Fonetica

    Storia linguistica d'Italia
    Sandro Botticelli (scuola), "Ritratto di Dante Alighieri"

    Nel vocalismo tonico, il sistema del fiorentino trecentesco, come quello dell’italiano standard di oggi, presenta sette vocali, con la distinzione tra le e e le o medio-alte e medio-basse. Il grado di apertura delle e e delle o all’epoca di Dante non è, ovviamente, ricostruibile, vista la mancata distinzione grafica tra i due foni, ma in molti casi non può che coincidere con la pronuncia attuale dello standard di base toscana. Sicuramente, rispetto a questo, il fiorentino all’epoca di Dante presentava qualche particolarità: sappiamo con certezza, per es., che la vocale della congiunzione e e della preposizione per era allora aperta (coerentemente con la derivazione da Ä• latina) e si sarebbe chiusa successivamente: di fatto, nella catena fonica quelle parole non vengono mai accentate e dunque le vocali sono state trattate come se fossero atone e le vocali atone sono sempre chiuse. Conforme al vocalismo tonico fiorentino (e italiano) è anche la presenza dei dittonghi ascendenti in sillaba aperta (uomo, piede). A tal proposito, però, è possibile indicare almeno tre particolarità della lingua del tempo:

     

    1) il dittongo è presente, se pure in alternanza con le forme monottongate, anche in contesti dove successivamente sarebbe stato completamente riassorbito, e cioè sia dopo consonante + r (priego, truovo), sia in qualche altra forma verbale, come niego ‘nego’ o rispuose;

     

    2) per influsso concomitante del latino, del provenzale e del siciliano, Dante (come poi la tradizione poetica posteriore; Serianni 2009: 56-62) evita il dittongo in alcune parole: omo, core, foco, loco, fera, vene, ecc.; anche qui, però, nel poema le forme non dittongate si alternano con quelle dittongate, che sembrano nel complesso prevalenti;

     

    3) vige, sostanzialmente, la regola del “dittongo mobile”, per cui, per es. nei paradigmi verbali, il dittongo si ha nella vocale tonica, ma non è mantenuto quando l’accento si sposta e quindi la vocale diventa atona; così si ha suona («il bel paese là dove ’l sì suona»; If  XXXIII, 80), ma sonare («non pur per lo sonar delle parole»; Pg XIII, 65).  

     

    Altra particolarità del fiorentino trecentesco documentata pure in Dante è la presenza di e tonica in iato nei congiuntivi dea e stea (e non dia e stia; alla III pers. pl., però, nella Commedia abbiamo dieno e stieno).

     

    Un problema non solo linguistico, ma anche filologico, è costituito dalla presenza di Dante di rime imperfette come lume in rima con come e nome e voi o noi (in rima con fui e sui); queste forme sono state accolte nell’edizione Petrocchi perché considerate rime “siciliane”, ammesse nella poesia antica sul modello dei testi della scuola siciliana, che presentavano talvolta rime del genere nelle versioni toscanizzate tramandate dai copisti (negli originali vigeva invece la rima perfetta, grazie al diverso sistema vocalico del siciliano); Castellani (2000: 517-524) ritiene però lecito ristabilire le rime perfette anche in questi casi, dove Dante sfrutterebbe «alternative fonomorfologiche presenti nell’uso toscano dell’epoca […] oppure suggerite dalla tradizione letteraria» (Manni 2003: 140).

     

    Naturalmente, alcune differenze rispetto allo standard posteriore, e che ritroviamo nei testi letterari, specie poetici, si spiegano come latinismi (è il caso di licito, vulgo, auro e laude: Serianni 2009: 47-55) oppure come gallicismi: sono tali, nel poema dantesco, le i al posto di e in dispitto (nel canto di Farinata) e respitto, entrambe garantite dalla rima.

     

    Nel vocalismo atono, pur nella tendenza a chiudere in i la e protonica (anche in fonosintassi), tratto tipico del fiorentino passato all’italiano, ci sono casi di conservazione (segnore ‘signore’, nepote ‘nipote’); molte alternanze (sia tra i ed e, sia anche tra o e u) sono dovute al condizionamento del latino  (così virtù accanto a vertù, littera a lettera, populo a popolo, occidere a uccidere), che spiega pure le numerose oscillazioni tra i prefissi de-/di- e re-/ri- (che caratterizzano tuttora l’italiano). Inoltre, sempre in protonia (anche sintattica) è documentato ancora nel Trecento l’esito en > an (sanese ‘senese’, sanza ‘senza’), mentre la vocale finale di vari avverbi è -e e non -i (dimane, stamane); lo stesso vale per diece ‘dieci’. Se molti di questi esiti nella Commedia sono garantiti dalla rima (che legittima pure le alternanze tra fore e fori) è più dubbia la scelta dantesca tra ogne e ogni, forme all’epoca ancora in concorrenza e attestate entrambe nel poema solo all’interno del verso.

     

    Ancora più ridotte sono le particolarità del consonantismo, in cui lingua dantesca, fiorentino trecentesco e italiano standard sostanzialmente convergono. Si è già fatto cenno alla fricativa palatale sorda tenue (< lat. sj) in bascio; certamente posteriore a Dante è la pronuncia come tale anche dell’affricata intervocalica in pace, diece, ecc. (le cui grafie, infatti, sono costantemente con c(i)). Che già all’epoca di Dante le occlusive intervocaliche sorde fossero a Firenze pronunciate spirantizzate (la cosiddetta “gorgia” toscana) è un problema molto dibattuto e comunque non desumibile dalle grafie dei testi dell’epoca (Serianni 1995: 137).

     

    Invece un tratto in cui si è avuto certamente un cambiamento nel tempo è l’esito del nesso lat. gl, che nel fiorentino dell’epoca di Dante è sistematicamente [ggj] anche all’interno di parola: tegghia, vegghiare e non teglia, vegliare, come si sarebbe avuto in seguito, probabilmente per reazione alla pronuncia popolare di figlio come figghio. Il nesso lat. -ng- sviluppa la nasale palatale («Vieni a veder la tua Roma, che piagne / vedova e sola»; Pg VI, 112), che è poi l’esito originario fiorentino; ma già anticamente sono documentate pure le forme con -ng-, che anzi nella Commedia sono prevalenti («quella che piange dal destro è Aletto»; If IX 47); analogamente, dal lat. -x- si ha a volte la sibilante alveolare intensa anche dove ha poi prevalso la sibilante palatale, come in lassa («Fama di loro il mondo esser non lassa »; If III, 49; in rima con bassa e passa) accanto a lascia («Lascia parlare a me»; If XXXIII, 44).

     

    Si ha poi la sonorizzazione della t intervocalica nel suffisso -tore (costante in Dante è la forma imperadore) e nei nomi astratti come beltade, virtude (documentati accanto a beltate, virtute); altre sonorizzazioni estranee al tipo autenticamente toscano ma diffuse nella lingua dell’epoca di Dante (e nella stessa Commedia) sono sovra ‘sopra’, nodrire ‘nutrire’, savere ‘sapere’. Qualche ulteriore, isolato caso di sonorizzazione, come sego ‘seco’ e figo ‘fico’ (entrambe le forme sono garantite dalla rima), si può invece spiegare come intenzionale settentrionalismo, usato forse con funzione mimetica (Manni 2003: 144), mentre varie alternanze tra sorde e sonore intervocaliche (o tra vocale e r) sono dovute all’opzione ora per la forma popolare toscana (e settentrionale), ora per quella latineggiante (così padre e patre, lido e lito, lago e laco); analoga spiegazione hanno opposizioni come iudicare/giudicare, ecc.  

     

    Infine, nell’italiano antico sono molto estesi (più di quanto lo siano nell’italiano moderno) i troncamenti, possibili anche in ver ‘verso’, me’ ‘meglio’, ecc. Anche le elisioni sono molto più frequenti che non nell’italiano standard posteriore (si elidono anche gli articoli plurali le e li) e lo stesso vale per le aferesi: l’articolo determinativo maschile il si può ridurre a ’l; del resto, nel fiorentino coevo, l’aferesi della i in parole inizianti con im- o in- era preferita all’elisione della vocale finale dell’articolo lo, come in allo ’ntelletto (esempio del Convivio dantesco; Bruni 2007: 44). Il fiorentino del Trecento (e lo stesso Dante) preferisce forme non sincopate come vespero invece di vespro, opera per opra, ecc. (ma nella Commedia le sincopi non mancano affatto, anche per esigenze metriche) e ancora in comperare, sofferire, diritto ‘dritto’. La sincope non avviene in molti avverbi in -mente formati con aggettivi proparossitoni uscenti in -le, come similemente.