secondo, terzo, ecc., variabili per numero e per genere; ad es.: capitolo ottavo, decima lezione) e moltiplicativi, anch’essi variabili: doppio, triplo, quadruplo, ecc. (ad es. doppia razione).
Alcuni aggettivi determinativi possono essere usati anche da soli, ossia come pronomi. Ad es. Volevo comprare una camicia, ma quelle che mi hanno fatto vedere non mi piacevano.
Hanno funzione di aggettivi determinativi anche alcuni composti avverbiali come dappoco, dabbene, perbene (un uomo dappoco, un uomo perbene) odi altro genere, come antifurto, antinebbia.
1. L’accordo nome-aggettivo
L’aggettivo concorda in genere e numero con il nome a cui si riferisce: un caro ragazzo / una cara ragazza / dei cari ragazzi / delle care ragazze. Se l’aggettivo si riferisce a più nomi dello stesso genere, concorda con essi in relazione al genere, ma si presenta al numero plurale: una disponibilità e una cortesia straordinarie. Se i nomi sono di genere diverso, l’aggettivo sarà sempre al numero plurale e assumerà il genere maschile: un uomo e una donna gentilissimi. Per ragioni di vicinanza sintattica è possibile avere anche il femminile, purché il nome femminile sia al plurale e indichi un referente inanimato: i minerali e le pietre preziose. L’aggettivo resta al singolare solo in certi nomi di insegnamenti universitari: lingua e letteratura francese.
2. La posizione dell’aggettivo
L’aggettivo qualificativo si colloca vicino al nome a cui si riferisce, prima o dopo di esso: una bella ragazza, la matita verde. La posizione non marcata è tuttavia quella dopo il nome, in quanto l’aggettivo qualificativo anteposto conferisce una sfumatura di soggettività: gli alti alberi (soggettivo), gli alberi alti (oggettivo). Inoltre, se precedono o seguono il nome, gli aggettivi possono avere funzione descrittiva (i vecchi gradini hanno ceduto) o restrittiva (i gradini vecchi hanno ceduto, cioè “solo quelli vecchi”).
L’aggettivo possessivo può collocarsi prima o dopo il nome: la mia amica / l’amica mia. La posposizione al nome è tuttavia marcata: è colpa tua! L’aggettivo possessivo è poi posposto in formule cristallizzate: ragazzo mio, cari miei (ma anche: miei cari), i fatti tuoi, gli affari vostri ecc.
Gli aggettivi numerali cardinali precedono il nome a cui si riferiscono: due penne. Nell’uso burocratico e matematico-commerciale possono seguirlo: i danni ammontano a Euro 5000, il treno delle ore 18. I numerali ordinali sono spesso anteposti al nome (il mio primo amore), ma posposti nei nomi di papi o di re (Benedetto XVI, Umberto I), oppure nei riferimenti a capitoli, canti, atti, scene ecc. dei testi letterari: il canto sesto del Paradiso.
3. Funzione attributiva e predicativa
Gli aggettivi, all’interno della frase, possono svolgere due funzioni: attributiva o predicativa:
- l’aggettivo ha funzione attributiva quando attribuisce al nome una caratteristica generica, non necessaria alla determinazione del referente, la quale, il più delle volte, rappresenta un giudizio personale del parlante. In genere l’aggettivo attributivo precede il nome a cui si riferisce.
Hanno funzione attributiva solo gli aggettivi qualificativi anteposti al nome a cui si riferiscono: Le frequenti piogge hanno allagato la città.
Questi aggettivi costituiscono dei circostanti accessori;
- l’aggettivo ha invece funzione predicativa quando esprime una peculiarità specifica, precisa, che serve a distinguere il referente da altri elementi simili. In questo caso l’aggettivo è necessario per determinare il nome a cui si riferisce e non può, assolutamente, essere omesso, pena la mancanza del senso completo della frase.
Hanno funzione predicativa tutti gli aggettivi determinativi (la mia amica; questo libro) e relazionali (la guardia costiera), nonché gli aggettivi qualificativi posposti al nome a cui si riferiscono (le persone educate ringraziano sempre).
Questi aggettivi costituiscono nella frase dei circostanti necessari.
L’articolo è quella parte del discorso che, accompagnandosi al nome[1], ha la funzione di specificare se la cosa indicata dal nome è «già individuata e conosciuta» (articolo determinativo), oppure «non ancora individuata e conosciuta» (articolo indeterminativo e partitivo).
Dal punto di vista morfologico l’articolo presenta tutte le caratteristiche dell’aggettivo:
1) dovendosi accordare al nome a cui si lega in genere e numero, si flette (es. i miei amici, la mia brava sorella);
2) storicamente, gli articoli derivano, da aggettivi determinativi latini: l’articolo determinativo dal dimostrativo latino ille, illa, illud; l’articolo indeterminativo dal numerale latino unus, una, unum.
Dal punto di vista sintattico l’articolo si differenzia dai normali aggettivi:
1) l’articolo deve sempre essere anteposto al nome o al sintagma nominale, mentre l’aggettivo può trovarsi anteposto o posposto (i capelli, i biondi capelli, i capelli biondi);
2) guardando al nostro modello valenziale, se si escludono gli aggettivi possessivi e dimostrativi, gli aggettivi costituiscono dei circostanti, mentre l’articolo, a causa del suo strettissimo legame col nome, è parte di un eventuale “argomento”.
In italiano si distinguono tre tipi di articolo: determinativo, indeterminativo, partitivo.
[1] L’articolo può accompagnarsi anche a un verbo all’infinito (infinito sostantivato): Il rivederti è sempre una gioia per me.
1. Forme
Le forme dell’articolo determinativo sono:
| Singolare | Plurale |
maschile | il, lo, (l’) | i, gli |
femminile | la (l’) | le |
Le diverse forme del maschile si usano in rapporto al suono iniziale della parola seguente:
- il, i davanti a consonante semplice e a gruppi di consonante esclusi i casi indicati successivamente (in cui si usa lo) : il cane / i cani; il vetro / i vetri; il crostino / i crostini; il flauto / i flauti, ecc.;
- lo, gli davanti a z, s seguita da consonante e ai suoni sc (palatale), gn, x e in genere anche davanti a ps e pn: lo zaino / gli zaini; lo zucchero, lo specchio, lo stretto, lo scemo, lo gnocco (lo psicologo, lo pneumatico10). Al singolare, davanti a vocale, lo si elide in l’; al plurale gli si può elidere soltanto davanti a i (gl’ingegneri, ma si preferisce la forma intera): l’asino / gli asini; l’uomo / gli uomini. Il plurale di il dio è gli dei (da una antica forma gli iddei).
La forma del singolare femminile la si elide davanti a qualsiasi vocale: l’acqua, l’erba, l’idea, l’ostrica, l’uva. La forma plurale non si elide quasi mai: le acque, le erbe, le idee, le ostriche, le uve.
L’articolo determinativo si fonde con le preposizioni a, di, da, in, su, formando le preposizioni articolate:
a + il, lo, la, i, gli, le = al, allo, alla, ai, agli, alle
di + il, lo, la, i, gli, le = del, dello, della, dei, degli, delle
in (che diventa n) + il, lo, la, i, gli, le = nel, nello, nella, nei, negli, nelle
e così per le serie di dal, sul.
Si usano piuttosto spesso, parlando e anche scrivendo, col e coi invece di con il e con i. Le forme collo, colla, cogli, colle sono rare e soltanto tipiche del parlato.
2. Funzioni
L’articolo determinativo ha sostanzialmente la funzione di indicare cose (persone, animali, oggetti, eventi, idee, ecc.) determinate, ossia già conosciute da chi parla o scrive e da chi ascolta o legge. Tale conoscenza può derivare dal fatto che si tratta di:
- cose singole o tipiche necessariamente note a tutti (il sole, la luna, la primavera, la pioggia, la neve, il sonno, la vita, la morte, ecc.);
- un intero insieme di cose, che appunto nel loro insieme, come «classi», sono già conosciute da tutti: dicendo l’uomo, la donna, il cavallo, il treno, noi possiamo riferirci a tutti gli individui che compongono l’insieme (o «classe») di uomini, di donne, di cavalli, di treni, ecc.;
- cose singole nominate precedentemente, nello stesso testo o in un altro testo, alle quali perciò possiamo fare riferimento come «già note»;
- cose che vengono specificate nella stessa frase, con un complemento di specificazione (l’orologio di Andrea) o con una dipendente relativa (l’orologio che mi hanno regalato) o in altro modo.
1. Forme
L’articolo indeterminativo ha soltanto il singolare e le sue forme sono:
| singolare |
maschile | uno, un |
femminile | una (un’) |
La forma maschile un si usa davanti a:
- consonante semplice e gruppi di consonanti, esclusi i casi indicati successivamente (in cui si usa uno): un cane, un crostino, un flauto...
- vocale o semiconsonante (di nomi evidentemente maschili): un anno, un uomo (senza apostrofo).
La forma maschile uno si usa davanti a z, s seguita da consonante, sc (palatale), gn, x e in genere anche davanti a ps e pn: uno zio, uno specchio, uno scemo, uno gnomo (uno psicologo, uno pneumatico).
La forma femminile una si usa davanti a qualsiasi consonante; la forma un’ si usa davanti a qualsiasi vocale (di nomi evidentemente femminili): un’anima, un’epoca, un’isola, un’oca, un’unghia.
2. Funzioni
L’articolo indeterminativo segnala che nominiamo una cosa ancora sconosciuta a chi ascolta o legge: qualcosa, appunto, di indeterminato e che solo dopo la prima segnalazione diventerà noto e dunque determinato (ad es. C’era una volta un re). L’articolo indeterminativo può servire a indicare anche qualcosa che non occorre precisare: prendi una sedia. La funzione dell’articolo indeterminativo si comprende meglio se viene studiata insieme con quella dell’articolo determinativo: vedi qui sotto.
L’articolo indeterminativo un, uno, una può, ovviamente, accompagnare solo nomi singolari. L’«indeterminatezza» per i nomi al plurale si esprime con l’articolo partitivo al plurale o con gli aggettivi indefiniti alcuni, taluni, certi.
Per chiarire la distinzione di funzione tra articolo determinativo e articolo indeterminativo basta vedere il testo seguente:
Un vaso di fiori è caduto sulla testa di un passante. Il vaso non si è rotto, mentre il passante è stato gravemente ferito e portato all’ospedale.
Nel primo enunciato, vaso di fiori e passante sono accompagnati dall’articolo indeterminativo perché sono elementi nominati per la prima volta e quindi non ancora «conosciuti». Nel secondo enunciato, gli stessi termini sono accompagnati dall’articolo determinativo, perché ormai sono «conosciuti». Invece, testa e ospedale sono subito accompagnati dall’articolo determinativo, perché di testa ogni individuo ne possiede una sola: quanto all’ospedale, o mi riferisco genericamente alla categoria «ospedale», ben conosciuta da tutti, oppure mi riferisco all’unico e ben noto ospedale della cittadina in cui si svolge il fatto.
L’articolo partitivo è rappresentato da del, dello, della, dei, degli, delle, che hanno il significato di “una parte di, un po’, alcuni”. Serve dunque a indicare una parte di un insieme, una quantità indeterminata. Es. Ho riscosso del denaro; Ho mangiato dei cioccolatini; Oggi sono rimasta a casa per scrivere delle lettere importanti.
L’articolo partitivo può anche essere preceduto da preposizioni; si avrà quindi: Ho comprato dei fiori per dei nostri amici. Quest’uso, proprio dell’italiano dell’uso medio, si evita invece nell’italiano formale (scritto).
Al plurale, l’articolo partitivo ha le stesse funzioni dell’articolo indeterminativo.
Se il nome non è accompagnato da articolo, è come se fosse preceduto da un indeterminativo o da un partitivo. Questo capita spesso, per ragioni di brevità, nei titoli dei giornali: Peschereccio con cinque uomini sequestrato da motovedetta ( = Un peschereccio... da una motovedetta).
L’articolo può mancare anche nelle frasi negative del tipo: non c’è più pane, non ci sono giornali.
Come risulta dal termine stesso, il pronome è un qualcosa che “sta al posto di un nome”: Lucia è partita → Lei è partita.
I pronomi rientrano nella categoria dei sostituenti, potendo sostituire un’intera frase (Luigi è arrivato e io non lo sapevo) o una parte di essa (un complemento predicativo del soggetto: Io non sono buono, tu lo sei; oppure un complemento predicativo dell’oggetto: Ritenevo Luca un amico, ma non lo è stato in quest’occasione).
I pronomi si dividono in varie categorie: personali, possessivi, dimostrativi, identificativi, indefiniti, relativi, interrogativi, esclamativi.
1. Forme
I pronomi personali indicano la persona che parla, a cui si parla o di cui si parla. La prima e la seconda persona non possono indicare che esseri umani che parlano e rispondono (a prescindere dagli usi immaginari); la terza persona può indicare qualsiasi essere o cosa, ma per molte forme ci sono differenze secondo che si riferiscano a persone, animali o cose.
Inoltre, i pronomi hanno forme diverse secondo che svolgano funzioni di soggetto, nel qual caso si hanno le forme rette, o un’altra qualsiasi funzione, nel qual caso le forme si chiamano oblique (o forme complemento).
Tra le forme oblique bisogna poi distinguere tra la forma tonica (cosiddetta «forte») e quella àtona (cosiddetta «debole»).
Le forme toniche, dotate di un proprio accento, si usano quando nella frase si deve dare risalto all’elemento indicato dal pronome, come oggetto diretto o se precedute da preposizione.
Le forme atone (cioè prive di accento fonico) si appoggiano sempre al verbo o all’unità verbale composita e, perciò, vengono dette più propriamente clitiche. Possono precedere il verbo e allora sono dette proclitiche (Ti chiamo; Mi puoi aiutare; Glielo voglio dire; La sta fissando); oppure possono seguirlo e allora sono dette enclitiche (Puoi aiutarmi; Glielo voglio dire; Sta fissandola). Le enclitiche si legano sempre al verbo semplice all’imperativo, all’infinito, al participio, al gerundio (Rispondimi!; Rivederla ancora una volta!; La lettera pervenutaci ieri; Dicendomi;), nonché all’avverbio ecco (eccoti, eccoli).
Le forme atone si usano solo per l’oggetto diretto e l’indiretto di termine.
Forme toniche
Il professore ha interrogato me
Carla ha telefonato a te
Venite a cena da noi
Ha parlato di te
Forme atone
Il professore mi ha interrogato
Carla ti ha telefonato
Presentiamo nello schema seguente i pronomi personali dell’italiano (forme toniche e atone).
Le forme atone mi, ti, ci, vi, si diventano me, te, glie- (legato a quel che segue), ce, ve, se quando sono seguite da un altro pronome iniziante con l- o da ne: me lo prendo, ce la farò, gliene parlo.
I pronomi atoni ci e vi hanno anche valore locativo: ci vado, vi sono ecc. Il pronome atono ci ha anche funzione di dimostrativo (“di ciò”, “a ciò”, “con ciò”, “su ciò”): Non ci pensare; Ci ho riflettuto; Che ci faccio?
Il pronome atono ne ha valore partitivo (Vorrei una fetta di torta → Ne vorrei una fetta); e dimostrativo (Riparleremo di ciò / di questo → Ne riparleremo).
Il pronome atono ne, nella lingua letteraria (poetica e del melodramma), valeva anche per ci “a noi”: se divisi fummo in terra, ne congiunga il Nume in ciel (Salvatore Cammarano, Lucia di Lammermoor). Si ricorderà poi l’espressione Dio ne scampi e liberi!, dove il ne, equivalente a ci, ha la funzione di oggetto diretto.
L’uso dei pronomi personali di 3a persona singolare e plurale pone vari problemi, che qui riassumiamo.
2. Egli / lui; ella / lei; essi, esse / loro come forme soggetto
Le forme lui, lei, loro si usano normalmente come soggetto quando il soggetto viene in qualsiasi modo messo in rilievo, e cioè:
- quando dobbiamo distinguere tra una persona e un’altra. Ad esempio: se sto parlando di due persone, Luigi e Maria, e devo dire che l’uno è d’accordo su una certa questione, mentre l’altra no, devo dire lui è d’accordo, lei no (non si può dire egli è d’accordo, ella no). In questo caso il soggetto ha una vera e propria funzione di «tema»: infatti, la frase che abbiamo citato significa Per quanto riguarda lui, è d’accordo; per quanto riguarda lei, non è d’accordo; nelle frasi interrogative il soggetto ha sempre funzione di tema: lui è d’accordo?; lei è partita?; loro ci sono?;
- in tutti i casi in cui dobbiamo insistere in modo specifico su una persona, per dire che «anche, proprio, perfino, soltanto, nemmeno, neanche quella persona» fa o pensa o è qualcosa: Anche lui è di quel parere; Anche loro erano presenti; Proprio lui me l’ha detto; Proprio lei mi ha chiamato; Lui stesso venne a dirmelo; Perfino lei rifiutò la proposta; Soltanto lui poteva dire una cosa simile; Neppure lui sapeva che fare; Nemmeno loro potranno farci niente; Loro stessi ne erano consapevoli;
- quando il soggetto è posposto al verbo e perciò stesso è in enfasi. Partirà lui (cioè quella persona e non un’altra); Arrivano loro; È lei che va dicendo queste cose. In questo caso rientrano pienamente altri casi particolari: dopo ecco (Ecco lui), con i gerundi e i participi (Essendoci lui, non si potè fare più nulla; Arrivato lui, si fece silenzio), dopo aggettivi (Contento lui, contenti tutti, che equivale a Se è contento lui,...), dopo come e quanto (Nessuno è bravo come lui, cioè come lo è lui) e nel predicato nominale (Se io fossi lui, non direi queste cose).
Anche me e te si usano, invece di io e tu, in alcuni di questi casi particolari: Se tu fossi me; Nessuno è bravo come te. (Costruzioni come Me non ci vado, te ci vai? sono invece colloquiali e regionali: toscano-romane e settentrionali).
Al di fuori di questi tre casi si usano egli, ella, essi, esse, ma solo se, per ragioni di chiarezza, è necessario ripetere il soggetto. Va tenuto presente che nella comunicazione parlata si fa più facilmente a meno del pronome puramente ripetitivo («anafòrico»): si preferisce ripetere il nome o si generalizza l’uso di lui, lei, loro. In particolare, ella si può dire quasi scomparso dall’uso, a favore di lei. (La maniera più comune di usare o non usare i pronomi soggetto è quella che si documenta già nei Promessi Sposi di Manzoni.
Ricordiamo, infine, che il pronome personale femminile di 3a persona lei (oggetto diretto: la; oggetto indiretto: le) è adoperato come allocutivo di cortesia nell’italiano standard: Professore, la vedo stanco. Lei dovrebbe riposarsi. Nell’italiano regionale meridionale è vitale il voi.
3. Gli, le e loro oggetti indiretti
Tra le forme deboli del singolare la funzione di oggetto indiretto è svolta normalmente da gli per il maschile (‘a lui’) e le per il femminile (‘a lei’): Gli ho detto di aspettare; Dovevo parlarle. Tuttavia, è abbastanza diffuso, nell’italiano parlato, l’uso di gli anche per il femminile, favorito dal fatto che quando si aggiunge un secondo pronome atono, la forma è unificata: Glielo dirò può significare tanto ‘lo dirò a lui’ quanto ‘lo dirò a lei’. Nell’italiano formale, anche parlato, va rispettata la distinzione tra gli e le.
Per il plurale la regola proposta tradizionalmente dalle grammatiche è quella di usare sempre la forma forte loro; è però antichissimo l’uso di gli (che risale al dativo latino illis ‘ad essi, ad esse’). Con l’uso di loro si assicura la distinzione col singolare; ma loro, come forma forte non si colloca bene dove occorre una forma debole: ad esempio, alla domanda Hai scritto ai tuoi cugini? rispondere No, telefonerò loro oppure Avevo pensato di telefonare loro, non di scrivere loro è sforzato e poco chiaro, mentre funzionano meglio le risposte No, gli telefonerò oppure Avevo pensato di telefonargli, non di scrivergli, risultando dal contesto che gli è riferito a un plurale. In conclusione: nel parlato spontaneo e nello scritto di tipo narrativo l’uso di gli anche per il plurale è più scorrevole e chiaro; nel parlato e nello scritto formale si richiede loro o, quando questa forma risulta pesante, si preferisce ripetere i nomi.
I pronomi possessivi indicano il possesso.
Sono gli stessi aggettivi possessivi (mio, tuo, ecc.), usati però con il solo articolo e con riferimento a un nome che non viene più ripetuto. Es.: Ho preso il mio cappotto e non il tuo (in questa frase mio accompagnato da cappotto è aggettivo; il tuo è pronome).
I pronomi dimostrativi indicano una persona o cosa precisandone la posizione (nello spazio o nel tempo) in rapporto a chi parla e a chi ascolta. Le forme del pronome dimostrativo sono le stesse dell’aggettivo dimostrativo, ma esistono anche forme soltanto pronominali:
forme uguali all’aggettivo:
questo..., (codesto...), quello...
costui, costei, costoro, colui, colei, coloro (riferiti solo a persona, poco usati)
forme solo pronominali:
ciò, riferito a un fatto nel suo insieme (Es.: Giorgio è un bugiardo: ciò lo danneggia).
È della lingua ricercata l’uso di questi e quegli riferito alla 3a pers. sing. quando fa da soggetto. Es. : Ieri è tornato da Londra il ministro Bianchi. Questi ha riferito ai giornalisti che...
Hanno valore di pronome dimostrativo tanto nel significato di ‘questo è tutto quello che’ e quanto ‘tutto quello che’.
I pronomi identificativi sono stesso e medesimo, uguali agli aggettivi corrispondenti.
È molto usata, parlando, la forma lo stesso, per riferirsi a un fatto nel suo insieme (in pratica ha valore di avverbio: equivale a ugualmente). Es: La mamma gli ha detto di non uscire, ma Luigi è uscito lo stesso.
I pronomi indefiniti, come gli aggettivi indefiniti, indicano qualcuno o qualcosa che non viene precisato. Oltre alle forme corrispondenti all’aggettivo (altro, nessuno, ecc.), ci sono forme che servono unicamente come pronomi: qualcuno, chiunque, chicchessia, checché, ognuno, qualcosa, nulla, niente. Nessuno, nulla, niente quando vengono dopo il verbo si rafforzano con il non. Es.: Non ho visto nessuno; Non mi ha detto niente. I pronomi indefiniti negativi nessuno, niente / nulla possono essere sostituiti, rispettivamente, con gli indefiniti qualcuno, qualcosa nelle frasi interrogative: C’è nessuno? → C’è qualcuno?; Hai da rimproverarti nulla? → Hai da rimproverarti qualcosa?
È molto usato nella lingua parlata il pronome uno nel senso di ‘un tale’ (È venuto uno che vuole parlare con te), o come soggetto generico (Uno non sa più a chi credere). Come pronome uno si usa anche al plurale nell’espressione gli uni... gli altri (le une... le altre). È di uso ricercato altri, invariabile, riferito a persona singolare maschile. Es.: Altri potrebbe crederci, io no.
I pronomi relativi sono che (invariabile per tutti i numeri e generi), il, (variabile: la quale, i quali, le quali) e cui (invariabile).
- Il pronome che, più frequente, si usa con la funzione di soggetto (le donne che lavorano) o di oggetto diretto (il film che ho visto).
- Il relativo cui viene adoperato in funzione di oggetto indiretto e, in genere, è sempre preceduto da preposizione: L’argomento di cui parleremo; Gli amici con cui sono partito). La preposizione è facoltativa con il dativo (la ragazza (a) cui ho regalato il profumo) e manca quando il pronome è preceduto da articolo determinativo (Il romanzo, il cui autore non è famoso).
- Il pronome variabile il / la quale, i / le quali, può sostituire sia che sia cui. Con funzione di soggetto è di uso formale, mentre è assai raro con funzione di oggetto diretto. Nei complementi indiretti deve essere sempre accompagnato da preposizione (la persona alla quale / con la quale ho parlato). Può sostituire cui preceduto da articolo determinativo solo se viene posposto al nome che vuole specificare (il romanzo, l’autore del quale non è famoso). Si pospone anche preferibilmente a un indefinito oppure a un numerale, quando ha valore partitivo: Due dei quali; Ognuno dei quali.
È chiamato relativo misto il pronome chi quando ha il valore di colui che (o il quale), e colei che (o la quale). Un solo pronome, in questo caso, ha la stessa funzione (di soggetto o di altro complemento) in due frasi strettamente unite. Es.: Chi troppo vuole, nulla stringe (= Colui che troppo vuole nulla stringe). Un altro pronome relativo misto è il variabile quanto: Quanto hai affermato, mi preoccupa; Quante hanno ricevuto l’invito, sono intervenute alla festa.
I pronomi interrogativi ed esclamativi indicano, come gli aggettivi corrispondenti, una qualità o una quantità in forma di domanda o di esclamazione e sono: chi, che (che cosa; cosa), quale e quanto. Es.:Chi sei?; Che vuoi?; Quanti siete?; Che stupido!; Quanto ho sofferto!; Ho comprato due dischi: dimmi quale scegli.
Nella categoria degli avverbi si fanno rientrare parole ed espressioni dalla funzione molto diversa.
Come gli aggettivi, così anche gli avverbi si possono raggruppare all’incirca in tre grandi categorie: avverbi qualificativi, avverbi determinativi, avverbi valutativi. Vi sono poi gli avverbi interrogativi ed esclamativi.
Gli avverbi qualificativi indicano modalità o quantità non precisata. Si differenziano dagli altri avverbi perché quasi tutti possono avere le forme del comparativo e del superlativo e taluni possono anche essere «alterati».
1. Avverbi di modo
Gli avverbi di modo precisano e modificano il significato dei verbi o di altri tipi di parole che descrivono azioni e condizioni. Molti sono derivati da aggettivi con l’aggiunta della terminazione -mente, altri invece sono di altra forma.
Sono avverbi di modo: dolcemente, lentamente, silenziosamente, stranamente, freddamente, facilmente, difficilmente, aspramente, ecc. Ma lo sono anche questi: bene, male, volentieri, e altri che indicano atteggiamenti e posizioni del corpo: carponi, bocconi, ginocchioni, penzoloni, ecc. Inoltre, sono usati come avverbi (riferiti a verbi) anche gli aggettivi qualificativi, nella forma del maschile singolare: Corre forte; Parliamo piano; Vorrei vederci chiaro.
Esclusi quelli in -oni, gli altri possono avere le forme del comparativo e del superlativo: facilmente / più facilmente / facilissimamente; bene / meglio / benissimo (o ottimamente); male / peggio / malissimo / (o pessimamente); piano / più piano / pianissimo.
Alcuni avverbi di modo (non quelli in -mente o in -oni) hanno anche le forme alterate: benino, benone, maluccio, malaccio, pianino.
Sono molte anche le locuzioni avverbiali che hanno un significato di modo: in gran fretta, all’improvviso, di corsa, di gran carriera, a casaccio, di buona (o mala) voglia, a poco a poco, a lungo, in un baleno, a piedi, a voce, a memoria.
2. Avverbi di quantità
Gli avverbi di quantità (o misura) esprimono il concetto di quantità non precisata, riferito sia ai verbi, sia ad altri tipi di parole. Sono avverbi di quantità molto, poco, tanto, troppo, meno, più, parecchio, assai, abbastanza, quasi. (Molto, poco, tanto, troppo, sono anche aggettivi variabili: poche case, molti fiori).
Molto e poco hanno il comparativo (rispettivamente, più e meno) e il superlativo assoluto (moltissimo, pochissimo). Il superlativo di tanto è tantissimo.
Affatto significa ‘del tutto’, ma di per sé non ha valore negativo.
Quanto ha funzione di avverbio di quantità in frasi interrogative (dirette: Quanto costa?; o indirette: Dimmi quanto costa).
Gli avverbi determinativi indicano luogo e tempo.
1. Avverbi di luogo
Gli avverbi di luogo indicano posizione vicina a chi parla (qui, qua, quaggiù, quassù) o lontana da chi parla (lì, là, laggiù, lassù). La posizione vicina a chi ascolta sarebbe indicata da costì e costà (corrispondenti all’aggettivo dimostrativo codesto), che però si usano quasi soltanto per iscritto (parlando, molto poco fuori della Toscana). Funzionano come avverbi di luogo anche le particelle ci (e vi) (‘in questo luogo’ o ‘in quel luogo’) e la particella ne (‘da lì’).
Altri avverbi di luogo indicano genericamente vicinanza, lontananza, posizione: vicino, lontano, davanti, contro, dietro, dopo, presso, sopra, sotto, ecc., che possono funzionare anche come preposizioni.
2. Avverbi di tempo
Gli avverbi di tempo indicano circostanze di tempo: oggi, ieri, domani, ecc.; ora, adesso, allora, poi, dopo, prima, ancora; presto, tardi, subito; spesso, sempre, mai, già.
Tra gli avverbi di tempo hanno i gradi di comparazione presto, tardi, spesso (presto, [prima], prestissimo; tardi, più tardi, tardissimo, ecc.). Alterati: prestino, tardino, ecc.
Gli avverbi di affermazione, negazione e dubbio si usano per rafforzare, negare o mettere in dubbio ciò che è indicato da un verbo o da un’altra parola oppure come risposta a una domanda. Sono avverbi affermativi: sì, certo, certamente, esattamente (o esatto); sono avverbi negativi: no, non, né (‘e non’), neppure, nemmeno, neanche; sono avverbi di dubbio: forse, chissà, probabilmente, eventualmente; Sono avverbi di valutazione anche: purtroppo, per fortuna, fortunatamente, sfortunatamente.
Gli avverbi sì e no sono da considerare profrasi, nel senso che rappresentano una frase avente lo stesso significato di un enunciato presente nel contesto immediatamente precedente: es. Usciamo insieme oggi? Sì [usciamo] / No [non usciamo]. Il non e il no si comportano diversamente. Il non è un vero attributo avverbiale che si lega di solito a un aggettivo o a un verbo per indicarne il contrario (non bello = brutto; non parla = tace) o ad un altro avverbio o a un nome per escludere un concetto (non oggi = un giorno diverso da oggi; non decisione = una decisione che non è veramente tale). Il no è un’espressione che nega un’intera frase (Hai visto Paola? Risposta: No).
Si ricorda che alcune congiunzioni (comunque, benché, sennonché..?) svolgono anche la funzione di avverbio frasale.
Gli avverbi interrogativi sono quelli che introducono una interrogativa diretta. Possono distinguersi in interrogativi di luogo (dove?), di tempo (quando?), di modo (come?), di quantità (quanto?), di causa (perché?; come mai?). Quando introducono un’interrogativa indiretta svolgono la funzione di congiunzioni.
Alcuni avverbi interrogativi possono anche comparire in frasi esclamative, diventando quindi avverbi esclamativi: Dove sono capitato!; Come sono contento!; Quanto ti voglio bene!
La preposizione è una delle parti invariabili del discorso e serve a creare un legame tra le parole o tra le frasi. In una lingua come l’italiano la funzione delle preposizioni è importante per stabilire i legami tra le parole, mentre altre lingue, come il latino, si servono molto di più di altri sistemi, come quello dei «casi».
Sono considerate preposizioni, innanzitutto, di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, dette preposizioni (proprie) semplici.
Ogni preposizione può servire a formare con i nomi diverse espressioni preposizionali che nella struttura della frase possono svolgere funzioni diverse: di argomento nel nucleo, di circostante o di espansione al di fuori del nucleo.
Molte delle preposizioni che abbiamo nominato possono fondersi con l’articolo per formare le preposizioni (proprie) articolate: del, al, nel, dal, sul, ecc.
Possono essere usati come preposizioni anche alcuni avverbi, talvolta da soli, talvolta seguiti da una preposizione propria: dopo, prima, davanti, dietro, contro, senza, verso, sotto, sopra, fino a, attraverso, secondo, lungo, circa, tramite ecc. Es.: dopo le vacanze, dopo di te, davanti a scuola. Anche un aggettivo (lungo, vicino) può avere funzione di preposizione: lungo il fiume, vicino al negozio.
Hanno la stessa funzione delle preposizioni anche varie locuzioni più complesse: a causa di, per mezzo di, a proposito di, nell’interesse di, intorno a, senza (di), eccetto, durante, a vantaggio di, in confronto a, invece di, grazie a, di fronte a, in base a, a forza di, al centro di, a dispetto di, in quanto a, oltre a, incontro a, nonostante, a causa di, in conseguenza di, insieme con.
Alcuni esempi: Non esco a causa della pioggia; Parlava nell’interesse di tutti; Senza dì te non ci vado, ecc.
La congiunzione è una parte del discorso invariabile che serve a creare un legame tra due o più parole o frasi.
Le congiunzioni si dividono in due gruppi:
a) congiunzioni coordinanti
b) congiunzioni subordinanti
Le prime creano tra le frasi un legame di coordinazione, le seconde di subordinazione.
Molti elementi (dunque, quindi, tuttavia, anzi, però, senonché, infatti, perciò, ebbene, in realtà, peraltro, nondimeno), considerati tradizionalmente, nel sistema della lingua, come congiunzioni, in realtà svolgono la loro funzione prevalentemente sul piano testuale (tra blocchi di testo oltre che tra segmenti frasali). Anche elementi che svolgono funzione di congiunzione all’interno della frase o tra frasi, possono passare al ruolo di congiunzioni testuali (e, ma, comunque, benché, quando, perché).
Le congiunzioni coordinanti si dividono in vari tipi:
- copulative: servono a unire due parole o frasi, anche esprimendo negazione: e, ed, anche, né, neppure, nemmeno, neanche, inoltre, per di più;
- disgiuntive: separano due parole o frasi, escludendone una: o, oppure;
- avversative: contrappongono due parole o frasi: ma, però, bensì, anzi, tuttavia, invece, nondimeno, pure, eppure, piuttosto. Tutte queste congiunzioni hanno anche valore di congiunzione testuale;
- esplicative: precisano un’idea rispetto alla precedente: cioè, ossia, infatti;
- correlative: mettono in relazione due o più elementi per mezzo di congiunzioni copulative o disgiuntive: sia... sia, o... o, così... come, tanto... quanto, non solo... ma anche, né... né;
- conclusive: già segnalate sopra come congiunzioni testuali, servono a concludere quello che si è detto: dunque, quindi, perciò, pertanto, ebbene.
Le congiunzioni subordinanti si dividono in vari tipi:
- dichiarative: che, come.
- causali: perché, poiché, giacché, siccome, dato che, visto che, ecc.
- finali: perché, affinché, ecc.
- temporali: quando, mentre, appena (che), dopo che, prima che, dal tempo che, finché, ogni volta che, ecc.
- consecutive: così... che, tanto... che, tanto... da, in modo... da, ecc.
- concessive: benché, sebbene, per quanto, quantunque, malgrado che, ecc.
- condizionali o ipotetiche: se, purché, a condizione di, qualora, caso mai, posto che, nel caso che, ecc.
- modali: come, come se, ecc.
- comparative: più... che, meno... che, meglio... che, peggio... che, più di quello che, tanto più... quanto più, piuttosto che ecc.
Un uso errato di recente diffusione
Si segnala che l’uso della locuzione congiunzionale piuttosto che con valore di semplice disgiuntiva (o, oppure) è errato. Si tratta di un regionalismo di area lombarda che tende a diffondersi perché di aspetto più ricercato della semplice disgiuntiva, ma che ingenera confusione nell’interpretazione del senso del discorso. Piuttosto che implica una chiara preferenza tra più termini e quindi non può valere come semplice disgiuntiva. Es. Andrò in vacanza in Provenza piuttosto che in Spagna significa che preferirò decisamente la Provenza e che non sono davanti alla libera scelta tra le due destinazioni.
- eccettuative: (che esprimono l’«eccezione», cioè l’esclusione di qualcosa): fuorché, eccetto che, salvo che, tranne che, a meno che ecc.
- interrogative: se, come, perché, quando (alle quali si aggiungono gli avverbi dove, quanto, ... e i pronomi interrogativi che, quale,..).
Le interiezioni, esclamazioni e onomatopèe potrebbero sembrare i «rimasugli» del sistema linguistico: rappresentano invece una categoria di elementi linguistici molto particolari ma importanti.
Sono «parole» usate con grande frequenza da tutti nella lingua parlata, ma vengono anche messe per iscritto, soprattutto nella narrativa. Come sappiamo, nella comunicazione parlata, specialmente in quella più libera e spontanea, una parte notevole del senso dei discorsi è affidata proprio a queste espressioni sonore particolari e agli «effetti» di voce.
Tra le interiezioni, le esclamazioni, e le onomatopèe si può fare una distinzione solo approssimativa. Tra l’altro, tutte le parole (e quindi anche le interiezioni e le onomatopèe) possono essere pronunciate con un tono esclamativo e quindi sono anche esclamazioni.
Le interiezioni sono emissioni di suoni non nettamente articolati che per iscritto possono rappresentarsi con ah!, aaah!, eh!, eeeh!, uh!, oh!, uh!, mmh!, mah!, ahi!, ahimè!, ohimè!, bah!, boh!, toh!, ecc.
Con questi suoni, variamente prolungati e modulati, inseriti tra le parole del discorso, noi esprimiamo reazioni e stati d’animo dei più diversi tipi (disapprovazione, fastidio, meraviglia, dubbio, rassegnazione, ecc.): possiamo dire che ognuna di queste interiezioni vale per un’intera frase (poh! può valere ‘sono proprio soddisfatto’, oppure ‘quanto mi dispiace!’ o altre cose ancora: bah! di solito significa ‘non sono convinto, ma accetto ugualmente’; e così via).
A volte sono proprio le interiezioni che danno un significato specifico alle altre parole del messaggio.
Le esclamazioni sono normali parole che hanno un proprio significato, ma che si pronunciano isolatamente e con tono esclamativo. Ad esempio: bene!, bravo!, coraggio!, dai! (dal verbo dare), forza!, viva!, evviva!, al diavolo!, che pizza!, per carità!, accidenti!, perbacco!, oddio!, ecc.
Le esclamazioni sono molto usate, nella lingua parlata, perché, accompagnate da gesti e dal tono della voce, dicono efficacemente e brevemente quanto direbbe un’intera frase.
Le onomatopèe, come già sappiamo, sono espressioni che imitano i suoni e rumori che ci circondano. Alcune sono già adattate in forma di nomi o verbi, e sono perciò da definire piuttosto voci onomatopèiche (cinguettìo, ticchettìo, brontolare, mormorare, sibilo e sibilare, ululo e ululare, cigolìo, e simili). Altre sono ancora nella forma di pura imitazione del suono o rumore come viene colto dall’orecchio, e sono queste le vere e proprie onomatopèe: paff o pàffete, crack, patatràc, bum o boom, bang, chicchirichì, sgniff, zip, ecc., a ognuna delle quali corrisponde un significato abbastanza definito (paff o pàffete = schiaffo o qualcosa che sbatte; crack = rottura di un asse di legno o simili; bla bla = il parlare a vuoto; ecc.).
Esistono alcune onomatopèe un po’ particolari, che esprimono concetti ben precisi ed equivalgono a delle frasi: uffa! ‘sono proprio stufo’ (imita un gran sospiro); puff ‘questa faccenda non mi va’; puah! ‘che schifo!’; gulp! ‘che sorpresa!’ (imita il suono che si fa deglutendo a vuoto).
Gli effetti onomatopèici sono spesso ricercati nella poesia (si pensi ad alcuni componimenti di Giovanni Pascoli). Le onomatopèe vere e proprie sono ben presenti nei fumetti.
Morfologia flessiva e derivazionale
Per gli elementi essenziali di grammatica storica: