Da "Il piacere": ritratto del protagonista

    Letteratura e teatro

    Nel primo capitolo del Piacere, D’Annunzio ci presenta Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo, mentre a Palazzo Zuccari, la sua residenza romana, attende l’arrivo di Elena, la donna di cui è ancora innamorato e che l’ha abbandonato per sposare un altro uomo. La descrizione dettagliata dell’ambiente mette in evidenza la ricercata e raffinata eleganza di cui il giovane ama circondarsi:

     

    Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.

    Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in majolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.

     

    Ma chi è Andrea Sperelli? Lo veniamo a sapere nel secondo capitolo del romanzo che inizia con un’ aperta dichiarazione di ostilità di D’Annunzio nei confronti del mondo borghese, responsabile di sommergere sotto il grigio diluvio democratico (nel 1882 si sono svolte elezioni a suffragio allargato) molte cose belle e rare, e fra queste anche l’antica nobiltà italica, dedita alla cultura, all’eleganza e all’arte:

     

    Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte.

     

    D’Annunzio detesta la società moderna perché la ritiene volgare, nemica della bellezza, della buona educazione (urbanità), del linguaggio elegante e colto (atticismo) che regnavano sovrani nel secolo scorso, rendendo amabile la vita. Il protagonista del romanzo, Andrea Sperelli, appartiene per tradizione familiare a questo mondo raffinato (classe arcadica) che sta ormai scomparendo:

     

    A questa classe, ch’io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell’amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L’urbanità, l’atticismo, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie.

     

    Andrea segue la tradizione familiare: è un gentiluomo colto ed elegante che ha ricevuto una straordinaria educazione estetica perché ha alternato lunghe letture con lunghi viaggi in compagnia del padre. Da lui ha ereditato il culto appassionato della bellezza, il disprezzo per la mediocrità e i pregiudizi, il desiderio sfrenato di piacere, le passioni estreme e l’abbandono a fantasticherie simili a quelle ricorrenti nelle opere di George Byron, il più importante poeta inglese, noto per la vita sregolata e fuori dagli schemi (inclinazione byroniana):

     

    Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intellettuale.

    Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre a punto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.

    Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.

     

    Andrea è curioso, sempre pronto a intraprendere nuove esperienze (prodigo di sé) e a viverle fino in fondo, seguendo l’indicazione che il padre gli ha dato fin da bambino: fare la propria vita come si fa un’opera d’arte, cioè esprimere il proprio sentire in assoluta libertà, non avere rimpianti, possedere senza essere posseduti (habere, non haberi). E Andrea, dotato di una sensibilità estrema (grade forza sensitiva) ma privo di forza di volontà (natura involontaria), si abbandona totalmente alle massime volontarie del padre senza accorgersi della loro potenza devastante e distruttiva:

     

    L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sè; poichè la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente se ben con lentezza.

    Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui."

    Anche, il padre ammoniva: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: ― Habere, non haberi."

    Anche, diceva: “Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra [p. tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni."

    Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.

     

    Così, nell’ultimo capitolo del romanzo, al termine di una torbida vicenda amorosa che lo ha visto diviso fra due donne, Andrea si ritroverà solo, svuotato di ogni energia morale e creativa:

     

    Aveva la sensazione, in bocca, come d’un sapore indicibilmente amaro e nauseoso che gli montasse su dal dissolvimento del suo cuore.

     

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