È mio intento riconsiderare, alla luce di altri passi della Commedia, l’enigmatico racconto che Dante mette in bocca a Ulisse (Inferno, XXVI, 90-142). Nel dirupato fondo di quel cerchio dove sono castigati i fraudolenti, Ulisse e Diomede ardono senza fine, in un’unica fiamma bicornuta. Spronato da Virgilio a dire in che modo abbia trovato la morte, Ulisse narra che separatosi da Circe, che l’aveva trattenuto più d’un anno a Gaeta, né la dolcezza del figlio, né la pietà che gli ispirava Laerte, né l’amore di Penelope poterono vincere l’ardore ch’era in lui di conoscere il mondo e i difetti e le virtu degli uomini. Con l’ultima nave e con i pochi fedeli che ancora gli restavano, si avventurò in mare aperto; ormai vecchi, giunsero alla gola dove Ercole aveva fissato le sue colonne. Su questo limite che un dio aveva segnato all’ambizione o all’ardire, spronò i suoi compagni a conoscere, giacché si poca vita restava loro, il mondo senza gente, i non percorsi mari antipodi. Ricordò la loro origine, ricordò che non erano nati per vivere come bruti, ma per cercare la virtù e la conoscenza. Navigarono verso occidente e quindi verso sud, e videro tutte le stelle dell’emisfero australe. Per cinque mesi solcarono l’oceano, finché un giorno scorsero una montagna, bruna, all’orizzonte. Parve loro alta quanto nessun’altra, e gli animi si rallegrarono. Ma quella gioia presto si mutò in dolore, poiché si levò un turbine che fece girare tre volte la nave, e alla quarta la affondò, come ad Altri piacque, e si richiuse su di loro il mare.
Questo è il racconto di Ulisse. Molti commentatori – dall’Anonimo Fiorentino a Raffaele Andreoli – lo considerano una digressione dell’autore. Secondo loro, Ulisse e Diomede, consiglieri fraudolenti, soffrono nella bolgia dei consiglieri fraudolenti («e dentro da la lor fiamma si geme / l’agguato del caval») e il viaggio del primo non e che un ornamento accessorio. Tommaseo cita invece un passo del De civitate Dei; e avrebbe potuto citarne un altro di Clemente Alessandrino, che nega che gli uomini possano raggiungere la parte inferiore della terra; Casini e Pietrobono, poi, tacciano il viaggio di sacrilegio. In effetti, la montagna intravista dal Greco prima che lo seppellisse Fabisso e la santa montagna del Purgatorio, proibita ai mortali (Purgatorio, I, 130-132). Giustamente osserva Hugo Friedrich: «Il viaggio si conclude con una catastrofe che non e mero destino d'uorno di mare, ma la parola di Dio» (Odysseus in der Hoik, Berlin, 1942).
Ulisse, nel raccontare la sua impresa, la definisce insensata («folle»); nel ventisettesimo del Paradiso c’è un rinvio al «varco folle d’Ulisse», all'insensata o temeraria traversata di Ulisse. L’aggettivo è quello che Dante riferisce, nella selva oscura, al tremendo invito di Virgilio («temo che la venuta non sia folle»), la sua ripresa e intenzionale. Quando Dante giunge sulla spiaggia intravista da Ulisse prima di morire, dice che nessuno ha potuto navigare quelle acque e farne ritorno; poi racconta che Virgilio lo cinge con un giunco, «com’altrui piacque»: sono le stesse parole usate da Ulisse nel rivelare la sua tragica fine. Carlo Steiner scrive: «Il poeta ha certo pensato ad Ulisse, naufragato in vista di quel lido. Ma Ulisse aveva voluto giungervi con le sole sue forze. Dante, novello Ulisse, starà , cinto di umiltà , aperto l’animo alla fiducia di Dio, come un vincitore su quello stesso lido, al quale lo ha condotto la ragione illuminata e sorretta dalla grazia». Ripete tale opinione August Rüegg (Die Jenseitsvorstellungen vor Dante, II, 114): «Dante è un avventuriero che, come Ulisse, calca sentieri mai calcati, esplora mondi che nessun altro ha conosciuto e si prefigge le mete piu difficili e remote. Ma qui si esaurisce il paragone. Ulisse intraprende a proprio rischio e pericolo avventure proibite; Dante si lascia condurre da forze superiori».
Avvalorano tale distinzione due celebri passi della Commedia. Uno è quello in cui Dante si giudica indegno di visitare i tre mondi ultraterreni («Io non Enea, io non Paulo sono»), e Virgilio gli rivela la missione affidatagli da Beatrice; l’altro è quello in cui Cacciaguida (Paradiso, XVII, 100-142) lo esorta a pubblicare il poema. Di fronte a simili testimonianze appare fuori luogo attribuire ugual valore alla peregrinazione di Dante, che porta alla visione beatifica e al miglior libro scritto dagli uomini, e alla sacrilega avventura di Ulisse, che si conclude con l’Inferno. Questa azione sembra il rovescio di quella.
Tale argomento, tuttavia, implica un errore. L’azione di Ulisse è indubbiamente il viaggio di Ulisse, perché Ulisse altro non è che il soggetto di cui si predica quell’azione, ma l’azione o impresa di Dante non è il viaggio di Dante, bensì la realizzazione del suo libro. Il fatto è ovvio, ma si tende a dimenticarlo, perché la Commedia è redatta in prima persona, e l’uomo che è morto è stato messo in ombra dal protagonista immortale. Dante era teologo; più d’una volta la stesura della Commedia gli sarà parsa non meno ardua, forse non meno rischiosa e fatale, dell’ultimo viaggio di Ulisse. Aveva osato forgiare arcani che la penna dello Spirito Santo appena accenna; l’intento poteva ben includere una colpa. Aveva osato considerare Beatrice Portinari quasi uguale alla Vergine e a Gesù [Cfr. Giovanni Papini, Dante vivo, III, 34.]. Aveva osato anticipare le sentenze dell’imperscrutabile Giudizio Finale, ignote anche ai beati; aveva giudicato e condannato le anime di papi simoniaci e aveva salvato quella dell’averroista Sigieri, che aveva divulgato la teoria del tempo circolare [Cfr. Maurice de Wulf, Histoire de la philosophie médiévale.].
Quali laboriosi affanni per la gloria, che è cosa effimera!
Non e il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Plausibili tracce di tale contrasto perdurano nel testo. Carlo Steiner ne riconosce una nel dialogo in cui Virgilio vinee i timori di Dante e lo induce a intraprendere il suo inaudito viaggio. Scrive Steiner: «Questo dibattito, che per poetica finzione ha luogo con Virgilio, in realta si verificò nella coscienza di Dante, prima di accingersi alla composizione del poema... E vi corrisponde l’altro del XVII del Paradiso con Cacciaguida, che riguarda invece la sua pubblicazione. Composta l’opera, poteva pubblicarla e sfidare l’ira de’ suoi nemici? E nell’uno e nell’altro dibattito vinse la buona coscienza del suo valore e dell’altezza del fine al quale tendeva» (Commedia, 15). In questi passi Dante avrebbe dunque simboleggiato un conflitto mentale; io suggerisco che lo simboleggiò anche, forse senza volerlo e senza supporlo, nella tragica storia di Ulisse, e che a tale carica emotiva questa deve la sua tremenda forza. Dante fu Ulisse e in qualche modo poté temere il castigo di Ulisse.
Un’ultima osservazione. Devote del mare e di Dante, le due letterature di lingua inglese hanno ricevuto un qualche influsso dall’Ulisse dantesco. Eliot (e prima di lui Andrew Lang e prima ancora Longfellow) ha insinuato che da quell’archetipo glorioso procede il mirabile Ulysses di Tennyson. Ancora non è stata indicata, che io sappia, un’affinità più profonda, quella dell’Ulisse infernale con un altro capitano sventurato: Ahab di Moby Dick. Questi, come quegli, costruisce la propria perdizione a forza di veglie e di coraggio; il tema generale e lo stesso, la conclusione e identica, le ultime parole sono quasi uguali. Schopenhauer ha scritto che nelle nostre vite nulla è involontario; entrambe le finzioni, alla luce di questo prodigioso giudizio, sono il processo di un occulto e intricato suicidio.
Poscritto del 1981
Si è detto che l’Ulisse di Dante prefigura i famosi esploratori che sarebbero giunti, secoli più tardi, alle coste dell’America e dell’India. Secoli prima della stesura della Commedia, questo tipo umano si era già dato. Erik il Rosso scopri l’isola della Groenlandia intorno all'anno 985; suo figlio Leif, agli inizi dell’XI secolo, sbarcò in Canada. Dante non poteva sapere queste cose. Lo Scandinavo tende a essere segreto, a essere come un sogno.