L'utile e il bello: la polemica con "L'Antologia"

    Letteratura e teatro

    Leopardi ha rapporti di amicizia e stima con gli intellettuali e i politici toscani che fanno parte del giornale LAntologia fondato da Pietro Vieusseux (a loro dedica i Canti, usciti a Firenze nel 1831), ma è in netta opposizione riguardo alle idee sul ruolo e la funzione della letteratura. Un esempio di questa divergenza è la concezione di “bello” e “utile”. Il gruppo dell’Antologia ritiene l’“utile” – il “contenuto” – che ha come scopo l’informazione politica e la divulgazione della scienza, più importante del “bello” – lo “stile” – ed è quindi favorevole alla produzione di testi popolari, in grado di persuadere e di istruire: Alessandro Manzoni sarà l’interprete straordinario di questa tendenza. Leopardi ha dell’“utile” un’idea molto diversa: fin dai tempi antichi – sostiene – la politica e le scienze esatte (discipline secchissime) non sono mai riuscite a fare la felicità degli uomini perché solo ciò che è bello e piacevole (dilettevole) dà felicità ed è quindi davvero “utile” per la vita delle persone. Di questo scrive all’amico Pietro Giordani, collaboratore dell’Antologia, nella lettera del 24 luglio 1828:

     

    In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degli individui. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili, e la letteratura utile più veramente e certamente di tutte queste discipline secchissime; le quali anche ottenendo i loro fini, gioverebbero pochissimo alla felicità vera degli uomini, che sono individui e non popoli.

     

     

    In quello stesso anno riprende il concetto anche in un passo dello Zibaldone:

     

    Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de' pregi e de' piaceri di essi ec.ec., non si torrà dagli studi tutto il diletto, perchè anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli. Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno... quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile. settembre 1828.

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