De Vulgari Eloquentia: Libro I, 12

    Esaminando i vari dialetti italiani, Dante si sofferma sul volgare di Sicilia, che deve la sua straordinaria grandezza alla corte e alla personalità di Federico II e di suo figlio Manfredi, sovrani illuminati e nobili, ben diversi dai superbi principi italiani. Per questo, intorno alla Corte sveva, si era formata l’originale e altissima e originale esperienza poetica che sarà chiamata “Scuola Siciliana”.

     

    […] il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano […].

     

    Ma questa fama della terra di Trinacria, a guardar bene a che bersaglio tende, sembra persistere solo come motivo d’infamia per i principi italiani, i quali seguono le vie della superbia vivendo non da magnanimi ma da gente di bassa lega. E in verità quegli uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie. Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore e ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italiani più nobili d'animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni; e poiché sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano: ciò che anche noi teniamo per fermo, e che i nostri posteri non potranno mutare.

     

    (De vulgari eloquentia, libro I, cap. 12, §§ 2-4, edizione e tradizione a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, 1979)

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