Sardegna: testi

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    Da Salvatore Satta, Il giorno del giudizio (Padova, Cedam, 1977) [tratto dall’edizione Milano, Adelphi, 1990, pp. 35 e seg.]

     

    Col passare del tempo (intanto le case dei Corrales crescevano di piano in piano, e con esse crescevano tante case minori, cresceva San Pietro) le pecore cominciavano a lasciare le orme. I disgraziati proprietari di Ozieri, di Pattada, perfino di Campidano, seguivano mille meandri da un capo all’altro dell’isola, sostando presso i loro amicos de posada (poiché non c’erano alberghi si aveva in ogni paese una casa ospitale, con diritto di reciprocità) e gira e gira e rigira, le orme portavano alle case dei Corrales. Entravano quei pacifici proprietari del Logudoro, col loro costume nero, mortuario, la berretta ripiegata sulla testa, i pantaloni stretti come bende, e il lungo bàculo lucidato dal tempo, stretto nella mano come un inutile scettro.

    «Bonas dies, ziu Bainzu (Buon giorno, zio Bainzu)».

    «Bene bénniu (Benvenuto). E che novità a Ozieri (o a Pattada, o Buddusò, o Bonorva)» rispondeva ziu Bainzu.

    «Così stiamo» replicava quello.

    «Come, così! I pascoli di Ozieri sono tra i più floridi della Sardegna. Non è come qui, tutto pietre. E sete, sete tutto l’anno. Da otto mesi non è caduta una goccia d’acqua. E d’inverno neve e gelo. Si gelano anche i campani delle pecore. Quand’ero giovane, mi avevano richiamato ad Ozieri. Mi sarei gettato a brucare l’erba. Del resto, avete il bestiame lucido come uno specchio. Le vostre terre valgono tre volte le nostre». Poi, abbassando la voce, e come parlando a se stesso, ma con un masticato rimprovero: «Io avrei anche comprato qualcosa, da voi, ma voi non vendete ai nuoresi, perché dite che vi portiamo il furto e la rapina… Peccato». […]

    E Mariangela, la moglie di ziu Bainzu, la madre di tutti quei figli, entrava col vassoio e la caffettiera che era sempre pronta vicina al fuoco, senza guardare l’ospite, testimone muta e sorda, perché sapeva attenersi al principio fondamentale di vita, per sé e per gli altri: «Quel che fa il padrone è ben fatto».

    «Giusto Zaime, col quale sono amico di posata, mi ha detto: fidati di lui, se non ti sbriga lui, non ti sbriga nessuno».

    Ziu Bainzu aggrottava la fronte. «Ah, ti sei messo negli impicci allora». «No, no mi è capitato un guaio. Il gregge, mi hanno rubato. Era tutto quello che avevo». […]

    Dopo due giorni il gregge risorgeva dal nulla, come se una nuvola si fosse aperta, e l’avesse depositato dolcemente nella grassa tanca ozierese. E la fama di ziu Bainzu si spandeva per la Sardegna

     

    Da Gavino Ledda, Padre padrone (Milano, Feltrinelli, 1975) [tratto dall’edizione Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 196]

     

    Un giorno il capitano Federici, comandante della mia compagnia, mi ordinò di spargere l’insetticida nelle camerate e nei magazzini infestati dalle formiche. Finita l’operazione tutto sollecito, ritornai dal capitano e impalatomi sull’attenti, rigido come un tronco d’albero, gli dissi:

    “Ho morto tutte le formiche, signor capitano.”

    Al che lui, seduto sulla sua scrivania, alzò la testa, sgranò gli occhi e mi rimbrottò come se avessi insultato l’italiano.

    “Come sarebbe a dire, ho morto le formiche? Tu, hai ucciso le formiche!”

    “Signorsì.”

    “Tu vieni dalle spelonche, Ledda.”

    “Signorsì.”

    Altro episodio. Ero caporale di giornata e ispezionando la camerata trovai una porta con la maniglia rotta. Era mio dovere fare un rapportino al comandante in modo che provvedesse alla riparazione. Presi carta e penna e mi scervellai veramente per buttare giù due righe.

    “La maniglia della porta si è tagliata. Firmato cap. G. Ledda.”

    Il capitano mi fece chiamare.

    “Comandi, signor capitano,” feci appena entrato nel suo ufficio.

    “Il suo rapporto io non lo capisco. Come fa a tagliarsi la miniglia della porta? Forse si sarà rotta?”

    “Sì, è così!”

    “Ma come fai, a esprimerti così? Cerca di imparare a parlare e a scrivere. Qui ci sono maestri e letterati, fatti spiegare qualcosa. Tu dovrai fare il corso sottoufficiali a novembre prossimo e con il tuo italiano non passerai tanto bene. Cerca di farlo subito, capito?”

    “Signorsì.”

     

    Da Massimo Carlotto, Il mistero di Mangiabarche (Roma, edizioni e/o 1997) [pp. 97-99]

     

    Quella sera mi resi conto che a Cagliari i concerti blues erano una vera rarità. In quel periodo infuriavano i cantautori e altri ritmi, generi degni ovviamente del massimo rispetto, solo che non si trattava della mia musica. Mi rifugiai al Libarium, dove scoprii che un paio d’ore dopo si sarebbe esibito Alberto Cabiddu con i suoi Superpartes. Ero già bello “carico” quando lo vidi arrivare. Lo salutai con un secco: «Non mi avevi detto che in questa città non si suona blues».

    «Non me lo avevi chiesto, Alligatore» rispose sorridendo e poi domandò, diventando di colpo serio: «Ricordi il consiglio che mi ero permesso di darti?».

    «Certo. Di cambiare musica… che il blues mi aveva intaccato l’anima…».

    «Allora questa sera avrai l’occasione di incontrare altri suoni… Anche questi andranno dritti alla tua animaccia e ti faranno bene… Te la culleranno, te la riscalderanno».

    Non ci credevo ma poiché sono un ex musicista, e rispetto il lavoro dei colleghi, sapevo già che avrei ascoltato la sua musica. Al massimo mi sarei annoiato. Il primo pezzo Sa ena, in limba, cioè in lingua sarda, mi raccontò la storia di una rosa fiorita al mattino, in una terra di sogno e dolore dove le torri erano diroccate e gli alberi sradicati. Feci l’errore di chiudere gli occhi per ascoltare meglio e nonostante le palpebre abbassate mi resi conto di continuare a vedere i musicisti che suonavano. La seconda canzone, Milonga blanca, era zeppa di umori argentini e delle vicissitudini di un uomo che sta tornando a casa. Alla terza strofa mi resi conto che i musicisti avevano tre mani. Nel blues bisogna vendere l’anima al diavolo per suonare “oltre” la bravura, ma in quella musica c’era dell’altro. Lo scoprii presto: era musica che veniva da molto lontano, dal Caribe, dall’Africa e dal profondo della Sardegna. Arrivava da tutti i luoghi ma non voleva andare in nessun posto. Sapevo che quell’incantesimo che davvero mi cullava l’anima, come mi aveva promesso Cabiddu, sarebbe durato solo il tempo di quel concerto e che poi sarei tornato al mio straziante e amatissimo blues, ma ero felice di essere stato lì, in quel posto, quel giorno.

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