"L'aquilone"

    Letteratura e teatro

    L'Aquilone, che fa parte della raccolta Poemetti, è un racconto e un ricordo insieme. Pascoli si trova a Messina (io vivo altrove), dove insegna. Sta arrivando la bella stagione: il sole di primavera (qualcosa di nuovo) suscita in lui sensazioni già provate (anzi d'antico) e, lentamente, fa affiorare ricordi dell'infanzia. Le viole appena nate lo fanno pensare ad altre viole, quelle che spuntavano ai piedi (ceppo) delle querce a Urbino, nel collegio dei padri Scolopi (convento dei cappuccini) dove studiava quando era bambino:

     

    C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
    anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
    che sono intorno nate le viole.

     

    Son nate nella selva del convento
    dei cappuccini, tra le morte foglie
    che al ceppo delle quercie agita il vento.

     

    Ora il ricordo ha preso il posto del tempo presente (un'aria d'altro luogo e d'altro mese/ e d'altra vita): il poeta, come indica il tempo dei verbi (si respira... è questa una mattina... siamo usciti), non è più a Messina ma a Urbino in un giorno di festa (non c'è scuola) e insieme ai suoi compagni sta andando a far volare gli aquiloni:

     

    Si respira una dolce aria che scioglie
    le dure zolle, e visita le chiese
    di campagna, ch'erbose hanno le soglie:

     

    un'aria d'altro luogo e d'altro mese
    e d'altra vita: un'aria celestina
    che regga molte bianche ali sospese...


     

    sì, gli aquiloni! È questa una mattina
    che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
    tra le siepi di rovo e d'albaspina.

     

    Il poeta si allontana un momento dall'immagine dei bambini in festa (erano... era... saltava… mostrava) per descrivere con attenzione e tenerezza la campagna ancora a cavallo fra l'inverno e la primavera: la vegetazione invernale (qualche mazzo rosso/di bacche) si alterna quella estiva (qualche fior di primavera/ bianco), il pettirosso è tornato, la lucertola sta uscendo timidamente dalla tana (il capino/mostrava):

     

    Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
    d'autunno ancora qualche mazzo rosso
    di bacche, e qualche fior di primavera


     

    bianco; e sui rami nudi il pettirosso
    saltava, e la lucertola il capino
    mostrava tra le foglie aspre del fosso.

     

    Poi Pascoli s' immerge nuovamente nel passato e nel ricordo. Ora è con i suoi compagni di gioco, in cima alla collina (balza): gli aquiloni volano nel cielo con le loro lunghe code, simili a comete, insieme al grido festoso dei bambini che emozionati, li seguono con il cuore in tumulto (l'anelo/petto) e gli occhi pieni di desiderio (avida pupilla), come se anche loro, portati dal proprio aquilone (porta tutto in cielo), si stessero sollevando nell'aria. Le parole, attraverso la ripetizione, accompagnano il salire della cometa di carta (S'innalza… S'innalza… Più su, più su). All'improvviso (in mezzo al secondo verso della terzina), un colpo di vento (ventata) e un grido acuto (strillo) spezzano l'incanto. Il poeta, come se assistesse in quel momento alla scena, si chiede:

     

    Chi strilla?

     

    Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
    ventoso: ognuno manda da una balza
    la sua cometa per il ciel turchino.


     

    Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
    risale, prende il vento; ecco pian piano
    tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.


     

    S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
    come un fiore che fugga su lo stelo
    esile, e vada a rifiorir lontano.


     

    S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
    petto del bimbo e l'avida pupilla
    e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.


     

    Più su, più su: già come un punto brilla
    lassù lassù... Ma ecco una ventata
    di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?

     

    Bruscamente alle grida festose e alle immagini liete nella mente del poeta se ne sono sostituite altre, dolorose e tristi, legate alla morte di uno di quei bambini. I verbi al tempo presente si alternano con quelli al passato per descrivere sia le emozioni che trasportano il poeta dentro al ricordo (sono le voci... le conosco... vi ravviso...) sia le riflessioni che quelle immagini gli suscitano rispetto alla vita presente. Allora si era disperato per la morte del suo compagno di giochi (piansi), ora, da uomo, pensa che andandosene così presto quel ragazzino (giovinetto) si è risparmiato i dolori e le delusioni dell'età matura: felice te, dice il poeta, che hai visto precipitare al suolo e infrangersi (cader) solo gli aquiloni; te felice che sei morto pieno di illusioni (persuaso), senza la dolorosa consapevolezza degli adulti, stringendo al cuore il tuo giocattolo preferito, caro (il più caro dei tuoi cari balocchi) come la fanciullezza perduta:

     

    Sono le voci della camerata
    mia: le conosco tutte all'improvviso,
    una dolce, una acuta, una velata...

     

    A uno a uno tutti vi ravviso,
    o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
    su l'omero il pallor muto del viso.

     

    Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
    e piansi: eppur, felice te che al vento
    non vedesti cader che gli aquiloni!


     

    Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
    solo avevi del rosso nei ginocchi,
    per quel nostro pregar sul pavimento.


     

    Oh! te felice che chiudesti gli occhi
    persuaso, stringendoti sul cuore
    il più caro dei tuoi cari balocchi!


     

    Oh! dolcemente, so ben io, si muore
    la sua stringendo fanciullezza al petto,
    come i candidi suoi pètali un fiore


     

    ancora in boccia! O morto giovinetto,
    anch'io presto verrò sotto le zolle
    là dove dormi placido e soletto...


    Meglio venirci ansante, roseo, molle
    di sudor, come dopo una gioconda
    corsa di gara per salire un colle!


     

    Meglio venirci con la testa bionda,
    che poi che fredda giacque sul guanciale,
    ti pettinò co' bei capelli a onda
    tua madre... adagio, per non farti male.

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