"Il fringuello cieco"

    Letteratura e teatro

    Nella poesia è il fringuello cieco che parla in prima persona. Racconta che quando aveva la vista non credeva esistesse il sole perché non riusciva a volare così in alto da poterlo vedere; poi venne catturato e non poté più volare nel cielo e vivere nel suo nido (il dì ch'io persi cieli e nidi). Quando infine gli uomini, perché cantasse meglio, lo accecarono pungendogli gli occhi con un ago (sentii gli occhi pungermi) e tutto intorno a lui, lentamente, si oscurò (s'anneriva lento lento), allora pensò che il suo sospetto era fondato (ahimè che fu vero) e che il sole si era spento per sempre al tramonto:

     

    Finch... finché nel cielo volai,
    finch... finch'ebbi il nido sul moro,
    c'era un lume, lassù, in ma' mai,
    un gran lume di fuoco e d'oro,
    che andava sul cielo canoro,
    spariva in un tacito oblìo...


    Il sole!... Ogni alba nella macchia,
    ogni mattina per il brolo,
    - Ci sarà? - chiedea la cornacchia;
    - Non c'è più! - gemea l'assiuolo;
    e cantava già l'usignolo:
    - Addio, addio dio dio dio dio... -


    Ma la lodola su dal grano
    saliva a vedere ove fosse.
    Lo vedeva lontan lontano
    con le belle nuvole rosse.
    E, scesa al solco donde mosse,
    trillava: - C'è, c'è, lode a Dio! -


    "Finch... finché non vedo, non credo"
    però dicevo a quando a quando.
    Il merlo fischiava - Io lo vedo -;
    l'usignolo zittìa spiando.
    Poi cantava gracile e blando:
    - Anch'io anch'io chio chio chio chio... -

     
    Ma il dì ch'io persi cieli e nidi,
    ahimè che fu vero, e s'è spento!
    Sentii gli occhi pungermi, e vidi
    che s'annerava lento lento.
    Ed ora perciò mi risento:
    - O sol sol sol sol... sole mio? -

     

    Tutta la poesia è giocata sull’onomatopea: sull’uso di parole che si sciolgono in suoni per riprodurre il canto dell'usignolo (Addio, addio dio dio dio dio...; Anch'io anch'io chio chio chio chio...), su suoni che si trasformano in parole per dare voce al fringuello (Finch... finché, finch... finch'ebbi, Finch... finché), su parole combinate in modo da mimare – conservando omunque il loro significato – il verso della cornacchia (ci sarà?), dell’assiuolo (non c'è più!), dell’allodola (c'è, c'è!), del merlo (io lo vedo).

     

    Nel saggio Il linguaggio di Pascoli, il critico Gianfranco Contini osserva:

     

    [...] Ricordate il passo del Fringuello cieco che comincia con Finch... Finch è una semplice onomatopea, un grido sfornito di contenuto nozionale, è una sillaba sola che evoca immediatamente la natura, anzi è un pezzo di natura messo lì sulla pagina. Senonché, giocando sull'equivoco fonico appunto fra evocazione immediata e parola dei vocabolari convenzionalmente riconosciuta, Pascoli insinua questo finch nel linguaggio normale, anzi lo fa diventare addirittura una particella, un elemento funzionale, nientemeno che la congiunzione finché («Finché non vedo, non credo»); poi torna a uscir fuori dal linguaggio normale nella direzione opposta verso la pura onomatopea, «Anch'io anch'io chio chio chio chio». [...]

     

    Pascoli affronta il tema della cecità anche in Myricae con la poesia I ciechi e nel Cieco di Chio, uno dei Poemi conviviali, riprende la leggenda di Omero, il poeta cieco dell'antichità classica, che nel suo errare giunge al santuario di Apollo, a Delo (Delias).

     

    La cecità permette di guardare “oltre”, di esplorare una dimensione diversa delle cose, al di là di ciò che appare agli occhi di tutti. È una metafora del modo in cui il poeta vede il mondo. Il fringuello, che crede solo nella concretezza e nell'oggettività, rimane prigioniero delle apparenze sensibili e non riesce a cogliere la realtà e la verità.

     

    La poesia, prima di essere inserita nei Canti di Castelvecchio, uscì sulla rivista Riviera Ligure nel 1902. 

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