Il ritratto di Galileo di Vincenzo Viviani

    Letteratura e teatro

    Si propone di seguito un ritratto di Galileo scritto dall’astronomo e matematico fiorentino Vincenzo Viviani (1622-1703) che dal 1639, quando aveva 17 anni, fu suo discepolo. Legatissimo al maestro, di cui curò un’ampia edizione delle opere (1656), Viviani stese nel 1654 un fortunato Racconto istorico della vita di Galileo, scritto in forma di lettera al Principe Leopoldo de’ Medici (1617-1675), che rimase inedito fino al 1717, da cui è tratto il brano seguente.

     

    Fu il Sig.r Galileo di gioviale e giocondo aspetto, massime in sua vecchiezza, di  corporatura quadrata, di giusta statura, di complessione per natura sanguigna,flemmatica et assai forte, ma per fatiche e travagli, sì dell’animo come del corpo,accidentalmente debilitata, onde spesso riducevasi in stato di languidezza.Fu esposto a molti mali accidenti et affetti ipocondriaci e più volte assalito da gravi e pericolose malattie, cagionate in gran parte da’ continui disagi e vigilie nell’osservazioni celesti, per le quali bene spesso impiegava le notti intere. Fu travagliato per più di 48 anni della sua età, sino all’ultimo della vita, da acutissimi dolori e punture, che acerbamente lo molestavano nelle mutazioni de’ tempi.in diversi luoghi della persona, originate in lui dall’essersi ritrovato, insieme con due nobili amici suoi, ne’ caldi ardentissimi d’una estate in una villa del contado di Padova, dove postisi a riposo in una stanza assai fresca, per fuggir l’ore più noiose del giorno, e quivi addormentatisi tutti, fu inavvertentemente da un servo aperta una finestra, per la quale solevasi, sol per delizia, sprigionare un perpetuo vento artifizioso, generato da moti e cadute d’acque che quivi appresso scorrevano. Questo vento, per esser fresco et umido di soverchio, trovando i corpi loro assai alleggeriti di vestimenti, nel tempo di due ore che riposarono,introdusse pian piano in loro così mala qualità per le membra, che svegliandosi,chi con torpedine e rigori per la vita e chi con dolori intensissimi nella testa e con altri accidenti, tutti caddero in gravissime infermità, per le quali uno de’compagni in pochi giorni se ne morì, l’altro perdé l’udito e non visse gran tempo,et il Sig.r Galileo ne cavò la sopradetta indisposizione, della quale mai poté liberarsi. [...]

     

    Fu dotato dalla natura d’esquisita memoria; e gustando in estremo la poesia, aveva a mente, tra gl’autori latini, gran parte di Vergilio, d’Ovidio, Orazio e di Seneca, e tra i toscani quasi tutto ’l Petrarca, tutte le rime del Berni, e poco meno che tutto il poema di Lodovico Ariosto, che fu sempre il suo autor favorito e celebrato sopra gl’altri poeti, avendogli intorno fatte particolari osservazioni e paralleli col Tasso sopra moltissimi luoghi. Questa fatica gli fu domandata più volte con grandissima instanza da amico suo, mentre era in Pisa, e credo fusse il Sig.r Iacopo Mazzoni, al quale finalmente la diede, ma poi non poté mai recuperarla, dolendosi alcuna volta con sentimento della perdita di tale studio, nel quale egli stesso diceva aver avuto qualche compiacenza et diletto. Parlava dell’Ariosto con varie sentenze di stima e d’ammirazione; et essendo ricercato del suo parere sopra i due poemi dell’Ariosto e del Tasso, sfuggiva prima le comparazioni, come odiose, ma poi, necessitato a rispondere, diceva che gli pareva più bello il Tasso, ma che gli piaceva più l’Ariosto, soggiugnendo che quel diceva parole, e questi cose. E quand’altri gli celebrava la chiarezza et evidenza nell’opere sue, rispondeva con modestia, che se tal parte in quelle si ritrovava, la riconosceva totalmente dalle replicate letture di quel poema, scorgendo in esso una prerogativa solo propria del buono, cioè che quante volte lo rileggeva, sempre maggiori vi scopriva le maraviglie e le perfezioni; confermando ciò con due versi di Dante, ridotti a suo senso:

     

    Io non lo lessi tante volte ancora,

    Ch’io non trovasse in lui nuova bellezza.

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