Lettera sul romanticismo al Marchese Cesare d'Azeglio

    Letteratura e teatro

    Nel 1823 Manzoni scrive questa lettera al nobile piemontese Cesare d'Azeglio che in quello stesso anno aveva pubblicato l’inno sacro Pentecoste sulla sua rivista Amico d'Italia. D’Azeglio aveva subito fatto giungere la rivista a Manzoni accompagnandola con un biglietto molto cortese in cui interveniva nella polemica fra Classicisti e Romantici sottolineando la debolezza delle idee romantiche.

     

    La lettera con cui Manzoni risponde in difesa dei Romanticismo è da considerarsi un documento molto importante perché spiega con chiarezza quali siano le proposte del gruppo dei Romantici lombardi riuniti intorno al Conciliatore[1] riguardo all'arte e alla letteratura. La lettera a d'Azeglio venne stampata nel 1846 contro la volontà di Manzoni che, dopo averla riveduta e corretta, ne autorizzò la pubblicazione solo nel 1870.

     

    La lettera si articola in due parti. Nella prima Manzoni mette in luce soprattutto quello che ritiene sia uno dei maggiori meriti del Romanticismo: aver rifiutato la mitologia, presente in maniera massiccia nella poesia neoclassica. La mitologia, secondo Manzoni, è negativa da un punto di vista letterario perché consiste nell’imitazione priva di originalità di un passato ormai lontano che ha perso significato ai giorni nostri. La mitologia inoltre esprime un’idea del mondo contraria alla religione cristiana, una morale basata sulla ricerca del piacere e dei beni materiali e per questo voluttuosa, superba, feroce, ed egoistica:

     

    Ma la ragione, per la quale io ritengo detestabile l’uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla, non la direi certamente a chiunque, per non provocare delle risa, che precederebbero, e impedirebbero ogni spiegazione; ma non lascerò di sottoporla a Lei, che, se la trovasse insussistente, saprebbe addirizzarmi, senza ridere. Tale ragione per me è, che l’uso della favola è idolatria. Ella sa molto meglio di me, che questa non consisteva soltanto nella credenza di alcuni fatti naturali e soprannaturali: questi non erano che la parte storica; ma la parte morale era fondata nell’amore, nel rispetto, nel desiderio delle cose terrene, delle passioni, de’ piaceri portato fino all’adorazione, nella fede in quelle cose come se fossero il fine, come se potessero dare la felicità, salvare. L’idolatria in questo senso può sussistere anche senza la credenza alla parte storica, senza il culto; può sussistere purtroppo anche negli intelletti persuasi della vera Fede.

    Nella seconda parte della lettera Manzoni esamina in modo critico le idee romantiche, di cui non approva gli aspetti irrazionali e cupi, il guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca stravagante, una abiura in termini del senso comune.

     

    Del Romanticismo invece apprezza e difende la concezione dell’arte, che dichiara di condividere a pieno. L’arte deve fornire insegnamenti morali e civili, aprire la mente e proporre temi legati alla realtà e all’esperienza quotidiana che risultino accessibili e interessanti a un pubblico il più ampio possibile; in sintesi, avere l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo.

     

    L’arte dei tempi moderni trova la sua bellezza e la sua forza nell’utilità civile e morale e nell’aderenza alla realtà, contrapposte al vuoto, alla falsità, alla lontananza dalle persone comuni che caratterizzano quella del passato.

     

    Dove poi l’opinioni de’ romantici erano unanimi, m’è parso, e mi pare, che fosse in questo: che la poesia deva proporsi per oggetto il vero, come l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole; giacché il falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla, né elevarla; e questo trastullo medesimo è, di sua natura, instabile e temporario, potendo essere, come è desiderabile che sia, distrutto, anzi cambiato in fastidio, o da una cognizione sopravvegnente del vero, o da un amore cresciuto del vero medesimo. Come il mezzo più naturale di render più facili e più estesi tali effetti della poesia, volevano che essa deva scegliere de’ soggetti che, avendo quanto è necessario per interessare le persone più dotte, siano insieme di quelli per i quali un maggior numero di lettori abbia una disposizione di curiosità e d’interessamento, nata dalle memorie e dalle impressioni giornaliere della vita; e chiedevano, per conseguenza che si desse finalmente il riposo a quegli altri soggetti, per i quali la classe sola de’ letterati, e non tutta, aveva un’affezione venuta da abitudini scolastiche, e un’altra parte del pubblico, non letterata né illetterata, una reverenza, non sentita, ma ciecamente ricevuta.

    Ora, il sistema romantico, emancipando la letteratura dalle tradizioni pagane, disobbligandola, per dir così, da una morale voluttuosa, superba, feroce, circoscritta al tempo, e improvvida anche in questa sfera; antisociale, dov'è patriottica, e egoista, anche quando non è ostile, tende certamente a render meno difficile l'introdurre nella letteratura le idee, e i sentimenti, che dovrebbero informare ogni discorso. E dall’altra parte, proponendo anche in termini generalissimi il vero, l'utile, il bono, il ragionevole concorre, se non altro, con le parole, allo scopo del cristianesimo; non lo contraddice almeno nei termini.



    [1] Il Conciliatore, pubblicato per la prima volta a Milano nel 1818, era un periodico bisettimanale (usciva il giovedì e la

    domenica) chiamato anche Foglio azzurro per il colore della carta su cui veniva stampato. L’intenzione del giornale era

    quella di conciliare le opposte tendenze che in quel periodo stavano emergendo in Italia, in politica come in letteratura.

    In breve tempo, però, il Conciliatore assunse posizioni sempre più vicine a quelle dei romantici, contrarie alla

    dominazione austriaca e aperte alle idee di rinnovamento provenienti dall’Europa. Per questo venne soppresso dalla

     censura austriaca nel 1819.

     

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