Il valore della parola

    Letteratura e teatro

    Guicciardini ai problemi linguistici giunse, non per amore del linguaggio in se stesso, per il gusto che un artista ha della parola, bensì per quel desiderio di chiarezza che si spingeva in lui fino allo scrupolo, per togliere dal suo scritto ogni difformità, ogni diseguaglianza che potesse distrarre il lettore dal concetto esposto nella sua pagina. La sua scrittura doveva perciò tendere alla massima regolarità. Per questo motivo il Guicciardini, che non era un letterato, viene ad acquistare un senso vivissimo del valore della parola, un gusto tutto suo dell’esattezza verbale.

    Lo storico fiorentino non componeva, come Machiavelli, commedie o capitoli, non aveva l’abitudine di citare versi nelle sue lettere o in altri suoi scritti; lesse però attentamente le Prose della volgar lingua del Bembo e, in base a quella lettura, propose a se stesso una serie di dubbi o quesiti ortografici che invece non preoccuparono affatto Machiavelli […].

     

     

    [Tratto con adattamenti da: Mario Fubini, La prosa del Guicciardini, in Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1948.

    Mario Fubini (1900 –1977), critico letterario e docente di Critica letteraria presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato socio dell’Accademia dei Lincei, direttore responsabile del Giornale Storico della Letteratura Italiana e della collana Classici Italiani della  Utet.]

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