"Mastro Don Gesualdo": il culto della roba

Letteratura e teatro

A differenza dei Malavoglia, Mastro Don Gesualdo non è un romanzo corale. Protagonista della storia non è una famiglia (quella dei Malavoglia) o una comunità (quella dei pescatori di Aci Trezza), ma un individuo solo e isolato, Gesualdo Motta, che da muratore (mastro), diventa ricco e poi attraverso il matrimonio, nobile (don è un appellativo delle persone benestanti).

 

Al centro del romanzo è il culto della roba, che provoca la distruzione degli affetti e genera solitudine e disperazione. Verga descrive una società lacerata e confusa in cui la nobiltà in declino ma chiusa nel suo orgoglio (a cui appartiene Bianca), viene soppiantata dalla borghesia (a cui appartiene Gesualdo) ricca ma incapace di trovare una propria identità; il popolo, violento e privo di qualsiasi valore umano e morale, si schiera in modo opportunistico con chi soddisfa i suoi bisogni. Il muratore che ha raggiunto la ricchezza è isolato all’interno del suo nucleo familiare e del mondo in cui vive. Gesualdo muore solo. Negli ultimi giorni tenta invano di condividere con la figlia Isabella l’attaccamento alla roba, che è stata al centro di tutta la sua vita:

 

Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla:  Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!... quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!... Lui non sa cosa vuol dire! - Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi:  Mangalavite, sai... la conosci anche tu... ci sei stata con tua madre... Quaranta salme di terreni, tutti alberati!... ti rammenti... i belli aranci?... anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!... 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze! E la Salonia... dei seminati d’oro... della terra che fa miracoli... benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!... 

 

Cerca anche di confidarle il suo segreto, lo scrupolo che gli pesa sulla coscienza: l’esistenza di due figli avuti dalla serva Diodata, ai quali vorrebbe provvedere:

 

 Senti!... Ho degli scrupoli di coscienza... Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non sarà molto per te che sei ricca... Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda... in punto di morte... se ho fatto qualcosa anch’io per te... […]

 

Ma la figlia, educata come una nobile, non può capire l’importanza che per il padre hanno i beni materiali e non può neppure condividere con lui il tormento del suo animo. Anche lei, infatti, ha un cruccio nascosto: il suo matrimonio è molto infelice. Il padre intuisce quel segreto e vorrebbe comunicare i suoi sentimenti e il suo affetto, ma il muratore Gesualdo Motta e donna Isabella Trao non possono interagire, hanno niente in comune se non la reciproca, disperata solitudine:

 

Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro.

 

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