"Rosso Malpelo"

Letteratura e teatro

Nella novella Rosso Malpelo Verga, come narratore, si “eclissa”, si distacca, si rende invisibile, non commenta le azioni e il modo di pensare dei personaggi, ma li descrive nel loro agire e, grazie a un narratore popolare cui delega la narrazione interna, fa coincidere il suo punto di vista con il loro e con quello del mondo in cui vivono. Questa tecnica, che produce un effetto chiamato straniamento, verrà utilizzata soprattutto nel teatro di Bertolt Brecht [1].

 

Rosso Malpelo viene pubblicata per la prima volta nel 1878 in quattro puntate sul quotidiano romano Fanfulla, poi, nel 1880, sempre a Roma, come opuscolo nella collana Biblioteca dell'Artigiano, a cura della rivista Il patto di fratellanza. Rassegna mensile delle Società Operaie di Mutuo Soccorso e degli Istituti di Previdenza d'Italia. In questo periodo viene pubblicata anche l'inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino La Sicilia nel 1876  in cui si affrontava fra l'altro il tema del lavoro minorile nelle zolfare e nelle cave di sabbia.

 

La novella di Verga racconta la storia di un ragazzo che lavora in una cava di rena. Tutti lo chiamano Rosso Malpelo a causa dei suoi capelli rossi che, secondo una credenza popolare, sono segno di cattivo carattere e a causa di questa superstizione in paese diffidano di lui e anche la madre e la sorella lo maltrattano e lo respingono.

La novella inizia con la descrizione del protagonista:

 

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.

 

Verga descrive Malpelo utilizzando il punto dei vista degli operai della cava, immersi in un mondo primitivo e violento, dominato dalla superstizione e da assurde credenze.

 

I due perché usati nel testo hanno funzioni molto diverse: il primo indica un nesso causa-effetto (Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi), il secondo crea linguisticamente un legame  fra due affermazioni che non hanno alcun nesso e alcuna logica se non quella dettata dall'ignoranza e dalla superstizione (ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo).

 

La scelta di osservare la realtà con lo sguardo dei poveri che accettano lo sfruttamento inumano a cui vengono sottoposti come se fosse naturale e ineluttabile, permette a Verga di esprimere in termini oggettivi la sua visione pessimistica della società, incapace di cambiare e di evolversi. Il protagonista della novella rappresenta tutti gli infelici che condividono il suo destino, tutti i vinti, per questo non ha un nome proprio e viene indicato con l’ appellativo Malpelo o con pronomi (egli, ei, lo):

 

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica.

 

Il nero, il grigio e il rosso sono i colori con cui Verga dipinge la vicenda. Il rosso è simbolo di Malpelo e del suo tragico destino, ma anche della violenza del mondo dei minatori (i capelli rossi, la rena rossa); il nero e il grigio sono l’emblema della vita senza affetti del protagonista e della  miniera, un luogo in cui non ha accesso la luce del sole e neppure quella della speranza: il pane è bigio, l’ asino grigio, il buco nero, la terra (sciara) nera:

 

Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.

 

Verga usa altri colori (azzurro e verde) solo una volta, per descrivere il sogno di Malpelo: lavorare all’aria aperta, in mezzo alla natura:

 

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui.

 

In quel mondo disumano anche gli affetti più teneri si esprimono in modo violento: nella cava di rena rossa non c’è posto per le lacrime ma solo per il sangue e la schiuma. Ecco come Malpelo reagisce alla notizia che il padre è rimasto sepolto nella miniera, come un topo (aveva fatto la morte del sorcio):

 

Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.

 

Dopo la morte del padre – l’unico a provare tenerezza per lui – Malpelo conosce Ranocchio, un ragazzo storpio che lavora nella cava, si affeziona a lui e inizia a proteggerlo. Per insegnargli a difendersi dai soprusi, si comporta in modo duro e aggressivo:

 

Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli:  To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!

 

Malpelo è prigioniero di un mondo violento e ne accetta in pieno le regole, senza ribellione e senza alcuna speranza di cambiamento. Perciò, per insegnare loro la realtà della vita e le sue leggi spietate, picchia l’asino e il suo amico Ranocchio:

 

O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici:  Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!  Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio:  L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi  Oppure:  Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso.

 

 Quando anche Ranocchio muore, Malpelo, rimasto solo in un mondo disumano e ostile, si offre per  andare alla ricerca di un passaggio inesplorato nella miniera, un’impresa pericolosa perché c’è il rischio di non tornare mai più. Malpelo infatti scompare nella cava e di lui si perdono persin le ossa. Neppure la morte, però, pone fine alla superstizione e all’ostilità nei suoi confronti. Così termina la novella:

 

Ma ad ogni modo c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l’oro del mondo.

Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.

Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.



[1] Bertolt Brecht (1898-1956) è stato un poeta, drammaturgo e regista teatrale tra i più grandi e influenti del XX secolo. La recitazione praticata nel suo teatro si basava sul Verfremdungseffekt, cioè l'effetto di straniamento. Questa espressione, da lui coniata; indica la presa di distanza critica rispetto al mondo rappresentato in scena che si ottiene mostrando la visione abituale delle cose da un punto di vista diverso dal consueto e producendo così una deformazione. 

 

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