"Storia d’Italia": il sacco di Roma

    Letteratura e teatro

    Il 6 maggio 1527, l’esercito imperiale composto da 35.000 soldati entra in Roma. Papa Clemente VII non ha preso i provvedimenti opportuni per difendere la città: fino all’ultimo ha sperato che fosse possibile un accordo diplomatico e  che le difficoltà dell’esercito (a corto di cibo e denaro e privato del comandante, morto in battaglia) impedissero l’attacco. Ora ogni resistenza è impossibile: Clemente VII si rifugia a Castel Sant’Angelo e la città è abbandonata alla furia e alla devastazione dei soldati lanzichenecchi. Nel libro 18 della Storia d’Italia Guicciardini descrive questo tragico evento, insieme alle cause che l’hanno provocato e alle pesanti conseguenze. Lo stile (la sintassi spezzata e incalzante, i vocaboli e le forme verbali scelte) si adegua al tema del racconto.

     

    Guicciardini inizia il libro XVIII descrivendo l’anno 1527: in poche righe, utilizzando un ritmo serrato e concitato riassume l’imminente catastrofe che sta per colpire Roma e l’Italia intera (cap.1):

     

    Sarà l’anno mille cinquecento ventisette pieno di atrocissimi e già per più secoli non uditi accidenti: mutazioni di stati, cattività di principi, sacchi spaventosissimi di città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte, di fuga e di rapine.

     

    Il 6 maggio le truppe spagnole penetrano nel quartiere di Trastevere, lasciato senza difesa e da lì, attraverso ponte Sisto, entrano in Roma. Guicciardini (cap.8) segue ora per ora il drammatico svolgersi dei fatti:

     

    Però il giorno medesimo gli spagnuoli, non avendo trovato né ordine né consiglio di difendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna, v'entrorono dentro; donde non trovando piú difficoltà, la sera medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di Roma.

     

    Ha inizio il saccheggio: i vocaboli usati rientrano soprattutto nell’area semantica della violenza, in modo diretto (preda, miseria, infamia) o per contrapposizione (cose sagre, reliquie onorate, degnità); i superlativi sottolineano la drammaticità di un evento che si dura fatica persino a immaginare:

     

    Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all'autorità e degnità de' prelati, ma eziandio a' templi a' monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre… Impossibile a narrare la grandezza della predala  qualità e numero grande de' prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da' soldati, massime da' fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne' tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dí la vita.

     

    La violenza dei lanzichenecchi non guarda in faccia niente e nessuno: la tragica sorte delle persone più deboli e dei luoghi sacri, abbandonati al loro destino, è sottolineata dall’uso dei verbi alla forma passiva e dal si impersonale:

     

    Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da' soldati per saziare la loro libidine. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de' santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de' loro ornamenti, erano gittate per terra.

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